FESTIVAL DEL FILM - LOCARNO 2002
Gli scritti sui film / clicca sul titolo

UN'ORA SOLA TI VORREI [introduzione]
WANTED di Kim Hopkins
DOCU-FICTION [e lavori anomali]
L'IDOLE di Samantha Lang
INSOMNIA di Cristopher Nolan
GERRY di Gus Van Sant
RAX di Roberto Paci Dalò
L'ACQUA IN MEZZO di Daria Menozzi
OLTRE IL CONFINE di Rolando Colla
AL PRIMO SOFFIO DI VENTO
di Franco Piavoli
LA CAGE di Alain Droust
NOVO di Jean-Pierre Limousin
SIGNS di M. Night Shyamalan
PERSONAL VELOCITY di Rebecca Miller
THE BOURNE IDENTITY di Doug Liman
AIME TON PERE di Jacob Berger



UN'ORA SOLA TI VORREI
di Alina Marazzi



Locarno non deve vivere di presenze VIP, di rincorse affannate al posto in sala, di stazionamenti coatti durante proiezioni come maledizioni, ma di RESPIRO, di insana, REALE passione per il racconto cinematografico, di ANOMALIE e diversità.

Finora, anche per una qualche calcolata defaillance tecnica della sala stampa, assolutamente in linea con le premesse, materiale non è stato mandato ai web master di Kinematrix e solo da domani arriverà.
Non ce ne scusiamo perché non è dipeso da noi.

Anticipiamo solo questo:

UNA SOLA GRANDE ONDA DI EMOZIONE, CHE E' GIA' PREMIO DI KINEMATRIX A LOCARNO:

UN'ORA SOLA TI VORREI, di ALINA MARAZZI, assistente alla regia di Giuseppe Piccioni per "Fuori dal mondo" e "Luce dei miei occhi".

Cut-up visivo e serrato montaggio del sonoro, messi al servizio della docu-fiction [horribile dictu] piu' bella degli ultimi anni, capace di darci colpi al cuore e di riscrivere le linee dei nostri percorsi mentali riannodando le fila dei passati comuni di chi ha piu' di trent'anni con la ricostruzione allegramente straziata di una vita autointerrottasi all'alba dell'era delle contestazioni, ma con un delicato piede affondato nei regimi morali e nei diktat familiari di inizio secolo.
LISELI, un'immagine che non dimenticheremo, l'intelligente assoluta bellezza di una figura sempre sole e sempre luna, lanciata come lancia spezzata ad attraversare 33 anni, dal 1938 al 1971, di vita privatissima e molto pubblica, in costante sovraesposizione rispetto alle necessità di ombra/ ragionamento/ impermeabilità al troppo sentire, alle indelicate forme del dolore.
Liseli era la mamma di Alina, la regista.

Da domani avremo immagini, vedrete qualcosa di un'intervista, brandelli di assoluta grazia.

E anche altro: NOVO, con Eduardo Noriega, anch'egli intervistato.

REVENGE TRAGEDY.

L'IDOLE.

Per ora brandelli.

Domani, forse, altro.

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WANTED
di Kim Hopkins



"Una volta la nostra chiesa era la prateria e l'altare le montagne. Ci siamo messi a pregare, abbiamo chiuso gli occhi e, riapertili, ci siamo trovati chiusi nella riserva per Indiani d' America e circondati di chiese dei missionari…Questo del South Dakota, del Nebraska è un paesaggio molto LUNARE. A questo punto, per come ci trattano, avrebbero potuto metterci direttamente sulla luna…sarebbe stato molto meglio anche per noi, ci saremmo fatti dimenticare piu' facilmente…..Vogliamo morire come siamo nati: un popolo libero, una razza libera…..Oggi I ragazzini giocano alla FIESTA: organizzano degli incontri con delle bambine, fingono di bere alcolici e poi di batterle….vuol dire che questa è la loro vita reale, quella che vedono in casa ogni giorno…"

"WANTED", docu-fiction , insieme a "UN'ORA SOLA TI VORREI " e "HOMEM TEATRO", risulta essere il materiale piu' vivo e coinvolgente di tutto il festival.
I lungometraggi di fiction non reggono il passo, a nessun livello.

Questa era la storia di otto uomini, ragazzi, nativi americani di razza Lakota, ma anche Apache, trovati morti dentro il fiume di un piccolo centro del South Dakota.

