63.mo
festival del film
Locarno, 04 / 14 agosto 2010
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di
Marco GROSOLI
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morgen di Marian Crisan
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BELI BELI SVET di Oleg
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LA LISIERE di Géraldine
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pietro
di Daniele Gaglianone
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Burta balenei di Ana Lungu e Ana Szel
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morgen
di Marian Crisan
Francia/Romania/Ungheria 2009, 100'
Concorso Internazionale
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26/30 |
Scivoloso, il confronto tra civiltà. Ancor più
scivoloso è tirare in ballo l’”intolleranza”, l’”immigrazione clandestina” e
quant’altro. Morgen ci prova,
e nella sua apparenza raffazzonata qualcosa riesce comunque a indovinarlo.
Confine tra Ungheria e Romania. Nelu, guardiano del supermercato, si imbatte
in un clandestino turco che tenta di raggiungere la famiglia in Germania. Lo
tiene in casa, a suo rischio e pericolo. Prova goffamente a fargli passare
la frontiera, più o meno con lo stesso risultato che ottiene nella prima
scena, quando lo beccano alla dogana con dei pesci pescati in Ungheria che
deve buttare se, con buona pace dell’Europa unita, vuole rientrare in
Romania.
Nelu e il turco non hanno molto da dirsi, e comunque non hanno alcun mezzo
per capire il linguaggio dell’altro. E quindi il rischio di cadere in un
elogio facile e stucchevole della solidarietà interculturale viene evitato.
Cos’è allora che rende Morgen non solo guardabile, ma anche un oggetto
passabilmente simpatico?
È Nelu. Nelu, lontano dal peso forma, è l’inespressività fatta persona. È
una massa amorfa che attraversa disordinatamente inquadrature (spesso fisse)
il cui disegno è altrettanto amorfo. Nelu finisce per risultare interessante
proprio perché è questo “quid” senza arte né parte, che rumina passivamente
dentro l’inquadratura. In altre parole, è una singolarità qualunque: ed è
solo questo che rende potabile la prospettiva “multiculturale” del film.
L’”incontro tra identità” ci importa poco, a meno che non ci sia di mezzo,
appunto, l’assenza di identità. In quel caso, ci si trova invece dalle parti
dell’universale. E Nelu, fisicamente, quest’assenza di identità di fatto la
incarna, la incarna pesantemente. È una “grandezza negativa”, per così dire.
Bisogna anche riconoscere che il film sfiora uno dei temi più felicemente
esplorati dalla nuova recente “wave” rumena: il confine labile tra la
legalità e il suo opposto. Nelu non si scontra tanto con la legge e con la
rigidità dei confini, quanto con la loro imprendibile labilità. Se non
riesce a fronteggiare la polizia di frontiera, è perché questa sta con i
piedi in due scarpe: Nelu rimane spiazzato e paralizzato dal fatto che
proprio i poliziotti gli dicono: sappiamo tutto, sappiamo dove stanno i
clandestini, e non vogliamo affatto cacciarli, purché stiano tranquilli. E
“tranquilli” che cosa vorrebbe dire?
Purtroppo, però, il film non tiene fede a questa contraddizione, e cade
nella tentazione di linearizzarla un po’. Quando si tratta di tirare le fila
e di ravvivare le tonalità emotive (cioè alla fine), c’è l’immancabile e
retorico scontro tra Nelu e le forze dell’ordine, e conseguente “eroica”
infrazione in favore del turco, portato coraggiosamente al di là delle
frontiere. Pazienza: è già tanto che l’imprevedibile presenza scenica di
Nelu abbia dato un potente scossone al “politicamente corretto” che stava in
agguato pronto a dilaniare il film. |
pietro
di Daniele Gaglianone
Italia 2009, 82'
Concorso Internazionale
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25/30 |
Pietro ha 28 anni, per mestiere distribuisce
volantini e ha un fratello tossicodipendente, col quale vive in una modesta
casa di periferia. In altre parole: all’inferno. Nel film di Gaglianone, il
luogo è tutto o quasi. Non ha connotazioni geografiche precise, ma è
comunque un luogo sommamente ostile, avido e spietato. A vivere in
quell’anonima periferia, non aiuta certo l’ipersensibilità di Pietro, né la
sua timidezza forse un po’ tarda, comunque poco reattiva. È sostanzialmente
un puro, un buono, un innocuo. Conosce una ragazza altrettanto sottomessa,
ma la loro provvisoria intesa finirà male.
