Difficile, per un’esperienza nata esplicitamente come controculturale,
mantenere la propria identità originaria, con il passare degli anni. Tanto
più se ti arride il successo di pubblico e il progetto ottiene una sorta di
riconoscimento ufficiale, all’interno del calendario degli eventi cittadini.
Superata la decina di edizioni, il Milano Film Festival sembra aver perso
parte di questo alone “sovversivo” (che disperatamente tenta di conservare,
promuovendo realtà cinematografiche solitamente marginali), e rischia di
diventare più che altro una buona occasione per mettersi in mostra per la
folla di pseudointellettual-alternativi che affollano il sagrato del
Piccolo, pieni di alcol e di sé.
Gli intenti e l’impressione globale rimangono notevoli, considerando tutte
le iniziative e le attività che i pochi organizzatori fissi ed il manipolo
di giovani volontari riescono a mettere in piedi. Tuttavia, come tutti i
progetti sotterranei baciati dal successo, il rischio è quello di farsi
inglobare non tanto dal mainstream (rischio da cui il MFF sembrerebbe essere
esente), bensì dal conformismo e, ancora peggio, dall’abitudine. Quello che
era un festival capace di stupire ad ogni edizione, si è trasformato in un
evento fisso e tutto sommato piuttosto prevedibile.
Forse è giusto così, si tratta semplicemente di raccogliere ciò che si è
seminato. Le messi sono rigogliose e non ci si può lamentare. Ma se
l’intento di base è un altro, se il Milano Film Festival vuole continuare ad
essere un’alternativa non soltanto alla cinematografia commerciale ma anche
a se stesso, allora si può fare di meglio.
Un po’ stupisce, considerando la ragguardevole cifra di oltre 2000 corti
pervenuti ai selezionatori, che fra i 51 finalisti del concorso
cortometraggi - la sezione centrale del MFF- figurino alcuni prodotti
davvero di scarso livello (basti pensare a prodotti insignificanti e
stilisticamente imbarazzanti quale il russo SLOSKAYA GORA). Non che ci si
aspetti, all’interno della rassegna, di vedere una serie di prodotti
patinati e rifiniti. Anzi, alcuni cortometraggi si sono contraddistinti,
nonostante la pochezza dei mezzi, grazie a freschezza e originalità di idee:
su tutti viene in mente il folle FLIEGENPFLICHT FÜR QUADRATKÖPFE del
venticinquenne Stephan Flint-Müller, che gioca ingegnosamente con i
cartelloni pubblicitari, le forme e gli abitanti di Berlino).
Strutturalmente, il cortometraggio è la forma cinematografica adatta alla
sperimentazione stilistica, poiché permette di concentrarsi per pochi minuti
su una qualche soluzione inedita o comunque particolare, senza la paura di
annoiare (come sarebbe invece per un medio o lungometraggio, in cui
l’innovazione tecnico-stilistica perde presto il suo interesse, se non è
sostenuta da un’adeguata struttura narrativa). Così, stupiscono
positivamente la meta-animazione di GET BIZZY, il surreale “passo-uno”
dell’ungherese EGYVEZÉRSZAVAS
VÉDELEM, e la forza visiva delle lumache meccaniche di 458NM.
Tuttavia, alcune delle prove più convincenti vengono da idee semplici ma ben
gestite, come nel caso dell’americano LIGHTEN UP, in cui due amici si
ritrovano a discutere della pratica di infilarsi delle lampadine del retto,
dando vita ad un dialogo brillante e dal ritmo sostenuto. O ancora dalla
semplice decontestualizzazione di forme filmiche comuni, come nel caso di
THE MAJESTY OF THE WETLANDS (Premio Fa’ la Cosa Giusta per la
promozione di stili di vita sostenibili), che applica il concetto formalista
di straniamento al genere documentario e si ritrova a seguire la vita
quotidiana di “animali” selvatici quali ombrelli, carrelli della spesa e
sacchetti di plastica.
Peraltro, il vincitore
del concorso cortometraggi,
il portoghese RAPACE, di João Nicolau non convince in particolar
modo, confermando la tradizione del Festival di premiare opere poco
significative. Miglior
lungometraggio fra i sei presentati, è risultato invece MARILENA
DE LA P7, del rumeno Cristian Nemescu, storia di marginalità e
adolescenza a Bucarest. I premi per miglior attore ed attrice,
istituiti quest’anno, sono andati a Martin Dubrenil per LE ROUGE AU
SOL e Anna Livia Ryan per WILLOW DRIVE.
Insomma, il giudizio è in un certo senso rimandato all’anno prossimo: il
Milano Film Festival potrà essere una buona occasione per stupirsi, o
tuttalpiù per bersi una buona birra in compagnia davanti allo Strehler.
Milano, 27:09:2006 |