Kim Hopkins, la regista, alterna con grande attenzione tempi rallentati di pura osservazione dei paesaggi [ diversamente dalla pretesa teatralità da landscape metaforizzato di Gus Van Sant ], contrappuntati da musiche country e dedicati alla rappresentazione volutamente didascalica di cio' che ancora è lasciato intatto [ animali, brandelli di natura ], e zone di tensione dinamica, durante le ricerche che la polizia conduce, con volontà assolutamente mutevole e ambigua mancanza di "coinvolgimento", sicura di poter arrivare ad un dubbio serial killer razzista, invece esplicitamente convinta di lasciare la situazione come sta.
Una riserva di desperados che nascono con l'alcool della madre nelle vene, totalmente emarginati o disoccupati, se non employed nella polizia stessa, che impiegano l'intera esistenza nella coazione a ripetere la fine tragica dei loro avi, via autodistruzione, appunto, alcoolica o additiva, o via martirio e morte violenta: atto sacrificale agito dalle mani di qualcuno, forse qualche colonizzatore di terre e di anime, forse qualche componente della polizia stessa.

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Il festival è spezzato in due: BRUTTI FILM DI FICTION e STUPENDI LAVORI ANOMALI, dai corti alle docu-fiction.
Anzi, forse definitivamente, possiamo stabilire che il Festival di Locarno 2002 sancisce il superamento d'interesse e qualità del FORMATO ANOMALO su quelli cinematograficamente CONVENZIONALI.
A patto che il primo racconti comunque una RICERCA, un' INVESTIGAZIONE, un GIRARE ATTORNO ALLE COSE RI-RAPPRESENTANDOLE e non semplicemente enunciandole -anche con povertà visiva- per quello che sono.

La nuova generazione di LAVORI ANOMALI ha qualcosa d'incredibilmente nuovo e stimolante:
LAVORA SUL RITMO E IL MONTAGGIO di immagini e sonoro come se non piu' di un lungometraggio.
WANTED, UN'ORA SOLA TI VORREI, HOMEM-TEATRO, sono tutti lavori costruiti secondo quest'approccio, APPASSIONATI e APPASSIONANTI, capaci di reggersi sulle proprie forti gambe e meritevoli di autonoma vita e distribuzione.

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L'IDOLE
di Samantha Lang



Ancora una storia a due per Samantha Lang [ THE MONKEY'S MASK ] e ancora rapporti che respirano una [ liberatoria? ] anomalia nel modo in cui sono impostati e per la tipologia umana di chi li gestisce.
Dagli intrecci tra sensibilità femminili gay in THE WELL e THE MONKEY'S MASK, alla delicata storia di sfioramenti e tangenze tra una ninfa in evoluzione ed un anziano cinese, cuoco di professione -almeno cosi' pensiamo- e poeta dell'anima, che, rientrato in un condominio vagamente polanskiano di Parigi, si prende cura di una diciottene australiana che ha il viso alla Balthus, e non solo, di Leelee Sobieski.
La calibratura degli elementi in gioco è totale, perfino eccessiva, e il gioco di sguardi e trasparenze tra le pareti e i diaframmi del condominio è spesso languido e visivamente spossato.
Un giovane ama la Sobieski tradendo la moglie e ne fa uso sul piano di una sessualità convenzionalmente estrema, mentre altri occhi guardano, desiderano, giudicano….insomma, fanno cio' che troppo facilmente ci aspetteremmo dopo molti film analoghi.
La Lang ha il merito di una ricostruzione d'ambiente accurata, illuminata con sapiente conoscenza della cultura visiva cinese e della trasandatezza eccitante degli appartamenti delle debutants, ma al di là di cio' la carica di mistero che dovrebbe segnare il passato dell'anziano cinese e del perchè della sua dedizione maniacalmente autolesionistica al non realizzarsi di un desiderio sessuale per la ninfa, non è studiata a dovere e in mano ci rimane una scatola di strani, deboli ricordi dell' uomo, poco significativi e narrativamente inutilizzabili.
Negli occhi di chi guarda, continua, anche dopo il film, a danzare la Sobieski, che crescendo entra di diritto nelle importanti lolite, per ora "indoor" [ in stile kubrick, prima parte del film ], del cinema.
Forse il viso è un po' largo, rispetto ad EYES WIDE SHUT, ma l'essere quasi cartoon balthusiano, alice nel paese della sospesa meraviglia del sesso mentale, la rende ancora piu' inquietante, per la sua capacità d'inoltrarsi con libertà nelle fantasie di tutti.