In sostanza, per Gaglianone Pietro è una lastra riflettente. Più che un
personaggio, è un pretesto sul quale rimbalza il vero perno del film, la
descrizione del (terrificante) ambiente di emarginazione sociale che gli sta
intorno. Per cui Pietro sta lì, neutro, inerme, sbarra gli occhioni, ogni
tanto fa qualche faccetta. E subisce, incassa, subisce, incassa. Non sarà
certo uno spoiler se diremo che alla fine Pietro scoppia, e dopo tanto
patire finalmente (e traumaticamente) agisce.
“Prima non ci vede, e poi ci vede”: è Michele Strogoff, del quale Pietro
adocchia le sorti in un volume lasciato dalla madre. E anch’egli è come
questo ritornello da lui sovente ripetuto. “Prima non ci vede”, ed è quando
invece Pietro vede troppo, quando non fa che registrare gli stimoli ostili
dell’ambiente che gli sta intorno (non a caso Gaglianone lo confina spesso
“alla periferia” dell’inquadratura, in posizione subordinata rispetto
all’ambiente che occupa decisamente il posto d’onore). Ma appunto vede
troppo, vede cose che non dovrebbe vedere, cose troppo dure da vedere, e
allora spesso chiude gli occhi, e il film con lui si nasconde dietro a uno
schermo nero, o sceglie il fuorifuoco totale. Così, il “dopo ci vede” sarà
quando invece Pietro non ci vede più, e agisce. Violentemente.
Un film teso ed essenziale, tutto votato a quest’asse tra l’ambiente e il
personaggio che lo riflette suo malgrado (soffrendone): è il suo merito. Si
nota altresì una certa disposizione a soffermarsi sul disagio, a infilare le
mani nel vivo per così dire (la lunga scena della “sclerata” del fratello
nell’autobus dopo la droga). D’altra parte, questo congegno in fondo
tradizionalmente melodrammatico appare un po’ troppo meccanico. E risulta
inevitabile chiedersi: cui prodest? Che cosa dovremmo cavarne? Che le
periferie sono brutte, cattive e depersonalizzanti?
Il finale sintomatizza bene questa duplicità irrisolta. Da una parte, è la
cosa migliore del film: una lunga, sconclusionata e delirante confessione
davanti a un commissario di polizia che… non c’è, perché un controcampo
rivela la sedia vuota – come dire: Pietro è una sorta di macchinetta
programmata da ciò che lo circonda, ma totalmente estraneo e tagliato fuori
dalle dinamiche di quel mondo. D’altro canto, anche in questa scena spira,
come in tutto il film, una certa aria sospetta, si sente quasi che il film
abbia voglia di “farci paura” con le situazioni borderline che ci sbatte
davanti. E questo calcare la mano sulla “terribilità” di ciò che si vede è,
da sempre, un modo un po’ borghesotto e deamicisiano di sentirsi distanti
dal “mondo perduto”. |
BELI BELI SVET
di Oleg Novkovic
Serbia/Svezia/Germania 2010,
121'
Concorso Internazionale
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26/30 |
Un ex pugile, ora gestore di un bar. Il suo
coach, a cui era attaccatissimo, è morto da anni. Ne incontra la figlia,
bellissima, e comincia con lei una relazione sempre meno lecita. Sua madre
intanto esce di prigione (era stata lei ad avere ucciso il coach, suo
marito). Le cose si complicano.
Il progetto che sta dietro a Beli
beli svet, invece, è abbastanza trasparente. Si tratta di prendere di
petto il melodramma senza arretrare nemmeno davanti agli eccessi lirici più
sconsiderati, a cominciare dalle canzoni strappalacrime che di punto in
bianco i personaggi (variamente miserandi, derelitti e disperati), si
mettono a cantare.
Gli eccessi lirici Novkovic li va a cercare direttamente sulla pelle dei
protagonisti: non tanto sulla loro fisionomia (comunque abbastanza
eloquente), quanto sull’espressività livida e rigonfia di ognuna delle loro
azioni. Non c’è, in Beli beli svet, letteralmente nessuna scena che non
sembri espandersi quasi in via “gassosa” a causa dell’indugio svergognato
con cui ci si attarda su ogni minimo gesto. Gesto che quasi sempre è
frenetico, ostile e selvaggio; colto quasi sempre “addosso” ai personaggi.
La teatralità, insomma, viene così tanto esasperata da schiacciare il
melodramma. È vero che ci sono stilemi melodrammatici pesantissimi, fino
alla didascalia: il paesaggio che fa da controcanto umorale allusivo; la
folla di operai che stazionano inoperosi nei dintorni e che periodicamente
viene inquadrata, per preparare la sequenza finale in cui rivolgeranno alla
macchina da presa una rabbiosa elegia degli sconfitti che, nel suo
intrecciare sentimento e sostrato economico, è il non plus ultra del
melodramma. Ma appunto, il melodramma finisce per liquefarsi
nell’espressività fisica dei personaggi, martellata ogni singolo secondo.
