festival del film di locarno

66.ma edizione

 

Locarno 07 / 17 agosto 2013

 

recensioni

di Marco GROSOLI

> EDUCAçAO SENTIMENTAL di Julio Bressane

> HISTORIA DE LA MEVA Mort di Albert Serra

> how TO DISAPPEAR COMPLETELY di Raya Martin

> REAL di Kiyoshi Kurosawa

> SE EU FOSSE LADRAO... di Paulo Rocha

> U RI SUNHI di Hong Sang-Soo

 

SE EU FOSSE LADRAO... ROUBAVA
di Paulo Rocha
Portogallo 2013, 87'

 

Fuori Concorso

30/Lode

Figura capitale della cinematografia portoghese, a suo tempo violentemente squassata dai suoi esordi (Os Verdes Anos, 1963; Mudar de vida, 1966), Paulo Rocha è morto pochi mesi fa lasciando parzialmente incompiuta questa sua ultima, straordinaria opera, ultimata dai collaboratori seguendo le indicazioni da lui lasciate.

Inequivocabilmente consapevole del carattere terminale di Se eu fosse ladrao... roubava (la malattia lo costringeva da anni sulla sedia a rotelle), Rocha piazza la morte in esergo. Nei primi minuti, il protagonista Vitalino assiste il padre (Luis Miguel Cintra, suo pressoché immancabile attore-feticcio) al suo capezzale; la sua vita di lì in poi sarà all'insegna dell'inane reazione all'inevitabile, reazione riassumibile con un solo vocabolo: PARTIRE, lasciare l'immobilismo mefitico della terra natale, lasciandosi alle spalle l'oceano che lo separa dalla terra promessa, il Brasile.

Rocha stesso, tra gli anni Sessanta e Settanta, se ne lasciò alle spalle più d'uno, di oceani, autoesiliandosi nell'amato Giappone. Con ogni evidenza, il film parla anche di lui. La statuaria bellezza plastica delle inquadrature girate ex novo si mescola a numerosi estratti dei suoi film precedenti, quasi tutti. Tra le “nuove scene” e quelle estratte dalla sua filmografia, non cessa di crearsi un tessuto allusivo accidentato eppure serratissimo, un implacabile sistema di rime. Rocha infatti non ha mai fatto altro che narrare questo: correre via dalla morte per incontrare sempre di nuovo l'abbraccio fatale di Eros e Thanatos.

Ma, alla fin fine, è forse possibile raccontare qualcos'altro? Rocha sembra dirci di no. Se eu fosse ladrao... roubava ci ricorda con straordinaria vitalità quanto la morte sarà anche onnipresente, ma proprio per questo ininfluente. Siamo assediati da un infinito, interminabile ricominciare, ovunque ci giriamo, in ognuno degli anelli concentrici in cui tentiamo di muoverci: personalità individuale, Storia (mozzafiato, il modo in cui il film riusa vecchie fotografie, documenti originali e altri reperti del passato), cinema... Gli sforzi di “farsi una vita” saranno pure già dall'inizio marchiati a fuoco dall'ombra dello scacco – ma essi, come appunto quelli di Vitalino qui, finiscono per sprofondare nel chiacchiericcio sapiente delle filatrici (le donne della famiglia del protagonista), nel tessersi incessante di un'affabulazione che c inghiotte tutti, e al cospetto di cui è definitivamente insensato sopravvalutare il peso della nostra esistenza.

U RI SUNHI
di Hong Sang-Soo
Corea del Sud 2013, 88'
 

Concorso Internazionale

27/30

I film di Hong Sang-Soo, ormai, non si contano più. Con sempre più impressionante prolificità, il post-rohmeriano cineasta coreano continua a variare uno schema pressoché sempre identico, nato e proliferato sull'orlo della spaccatura tra i sessi.

Parzialmente tratto da un'esperienza dichiaratamente autobiografica, U ri Sunhi racconta di come tre uomini (un dottorando aspirante filmmaker, un regista in crisi personale, un professore a cui viene chiesta una lettera di raccomandazione) vedono e giudicano una ragazza da cui sono tutti variamente e vanamente attratti. Tre risposte ugualmente sbagliate, ma anagrammate tra loro, a un enigma che non può essere risolto perché non c'è proprio nulla da risolvere, i tre uomini si autoimprigionano nel linguaggio, condannandosi a non poter afferrare lo spazio. È evidentemente, e da sempre, nella morsa di questi due elementi che si dibatte il cinema di Hong, il quale mai come nel finale di questo film ha voluto mettere in chiaro la natura della posta in gioco. Il professore dà appuntamento a Sunhi, ma (complice una pausa pipì: è possibile immaginare un più esplicito richiamo alla differenza sessuale?) viene raggiunto per caso dagli altri due e lei finisce per scomparire: eccoli dunque tutti e tre vagare perduti in un luogo (un tempietto in un parco) desolatamente vuoto alla ricerca vana del loro miraggio.