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INSOMNIA
di Cristopher Nolan



Forse era lecito aspettarsi di piu' dal lavoro di Nolan successivo a MEMENTO, che ci ha viziati, solleticati, abituati a quell'infinita sedimentazione di biforcazioni [?], con un senso della deriva della scrittura ogni volta ripescata e rilanciata verso nuovi esiti, inerenti o meno il significato del film, sempre spiazzanti, sempre stimolanti.
Eppure INSOMNIA vive coraggiosamente la dannazione del secondo figlio, nel tentativo, riuscito, di sentire ancora la protezione della madre-MEMENTO, godendo peraltro dei benefici di un'indipendenza tutta maschile [leggasi Studios], che dovrebbe portare ad un'esistenza senza troppi problemi nell'universo delle sale mondiali.
Il che non assicura, al regista, di evitare gli strali della critica abituata al film precedente.
In Nolan c'è ancora, inattaccato e inattaccabile dalla critica stessa, il senso del percorrere sempre inversamente i luoghi delle logiche narrative consolidate, a costo, se funzionale al tutto, di far assomigliare alcune situazioni, qui centrali, a brandelli di altre opere [HEAT di Michael Mann?] o a non farci sembrare troppo sorprendenti ambientazioni che da alcuni anni fanno pensare regolarmente al Lynch di TWIN PEAKS e sono diventate dei topoi nell'area non limitata del thriller-horror di alto respiro [la provincia Americana dei nord inesplorati dalla cultura, o poco, cinematografica e non,; meglio : la miriade di minuscule cittadine dimenticate, che vivono sulla statica economia legata all'industria del legno e dei suoi derivati, addossate a un monte o stese accanto ad un fiume che scorre sempre raccontando qualche storia di cadaveri senza nome, entrambi -monte e fiume- evocative e necessariamente malati, male-detti].
Cosi` come non ci pesa l'ormai inevitabile circumnavigazione che lo sguardo del regista compie attorno alle isole morte delle vittime, da SEVEN in poi obbligatoriamente ingiallite, gonfie e acquose, o la teoria di piccoli "additivi" metallici che regolarmente le buca, o, ancora, i flash visivi improvvisi [ultimamente ne abbiamo visti centinaia in NAMELESS] disseminati subliminalmente lungo l'intera pellicola, quasi obbligatori ormai, forse figli dei videoclip - e non c'è niente di male in questo- ma spesso inessenziali, se non irritanti.
INSOMNIA rimane un bel film, un'opera dove comunque un paio di colpi di scena, anche se appena un po' anticipati rispetto ai tempi complessivi e al ritmo che prende dopo i primi 20 minuti, dicono delle capacità di Nolan di intendere la scena e l'ordito narrativo come un luogo multiverso e ipertestuale, dove, ad esempio, le antitesi e le contrapposizioni etiche -comunque feconde- di un Mann [HEAT/ INSIDER] o il suo disincanto, lasciano spazio ad un'ironia che è necessaria derivazione di quell'essere opera aperta, interrogativa e "nativa", per cui il castello di carta sempre ci cade tra le mani e ci lascia interdetti, ridicoli, convinti di non poter ambire allo scandaglio di certezze che non hanno luogo da nessuna parte, o di non poter ergere pilastri di saggezza, definitive verità. Quindi ci lascia capaci di solo ridere di noi stessi e di aspettarci ,
Domain, l'opposto di quello ch'è accaduto oggi.
Come dire Al Pacino [non si accettano piu' commenti superflui sulla di lui bravura zen] che accoppa l'amico nel biancore accecante di una nebbia messa li`apposta per dirgli quanto è poliziotto invecchiato e minacciato dal suo stesso dipartimento, di cui, sarà un caso, fa parte il collega colpito a morte; Pacino che, non te l'aspetti, punta all'autosalvaguardia e riannoda a suo vantaggio i fili di eventi professionali e di una sua personale strada morale, che stava per essere deriva. Pacino che viene ricattato dall'assassino di una ragazzina del luogo - ancora: sacchetti di plastica, ferrovia, discariche, ovvero Laura Palmer Revisited - che ha assistito all'errore "di caccia" in cui muore Hap. E che di costui diventa l'alter ego, la faccia finora inespressa di uno stesso Male, carico di rivincite, desideri di vendette.
Anche se osserviamo il tutto col ghigno preparato da infinite visioni di film con Pacino e aspettiamo il suo ghigno decolorato dall'età, e quindi seguiamo il film come un saggio di bravura di gruppo - un tocco Nolan, uno Robin Williams, uno il vecchio riccardo terzo italoamericano - ci piace comunque questo Male che fa autoanalisi al telefono, durante le conversazioni tra i due, questa specie di belzebu' postmoderno piu' a suo agio nell'illuminata terapia di gruppo agita da categorie umane che devono autoassolversi all'alba dell'infinita cattiveria dei primi anni del millennio. Pulirsi le mani comunque, come il Pat Bateman di Easton Ellis, come il controterrorismo a tavolino delle superpotenze "global", come l'Italia che inventa l'arte grafica delle impronte digitali. Per avere, appunto, mani senza macchia.
In INSOMNIA I segni non vanno via, nonostante I tentativi del detective e dell'assassino - scrittore, colto, che passa in varechina il sangue della donna ammazzata - ed è forse proprio su questa teoria dei SEGNI che si dovrebbe ragionare di piu', anche se non con la pervasività di MEMENTO.
Pacino è braccato, vuole evitare l'evidenza dei fatti che lo inchiodano, esattamente come teme la luce di zone talmente vicine al polo da tenerlo sempre sveglio, insonne, ed è ormai vicino allo zenith della propria storia, autore di un rendiconto che deve svolgersi eterotopicamente fuori dalle mura di casa, come gli animali che vanno a morire lontano.
Il film è in realtà tutto su di lui, dato Robin Williams come suo doppio.
La persona è una sola, il dramma quello dell'ammettere infinite debolezze, caverne piene di colpe e di dare senso ad un passato che vuole solo la parola fine.
E' solo divertente il giocare al gatto e al topo rovesciato, con R. W. che telefona all'altro mentre questi gli perquisisce la casa o gli manda contro la squadra investigative: quello che conta è il FINIRE di un uomo, di una forza incontrollata, che ha vissuto inconsciamente la propria natura di "male", coprendola con gli alibi della professione, arrivata al capolinea del chiedersi "chi sono?".
L'ironia aperta dei due opposti etici che vanno toccandosi in tutti noi, lascia spazio, alla fine, a questa tragedia dell'interrogazione e dell'identità [ecco allora che Nolan coglie ancora nel segno e siamo ancora dentro MEMENTO].
C'è anche, in tutto questo, Hilary Swank, il cigno -swan- bianco che sorvola la scena del crimine e serve a chiosare la storia con la dignità della risposta sospesa.