Anche perché la trama, per metà del film è bloccata dalla presenza ancora
vivissima del morto (il coach) all’ombra del quale vivacchiano tutti i
personaggi – e per l’altra metà è una valanga che travolge i personaggi ben
oltre il susseguirsi ordinato di una “narrazione”. E così, il melodramma si
liquefa così tanto che, a un certo punto, sbatte contro ai suoi più
ingombranti ed ovvi antenati: la Tragedia e il Mito. Perché da un dato
momento in poi cominciano a saltar fuori senza ritegno la cecità, l’incesto
e via edipeggiando.
Tutto questo ribollire passionale, insomma, man mano che il film procede
sembra collocarsi su intenzioni programmatiche che tutto sommato conosciamo
già. Ci hanno già provati in tanto (i nomi noti sono troppo ovvi, facciamone
uno meno noto: Piscicelli). Novkovic rischia e non rischia, si tiene su
binari già battuti ma con un’energia e con una teatralità caparbia che in
qualche modo si fa apprezzare. |
LA LISIERE
di Géraldine Bajard
Francia/Germania 2010, 100'
Concorso Cineasti del Presente
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27/30 |
Dopo un iter scolastico di altissimo livello, e
dopo aver collaborato con nomi prestigiosi (Valeska Grisebach, Claire
Denis), Géraldine Bajard (svizzera “apolide” vissuta un po’ dappertutto)
esordisce dietro la macchina da presa.
E per un po’ si teme il peggio. Dietro a una scenografia e a una fotografia
leccatissime e di allucinante perizia, si subodora un po’ la pericolosissima
FEMIS, la scuola di cinema “ufficiale” francese. Anche perché punta tutto
sulle atmosfere, sul “non so che” evocato mirando direttamente ai sensi
invece che alla ragione (col risultato di lambire lo spot di un profumo) -
come fanno molti che vengono da là, a cominciare dal sopravvalutato Philippe
Grandrieux.
E invece no. La lisière è un
film di impressionante intelligenza. Il che, sia chiaro, può anche
“stomacare”, e legittimamente. Non è però il caso, si licet, di chi
scrive.
Le atmosfere, si diceva. Sì, perché il film è ambientato nella calma agiata
e inquieta di Beauval, comunità sorta dal nulla in una zona rurale, come una
sorta di progetto architettonico illuminato postmodernista per cittadini
felici. Un giovane dottore viene assunto (e lautamente pagato) quale medico
dai responsabili del bizzarro complesso immobiliare, caparbiamente
improntato alla pace e all’armonia. Gli adolescenti del posto, però, sono
quantomeno inquieti. Innanzitutto sessualmente, come si conviene. Le
ragazzine mirano sempre più svergognatamente al nuovo dottorino - il quale
rimane comunque risolutamente indifferente. I ragazzini, per gelosia, gli
mettono sempre più pesantemente i bastoni tra le ruote - e si spingono in
strani riti di iniziazione. In uno di essi, una dodicenne ci rimette la
pelle, travolta da un’auto mentre gli altri la costringevano a fingere di
prostituirsi.
E qui sta il primo, notevole segnale di intelligenza filmico/narrativa. Un
evento del genere, in teoria, dovrebbe segnare “la fine dei giochi”,
dovrebbe essere la perdita dell’innocenza nel momento stesso in cui si pone
come “evento fondativo”. Anche perché il film, malizioso, ci mette su una
cattiva strada cominciando proprio con la scoperta di un imprecisato
cadavere. Le autorità locali ci provano pure, indicendo una serata in onore
della bambina, elevata a “racconto mitico” intorno a cui stringere insieme
una comunità. E invece no. Prima e dopo il fattaccio vanno avanti
esattamente allo stesso modo gli stessi riti iniziatici, gli stessi
insistenti giochi di sguardi lascivi tra persone di diversa età, la stessa
morbosità strisciante di sempre. E il bello è che, anche narrativamente, se
un evento del genere dovrebbe “in teoria” essere posizionato in un posto
decisivo dello svolgersi delle azioni per marcarne indelebilmente tutto il
corso, non è assolutamente il caso di
La lisière. Né all’inizio, né
alla fine, né a metà, l’incidente occorre in un punto narrativamente neutro.