Un tale finale è la cosa a un tempo migliore e peggiore del film. Migliore perché spiattella con bella trasparenza l'assunto essenziale del progetto – peggiore perché è una facile via d'uscita rispetto a tre storie le cui simmetrie reciproche non bastano a fugare l'impressione di una sostanziale mancanza di mutuo legame e di amalgama. Tre storie che rimangono insomma troppo avulse e separate tra loro – anche se va registrata la bella idea (che si spera Hong riprenderà in futuro) di variare l'ossessiva orizzontalità dei movimenti di macchina, degli zoom e delle panoramiche con cui il coreano traccia geometrie tra i suoi personaggi, ricorrendo per la prima volta a un sistematico uso della verticalità, all'alto e al basso.

In definitiva dunque un'opera forse frettolosa, che non riesce a tirare compiutamente le fila di complicazioni comunque interessanti (tra le pieghe dei tre ritratti maschili si rintracciano nessi di una certa acutezza) – ma il tassello di uno splendido e interminabile puzzle che i fan di Hong non potranno mancare.

EDUCAçAO SENTIMENTAL

di Julio Bressane
Brasile 2013, 84'
 

Concorso Internazionale

30/30

Cosa sono i sensi senza educazione? Pornografia. Contro quest'ultima, Bressane mobilita l'eccezionale inventiva figurativa del suo cinema, rivelandone tutta la forza splendidamente didattica.

Endimione e la luna. Impossibile, che un umano incontri una dea: non per questo essa non può trasmettergli il suo influsso. Un giovane virgulto incontra una donna più anziana, che lo inizierà alla scoperta dei sensi – non certo al loro abuso cieco e indiscriminato, ma all'inabissarsi diligente nell'alfabeto inclassificabile e in perenne metamorfosi che è loro proprio. Lo inizia alla cultura, in quanto sostanza vitale e multiforme, in quanto presupposto ineliminabile attraverso cui avere accesso al mistero del piacere.

Un paio di volte, il sesso è alluso senza equivoci, ma senza mai mostrare l'atto tra i due, sostituito da coreografie figurative che finiscono per imporsi ai nostri occhi come più vicine all'incontro erotico di quanto possa esserlo il contatto fisico in sé. La prima volta è lei a impartire la grammatica amorosa, e a condurlo alla consapevolezza che là dove dovrebbe esserci il cieco automatismo c'è invece la scoperta della forma, fonte insostanziale ma vitale che il giovane, la volta successiva, saprà padroneggiare e utilizzare per arginare il delirio dionisiaco a cui lei potrà quindi permettersi di abbandonarsi. È il momento decisivo in cui lui scopre che contemplazione è partecipazione – l'inaudito segreto dell'Azione che solo la disciplina dei sensi può dischiudere.

Il primo stacco del film è una vertiginosa ellissi “da fermi”. La donna, di spalle, guarda il giovane nuotare in piscina, dall'alto. Stacco, e lo scenario muta senza che lei si sia mossa di un passo: siamo in un viale alberato, lei è di profilo e il ragazzo le è ora accanto. Entrando nella casa di lei, la scuola che lo introdurrà nelle infinite e secolari stratificazioni del sapere, lui entra infatti nel senza-tempo: la scoperta del piacere avviene solo abbandonandosi alla lentezza di quella tartaruga che i due contemplano in giardino, al ritmo che costruisce una velocità e un movimento vedendo l'esistente bloccarsi ancora e ancora nelle invitanti spigolosità della Forma.

real
di
Kiyoshi Kurosawa
Giappone 2013, 126'

 

Concorso Internazionale

27/30

Passata la meteora del J-Horror (di cui fu capofila suo malgrado), Kurosawa Kiyoshi continua a inerpicarsi lungo i meandri di storie la cui contorsione segue le contorsioni della memoria, del rimosso che ritorna in forme subdole e la cui realtà (da cui il titolo) dribbla sempre a priori ogni prevedibilità. Più ancora di ciò, Kurosawa è ossessionato dalla natura spaziale che il dipanarsi della memoria finisce per assumere.

Ecco dunque che anche in film che, come questo, non possono dirsi folgoranti, in quanto si affidano troppo all'arzigogolo narrativo, Kurosawa continua a suggerire con mezzi squisitamente filmici come il punto di vista (dello spettatore come del personaggio) sia in sostanza un miraggio di falsa localizzabilità. In questa intricata storia in cui un giovane si sottopone a una macchina sperimentale attraverso cui penetrare nel cervello della fidanzata in coma per tentare di salvarla, la visione in soggettiva di chi procede all'”innesto cerebrale”, l'arguto “nascondino” tra le visioni e il punto di vista di chi le ha, il carattere “proiettivo” stesso degli effetti speciali digitali, sono tutte false piste, tentativi strutturalmente inetti di visualizzare un tessuto di relazioni la cui natura è definitivamente onirica, una scrittura automatica (quella matita che galleggia nel vuoto...) la cui essenziale astrazione ci è dato solo subodorare (ecco il perché del gusto kurosawiano per la rarefazione grafica e il vuoto).

