 Marzamemi è un borgo di pescatori
fuori dal tempo e lontano da ogni luogo, eppure la piazza è piena, e la
gente è disposta a restare lì sino a tarda ora per la proiezione dei film,
non vi sono perditempo tutti assistono in religioso silenzio. Ciò è
comprensibile se si dà un’occhiata al programma di questa terza edizione del
festival. E’un programma vario, interessante e ben progettato.
Festival internazionale del cinema di frontiera, frontiera intesa, non
geograficamente, ma nella sua accezione più ampia del termine. Frontiere
territoriali, culturali, ma anche frontiere dell’anima e dei linguaggi.
E se è vero che la frontiera è il limite e anche vero che il limite
appartiene ad entrambi gli universi, spesso contrastanti, che divide. Quindi
cinema di frontiera come il luogo in cui le culture, le civiltà si
incontrano e si contaminano. Questa terza edizione sembra essere dedicata a
quei paesi e culture che trovano la loro identità nella definizione di
“cultura mediterranea”, e che non necessariamente si affacciano sul
mediterraneo. Spicca un po’ fuori dal coro il film muto di Murnau,
Aurora
accompagnato dal vivo dalla musica del “Ensemble Darshan”. Forse la
spiegazione risiede nel suo linguaggio per immagini: è celebre per il piano
sequenza che mostra l’incontro dell’Uomo con l’amante nella palude, ma anche
per l’uso della profondità di campo (all’epoca del tutto eccezionale). Due
segni di interpunzione assai presenti nei film qui presentati.I film in
concorso sono quasi tutti di taglio naturalistico e documentaristico e fanno
leva sui lunghi piani-sequenza per dare l’idea che la m.d.p., o la
telecamera digitale siano come un occhio che registra; e sulla profondità di
campo che viene usata per dividere il primo piano dallo sfondo a significare
il vuoto, l’incomprensione, la distanza.
Nel festival se c’è una frontiera nell’accezione negativa del termine, cioè
come ostacolo, come chiusura, è la mancanza di attenzione al cinema come
visione, a quell’aspetto che del cinema ricorda il suo essere un arte-fatto
e che lo slega dal tempo e dallo spazio reali, dove acquisiscono grande
importanza il montaggio e i raccordi. Il cinema della visione, della
finzione è altrettanto alto e lodevole del cinema naturalistico.
Viene il sospetto che dietro questa scelta estetica del festival se ne celi
una ideologica: nell’immaginario collettivo il cinema di visione è legato
agli studios, al cinema americano.
Bisogna sfatare anche un altro pregiudizio che aleggia pesantemente sul
Festival: il pensiero che sia sufficiente possedere una telecamera digitale,
magari che si lascia oscillare, e riprendere degli attori non professionisti,
magari gli anziani del proprio paese intenti a giocare a carte, per avere
come risultato un testo filmico originale, fresco ed interessante.
Il neorealismo ha fatto il suo tempo, potrà essere reinterpretato elaborando
un proprio stile personalissimo, ma non (sterilmente) imitato.
L’incontro con Donatella Finocchiario a Marzamemi

All’interno del
festival vi sono diverse rassegne, una delle quali curata da Sebastiano di
Gesù che porta il titolo di “La donna siciliana nel cinema”, omaggia la
suddetta rassegna il film Perduto amor di Franco Battiato,
presenzia Donatella Finocchiaro. In effetti questa giovane attrice, appena
trentenne, oggi è considerata l’emblema della femminilità siciliana
nell’immaginario cinematografico.
Nel pomeriggio raggiungo telefonicamente Donatella, concordiamo di vederci
nell’unico ristorante che si trova nella piazza di Marzamemi.
In mezzo al rumore di piatti e bicchieri, di gente che va e viene, comincia
un’intervista piacevolmente informale in cui Donatella si racconta.
Spesso, di lei scrivono che è approdata al cinema quasi per caso,questa è
una cosa che la infastidisce molto, perché in realtà vi approda, come spesso
accade per attori e attrici, dopo un lungo percorso di esperienze teatrali.