Voto: 29/30

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GERRY
di Gus Van Sant

Una pièce teatrale tra canyon e praterie, rispettate le unità aristoteliche, finisce per avere l'aria vaga di un cinema sperimentale dagli intenti non dichiarati -anzi, fintamente ermetici- ma, a guardar bene, evidenti.
Intento principale: contrapporre al periodo di collaborazione con gli Studios [ TO DIE FOR, WILL HUNTING, PSYCHO REVISITED, FINDING FORRESTER ] un'opera improvvisamente stizzita nel suo assolutismo estetico, quasi un' irrisolta e incontrollata prova d' Autore.
Dimostrazione, questa, a se stesso e agli altri di intatta [?] ispirazione e autonomia decisionale dal moloch hollywoodiano, ma che sa di prova non richiesta e inutile autolesionismo.
Intento secondario: mettere in scena l'atto catartico e di autoassoluzione del lato puro [ o sarà l'altro, quello dei compromessi estetici? ] del proprio genio creativo, che, dopo viaggio interiore alla ricerca del Senso [ l'acqua?], sopprime l'altro. I due protagonisti sono una stessa anima: GERRY-GERRY come GUS-GUS.
Ripeto, non è chiaro se è il Van Sant-Cowboy a sopprimere il Van Sant- Forrester: vedremo piu' avanti.
Non credo sia un'interpretazione forzata. Perlomeno il film ne guadagnerebbe in spessore.
Al di là della fascinazione di landscapes infiniti, che fanno da spugna per ogni prodotto cerebrale dello spettatore, la sensazione è che il regista giri a vuoto, inaridito come cio' che gli sta davanti agli occhi.
Inutile scavare nei siparietti beckettiani, che acuiscono la sensazione di assurdo nell'assurdo: la cavalcata gusvantiana nei fantastici vuoti del film scatenerà peraltro analisi di ogni tipo, sdoganando fervide fantasie inespresse
Rimane, invece, il senso di forzatura "non petita" e di falso, calcolato salto nel vuoto [ come a dire: guardatemi, sto per suicidarmi commercialmente, fate qualcosa ] per vedere l'effetto che fa, sugli altri, soprattutto.
GERRY è un bell'oggetto di landscape art, come un'opera di Richard Morris, ma che non evoca nulla, a differenza di quella.
GVS capirà a breve cosa intende fare e se l'ispirazione è pronta a tornare, senza troppi problemi, senza mettersi addosso pressioni, magari dopo una bella serata a base di rilassante peyotl.