Se siamo tutti prigionieri di una rete di significanti puramente immaginari, che cos'è dunque che può dirsi Real? Non questa rete in sé, ma il suo carattere spietatamente intersoggettivo, il fatto, cioè, che essa va tessendosi non solo al di là dei, ma proprio grazie ai nostri limiti, quei limiti che ci rinchiudono in una visione che crediamo nostra. L'azione immaginaria, inevitabilmente collettiva, che va formandosi sul crinale di questi limiti, ecco, questo è reale. E questa soglia, il film di Kurosawa riesce a toccarla e a restituircela pur con tutta la fatica e l'impiccio del suo procedere.

HISTORIA DE LA MEVA MORT
di Albert Serra
Spagna/Francia
2013, 148'

 

Vincitore Pardo d'Oro 2013

23/30

C'è un equivoco. E bello grosso. Salutato giustamente con favore dopo Honor de cavalleria (2006) e El cant dels ocells (2008), Albert Serra viene ora consacrato con un'opera che non segna che una netta, megalomane decadenza precoce. Quasi due ore e mezza per seguire Casanova nei Carpazi, e lì incrociare la traiettoria di Dracula. La parabola è chiara: l'estetica, giunta al punto estremo di compiacimento dell'accordo tra i sensi e la forma, arriva a spaccarsi, e il percettibile dilaga dunque senza più controllo, emorragico: un qualcosa che assomiglia irresistibilmente alla morte.

Il peccato mortale di Serra è quello di aver perso, rispetto alle prime opere, la sensibilità necessaria a manovrare lo snodo sfuggente e prezioso che lega insieme, separandoli, la Forma e l'Informe. Serra semplicemente li separa e basta, e li piazza in una comoda, facile successione causal-temporale – laddove il disfacimento invece presiede all'originario emergere stesso della forma, non solo alla sua rovina. Crede insomma che per essere Sokurov basti mostrare Casanova che mangia rumorosamente e caga tra un delirio verbale e l'altro, senza minimamente scomodarsi a dirigere questi monologhi (che riempiono tutta la prima parte ambientata nella sua dimora) e lasciandoli nei loro prolissi balbettamenti. Che basti segnalare il giro di boa tra l'esteta e il mortovivo (e le rispettive prospettive) mostrando con dovizia di dettagli lo squartamento di un bue. Che dopo aver messo queste bandierine ci si possa permettere di adagiarsi su un digitale brutto e sgranato, sull'abuso facile di silenzi e tempi morti, su luci e quadri un tanto al chilo – eh già, tanto vince l'informe, che bisogno c'è di scomodarsi?
Poi, certo, chi ci vuole cascare si accomodi e ci caschi pure.

HOW TO DISAPPEAR COMPLETELY
di Raya Martin
Filippine 2013, 79'
 

Fuori Concorso

26/30

 Due-tre coordinate narrative semplici semplici. Filippine. Una famiglia con padre alcolizzato nullafacente, madre frustrata (e dunque religiosa) e figlia che percepisce con antenne ipersensibili tra le pieghe della casa che qualcosa non va: la pentola ribollente esploderà con una violenza financo demoniaca.

Quanto basta per un horror. Raya Martin, oltre a innestare (felicemente) il suo solito sottotesto postcoloniale (qui una sorta di utopico revanscismo dell'innocenza che l'esperienza coloniale ha fatto perdere per sempre), si dedica a incessanti, meticolosi arzigogoli formali: la sua videocamera scava, in forme basiche e pulite eppure estenuate, nel vuoto di una frustrazione senza nome e senza identità disegnando sul suo orlo riccioli visuali – in attesa dell'esplosione.

Ecco: il problema è l'esplosione. Fattasi attendere lungamente, la deflagrazione della violenza repressa, accumulata e suggerita da Martin con molta sensibilità scena dopo scena, si risolve in un furore anarchico (auto)distruttivo che francamente lascia un po' il tempo che trova. Era lecito aspettarsi qualcosa più. Ma forse questo amaro in bocca è voluto e ricercato, dal momento che il film inizia guardando negli occhi lo spettatore e dicendogli che non ha il diritto di aspettarsi nulla più dell'apocalisse nella sua infinita gratuità. Se dunque rimane (eccome) il sospetto che l'apocalisse abbia conosciuto forme di rappresentazione migliori di questa, resta ammirevole tutta quella parte del film (quella antecedente l'esplosione) in cui la gratuità si è conservata, con disciplina, funzionale all'illustrazione di una frustrazione senza volto.

SITO UFFICIALE

 

66.mo festival di locarno

Locarno 07 / 17 agosto 2013