Perché non c’è alcuna possibilità o speranza di “evento fondativo” di quel
genere. Non c’è ingresso possibile nell’età adulta, non si esce
dall’adolescenza. Al contrario delle aspettative imposte dalla scoperta
iniziale del cadavere (anche se non diremo come), se c’è una cosa che il
film asserisce con chiarezza a dispetto di tutto il marasma di ambiguità che
costruisce, è che l’unico ad essere fisiologicamente escluso sarà proprio
“l’Adulto”.
Bajard lo sa perfettamente, ed è per questo che spinge a fondo il pedale
dell’appetibilità figurativa. Da una parte, insiste testardamente sulla resa
scenografico/architettonica di Beauval. Il risultato è un trionfo di
superfici di colori pastello o comunque “pseudo-rassicuranti”, appena appena
ombreggiati (anzi quasi “ombrettati”, nel senso del trucco), che fiancheggia
Van Sant quanto a delirante nitore pop, o post-tale. Dall’altra, insiste su
un’attenzione quasi indecente ai corpi e al loro cercarsi, soprattutto con
gli sguardi. Da una parte, la freddezza dell’artificio estetico, che
rapprende nel kitsch qualunque possibile “godimento”. Dall’altra, il
godimento fisicamente in atto qui ed ora. Le forme nitide e i colori
vivacemente uniformi cozzano contro impulsi visivi torbidi che “insozzano”
praticamente ogni scena. Si produce così un contrasto molto forte, una
contraddizione che il film destinerà a rimanere aperta, a ritornare
continuamente e a ripetersi nonostante gli innumerevoli riti di iniziazione
e gli atti fondativi che dovrebbero stabilizzarla. Le note del pop
adolescenziale più caramellato non smettono mai di risuonare. Il godimento
non si stabilizza, ma esce sempre e strutturalmente dal seminato. E infatti
si ripropone a ogni inquadratura con subdole, striscianti, sempre nuove
malìe figurative.
Ci sarebbe da discutere su questo assunto, e sul suo portato inevitabilmente
conformista, se non qualunquista. Ma non ne abbiamo troppa voglia. Quello di
La lisière è un gioco di
dubbia condivisibilità ma giocato molto, molto bene. |
BURTA BALENEI
THE
BELLY OF THE WHALE
di Ana Lungu e Ana Szel
Romania 2010, 67'
Concorso Cineasti del Presente
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25/30 |
È inevitabile, e ci si rassegna volentieri: non
c’è grande “New Wave” cinematografica che non faccia arrivare ai festival i
suoi cascami meno folgoranti. Burta
BalenEI è uno di questi casi: un debutto rumeno all’ombra dei vari
Cristi Puiu e Corneliu Porumboiu (ringraziati nei titoli di coda), dal
rigore dei quali è comunque piuttosto lontano.
Ana (interpretata da una delle due registe), trentenne temporaneamente a
casa da sola perché la madre e la figlia (che vivono con lei) sono in
viaggio, organizza una serata tra amici davanti a un film (MASH di Robert
Altman). L’incontro però è “sabotato” dallo smarrimento del suo cellulare,
che letteralmente la ossessiona - anche perché dovrebbe ricevere una
chiamata da un uomo appena conosciuto…
Sulla carta, avremmo uno studio di caratteri che per svilupparsi si avvale
di un paio di labili pretesti narrativi (il cellulare, il film continuamente
interrotto…), oltre che di un digitale a bassissimo budget usato con
intelligenza. La cosa però ha il fiato un po’ corto. Non è colpa più di
tanto del transito poco felice dal pretesto al pretestuoso (il cellulare
trovato per miracolo quando il film deve finire). La responsabilità è
soprattutto dei dialoghi: vicini all’inconsistenza, poco riusciti a livello
di scrittura, troppo “molli” quanto al loro tessuto ritmico e in definitiva
incapaci di dire granché sui personaggi. E sui dialoghi le due registe
puntano quasi tutto - o meglio, sulla loro immobile registrazione da una
certa distanza.
Avrebbe aiutato un dispositivo figurativo più solido, ma anch’esso lascia un
po’ a desiderare. Il piano fisso è gestito così così: le linee del quadro
sono tracciate un po’ confusamente e abbracciano la totalità degli ambienti
in maniera un po’ disordinata. Lo stagnare della serata è reso con qualche
ellissi di troppo (che danno l’effetto sgradevole di passare da
un’inquadratura che guarda in lontananza quattro personaggi a un’altra quasi
uguale con loro messi diversamente).
Insomma, uno sforzo volenteroso, non sgradevole, diligente nella sua
imitazione di modelli più nobili, ma che si è tentati di vedere come un
“film di diploma”: un tentativo che serve a “sbattere” contro gli errori da
non fare più. |
SITO UFFICIALE |
63.mo
festival del film
Locarno, 04 / 14 agosto 2010
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