RAX
di Roberto Paci Dalo', 2001, versione originale inglese, durata 26 min.

Questo video, è stato realizzato su richiesta della Kunsthalle di
Vienna che ha dedicato lo scorso dicembre una retrospettiva su Robert
Adrian X ed è proprio su questo artista contemporaneo precursore di
certe tendenze artistiche legate sia all'arte che alla comunicazione,
che Dalo' ne crea una intervista-racconto di vita artistica.
In questo cortometraggio le immagini a rallentatore, spaziano tra
l'inquadratura di Adrian mentre si aggira nella sua abitazione o mentre
racconta, per cui Dalo' chiude le sequenze in primissimi piani tesi ad
evidenziarne gli aspetti piu' salienti come, le mani e la gestualità
che ne derivano e il volto con la sua viva espressività.
Mentre Robert, voce narrante diegetica al film, prosegue con la
narrazione, le riprese spaziano su particolari domestici che danno
elementi maggiori sul personaggio, sul suo modo di vivere e, allo
stesso tempo creano un movimento rispetto alla fissità della voce.
Riferimenti ai film futuristi si hanno nelle immagini che il regista ci
offre quando inquadra una strada che probabilmente il nostro artista ha
percorso, in cui si contrappongono ad immagini di elementi fermi,
immobili, le immagini di elementi che producono movimento come quello
di un passante, di un tram che vengono ripresi a rallentatore. Le
immagini prodotte con questa scansione ritmica, ricordano Balla
Boccioni, alla loro visione del movimento collegato alla
sperimentazione tecnica; la pittoricità delle sequenze è forte grazie
anche all'uso contrastante della luce, ed alla resa di molte gradazioni
tonali.
Si crea una ricerca di un mélanges visivo, di una ricerca volta alla
ritmicità ed alla contrapposizione di essi; daltronde le
contrapposizioni fanno parte del nostro esistere, per cui perchè non
evidenziarle.
Il tempo è l'altra componente che con questo suo fare cinema e produrre
documento Dalo', mette in forte risalto, ed è anche una componente
fondamentale della vita dell'uomo contro cui combattiamo
inesorabilmente tutta la vita.
La voce dell'intervistato, scandisce il tempo del racconto orale e
l'immagine quella del tempo della nostra vita.

L'ACQUA IN MEZZO
di Daria Menozzi, 2002 vidéo, durata 27 minuti.