Donatella Finocchiaro è una ragazza catanese che si laurea in Giurisprudenza
e già nei primi anni di Università sperimenta una passione per il teatro,
prima da spettatrice, poi compie il salto. Comincia a frequentare dei
laboratori di teatro e danza. Ha 23 anni quando decide di mettere piede sul
palcoscenico, “sentivo il bisogno di avvicinarmi ad una forma
d’arte”. Assiste alla rappresentazione di “La casa di Bernarda Alba”, lo
spettacolo la rapisce, la coinvolge, esce dal teatro in lacrime.
Il suo primo ruolo è la principessa Uglyana in “La principessa Malena” di
Maeterlick messo in scena al Teatro dell’ Orologio a Roma.
Il primo dubbio amletico arriva presto: restare a Roma e cercare altre
scritturazioni, o, tornare a Catania e terminare gli studi?
“Poiché sono una donna con il senso del dovere molto spiccato, ritorno a
Catania.”
Si laurea, e da buon avvocato inizia il praticantato in uno studio legale.
Ma, ormai il teatro era entrato nei suoi pensieri,contemporaneamente
frequenta l’associazione teatrale “Molo 2” in cui sperimenta il metodo
stanislavkiano. Conduce una doppia vita: avvocato e attrice.
All’età di 25 anni supera i provini per entrare a far parte dello Stabile di
Catania.
Filippo Amoroso, allora direttore del teatro, la ricorda ancora per la sua
bellezza e la sua freschezza istrionica; la inserisce nello spettacolo le
“Troiane” di Micha van Hoecke.
Ma, ormai venticinquenne, e, con un’idea ben precisa su cosa fossero per lei
il teatro e la recitazione, Donatella diserta sempre più spesso le lezioni
allo Stabile, fino a quando ne viene espulsa.
Preferisce fare esperienza di forme teatrali meno tradizionali: partecipa al
festival di Pozna con una rilettura in teatro di gesto del “Cagliostro” e si
aggrega ad un gruppo che fa teatro di strada.
Arriva l’esperienza cinematografica: Roberta Torre la sceglie per
impersonare Angela nel film omonimo.
Donatella racconta che, fondamentale ai fini della sua interpretazione, è
stato conoscere la vera Angela, “di lei mi ha colpito quello sguardo pieno
di fierezza e orgoglio che si macchiava di malinconia e tristezza
ogniqualvolta parlava di suo marito e dei suoi figli.
E’ una donna che, pur avendo sofferto molto, sarebbe pronta a rifare tutto.”
Ancora giovanissima Donatella ha già all’attivo la partecipazione in altri
due film: Perduto amor di
Battiato e Maledetta libertà di Jalango,
che uscirà il prossimo autunno.
Le chiedo come vive il rapporto con i registi, i quali, solitamente, si
pongono come grandi manipolatori nei confronti degli attori. Il termine
manipolazione da me usato non le piace affatto.
Riguardo al rapporto attore-regista ritiene che debba essere fatto di
scambio, di comunicazione, perché lei è un’attrice molto curiosa e fa mille
domande riguardo al personaggio da interpretare, ha bisogno di sapere: su
un’analisi ragionata del personaggio innesta l’improvvisazione.
Salvatores, Garrone, Patierno, sono i registi con cui vorrebbe lavorare nel
prossimo futuro; sono registi che raccontano storie forti nelle quali le
piacerebbe cimentarsi.
Nonostante la celebrità raggiunta, Donatella resta a vivere a Catania con il
marito, anch’egli attore. Sa che questa è una scelta rischiosa per il suo
lavoro, potrebbe precluderle delle possibilità.
Di trasferirsi a Roma non ne vuole sapere, l’ambiente romano fatto di agenti
da rincorrere, di pellegrinaggi alle produzioni non le piace, “il mondo
romano è troppo vasto, mi intimorisce”.
Dei suoi progetti futuri non ne parla, forse per scaramanzia, anche se
certamente, viste le sue capacità drammatiche, l’attenderà una carriera
ancora piena di impegni e sorprese.
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