Questo documentario proposto dalla Menozzi, fa parte di una serie di
documentari tratti da testimonianze reali, prodotti dalla Sacher Film.
La regista con questo cortometraggio,
ci introduce in quella che è stata per anni una filosofia di vita a
molti sconosciuta.
Federico Barozzi, figlio di due attivisti che verso la seconda metà
degli anni '50, si trasferiscono in una comune agricola ad Israele, in
un Kibbutz,
per fare socialismo internazionale con gli arabi, dove"Raba" fu
concepito.
Scarseggiando il cibo, dopo due o tre anni, la famiglia, fu costretta
a tornare in Italia esattamente a Milano dove Federico si formo'
culturalmente.
Questo documentario di "vita" prima che politico, riesce attraverso il
racconto serrato
del protagonista stesso, ad accattivare l'attenzione dello spettatore e
a far si' che fatti
avvenuti nel nostro paese divengano di dominio internazionale inquanto
vicende comuni a molti
paesi.
Egli racconta la sua esperienza creando un parallelismo tra la sua vita
privata e quella politica.
Il montaggio alternato di documenti di repertorio, ormai divenuti
storici e, di fotografie che
raffigurano le esperienze del protagonista stesso, è legato al ritmo
del racconto, che ne dà la
scansione emotiva.
Entrano qui in gioco esperienze di vita toccanti, come quando Barozzi
ci racconta che ad uno dei
campi estivi a cui lui partecipava come animatore culturale per il
partito, conobbe la sua prima
moglie, con la quale, trascorse un primo mese di passione
travolgente, ma a causa di una malattia del sangue che lei contrasse di
li' a poco dopo essere rimastaincinta e, costretta ad abortire, anche
contro i suoi principi di cattolica fervente; anche dall'emergere di
questi particolari tematiche come questa, deduciamo il voler sviscerare
piu' aspetti dell'esistenza e piu' ideologie in particolare quella
dell'aborto, per cui in quegli stessi anni, si combatteva, ma che
ancora oggi rimane un te3mma sempre scottante e delicato da
affrontare.
Logoratosi il rapporto tra i due, lui per ritrovare un suo equilibrio
interno, disse che
per cambiare doveva essere da solo "con un bel mezzo di acqua in
mezzo".
Riparti' alla volta del Kibbutz, luogo di felicità inconscia in cui
visse con i genitori unperiodo della sua infanzia di estrema felicità
che fu interrotto molti anni dopo dal divorzio di questi.
Ecco come attraverso il racconto dell'esperienza politica di
un "idealista", possono emergere
esperienze che coinvolgono piu' sfere personali; elementi di un
microcosmo che entrano a far parte del macrocosmo.
Non vi è affatto la banalizzazione di ideali giovanili quali essi siano
ma bensi',
la regista riesce in soli ventisette minuti a raccontare le insicurezze
e gli accadimenti di una
vita, a creare senza lacune una descrizione del personaggio.
Attraverso il suo accostarsi alla politica, Barozzi fece fuoriuscire
una carica ed una verve che erano in lui latenti, forse soffocati dai
problemi che negli anni aveva maturato con sé stesso.
Con questo svelarsi davanti alla telecamera, Barozzi crea una
situazione di autoanalisi, soprattutto quando racconta dell'euforia
politica giovanile, imbevuta di insoddisfazione e che con la
separazione dei genitori sfocio' in esaurimento nervoso.
Con questo cortometraggio, si estrinseca il bisogno di una politica
caratterizzata dalla concretizzazione, dai fatti e non solo
coreografata da parole e da demagogia.

Lucia Lombardi

OLTRE IL CONFINE
Regia di Rolando Colla
Interpreti: Anna Galiena, Senad Basic,
Giuliano Persico, Gianluca Gobbi.

La produzione di questo film é della svizzera "Peacock", fondata dal
regista stesso nel 1984, tramite la quale Colla realizza in principio
film didattici per passare poi lui stesso ai lungometraggi,
come "Jagdzeit" con cui otterrà il premio "I pardi di domani" qui a
Locarno nel 1994.
Quattro anni dopo, il successo gli arriderà nuovamente sempre in ambito
festivaliero con il film in costume "Le monde à l'envers".
Dopo essersi dedicato ai cortometraggi, il regista é tornato con il
lungometraggio in questione: Oltre il confine, da cui si deduce in
Colla una propensione alle tematiche sociali, in quanto la pellicola
affronta il tema della guerra in Bosnia ma vi arriva non direttamente
ma grazie ad alcuni stratagemmi narrativi, ovvero parte dalla storia di
un vecchio reduce italiano impazzito e di sua figlia Agnese(Anna
Galliena), donna inserita in ambito lavorativo nella Torino dei primi
anni novanta, che ha una relazione con un architetto ticinese; i due
conducono vite separate anche se lavorano nello stesso ambito.
Agnese é costretta a raggiungere il vecchio padre all'ospedale militare
perché in fin di vita, ed il giovane medico che accudiva il padre di
lei, lo affida per una notte alle cure di Reuf, un clandestino bosniaco
che si rifugiava a casa del medico con la figlia maggiore.
I problemi sorgono quando Reuf, esaudisce il desiderio del vecchio di
fare una "corsa" notturna e simbolica nel parco dell'ospedale, quasi un
assaporare una nuova libertà, una fuga immaginaria; l'incantesimo,
viene interrotto il comandante scopre il bosniaco sprovvisto di
documenti e lo trattiene in caserma.
Agnese si trova quindi catapultata in in una doppia problematica, la
malattia del padre e l'uomo che lo ha aiutato finito agli arresti; in
un primo momento la donna rifugge mentalmente ogni accadimento non
appartenente alla sua storia famigliare, ma poi si rende conto che deve
riconoscenza a quello sconosciuto.
Mentre la donna aiuta Reuf nella sua fuga, il padre viene meno e i due
si uniscono nel loro dolore. Lei torna a Torino con Reuf per
proteggerlo, e contemporaneamente rifiuta l'appoggio psicologico del
suo uomo, di cui mette in discussione i sentimenti, quelle poche ore
trascorse con il profugo e con una realtà che poteva esserle
apparentemente estranea, finiscono per coinvolgerla psicologicamente,
perché le riaffiora alla mente la sua infanzia, segnata dalla seconda
guerra mondiale, e dal tragico ritorno del padre dalla campagna di
russia.
Questo prendersi a cuore una situazione famigliare non sua, ma in cui
lei trovava similitudini e sofferenze, che lei aveva per anni rimosso,
come un dolore non appartenutole e che una volta compresa la rimozione,
lei comincia a comportarsi in maniera catartica non volendo che qualcun
altro potesse rivivere quelle tragedie che rimangono inconsciamente
sedimentate in noi.
E' sulla rimozione del dolore che con il tempo indurisce l'essere
umano, che lavora Colla, sullo sviluppo delle teorie nietzschiane
dell'eterno ritorno, perché é a causa della cancellazione della
sofferenza dalla mente, che vi é il ripetersi delle guerre, ecco allora
che si spiega la figura e il comportamento della protagonista, ed il
suo buttarsi a copofitto in una situazione a lei estranea, per poterla
mutare, come una specie di autopurificazione e rilettura della propria
vita, nonché un modo di superare le proprie paure ed insicurezze
irrisolte. Quando Agnese si ritrova catapultata in Bosnia in pieno
conflitto, la regia si fa ancora piu'autentica, rifiuta ogni ricerca
estetica, la macchina da presa é a mano e le riprese si fanno documento
storico.
Scenograficamente, non vi é nulla di costruito, suoni, luci e location
sono tutti reali.
Il fine ultimo é non dimenticare, perché le nuove generazioni
affrontino coscientemente queste tematiche, non rimuovendole ma
vivendole criticamente, e fare cosi' in modo che l'esperienza del
singolo possa servire da esempio di vita, per evitare il ripetersi di
errori!

Lucia Lombardi

AL PRIMO SOFFIO DI VENTO
Regia di Franco Piavoli
Interpreti: Primo Gaburri, Mariella Fabbris,
Ida Carnevali, Alessandra Agosti,
Biana Galeazzi, Lucky Ben Dele.
Italia 2002.

Il regista Franco Piavoli, ambienta il suo nuovo film in un antico
casolare della campagna padana, in una assolata giornata d'estate, in
cui una famiglia borghese trascorre le proprie vacanze, senza
interagire con gli altri componenti.
La pellicola é costellata di silenzi intensi e ricchi di significati in
cui é racchiudibile il mondo di ognuno di essi, ma anche le distanze
che si creano, sono una sorta di incomunicabilità dichiarata.
Funge da colonna sonora l'intenso e ipnotico canto delle cicale.
Si creano da subito mondi paralleli, in cui ogni individuo della
famiglia si trincera e vive la propria vacanza, come la piu' piccola
del gruppo che appare come una Ninfa alla Poussin che corre nel verde,
ed affronta i primi rapimenti amorosi, grazie ad un incontro casuale
lungo le rive del fiume Po, che nella cultura padana é sentito come una
entità superiore, quasi una divinità, una presenza costante nella vita
di ognuno.
La figlia piu' grande, suona assorta costantemente il pianoforte,
sembra quasi vivere un rapimento intellettuale.
La figura di Antonio, il padre, pare ascritta alla contemplazione della
natura, ai suoi meccanismi evolutivi, che trascrive al computer come
osservazioni scientifiche tra sé e sé, egli sogna persino di insetti e
di loro particolari con un forte sentimento evoluzionistico. Enuclea un
discorso sull'unicità dei geni e quindi di ogni essere vivente, e pare
asserire che proprio questa unicità, che potrebbe apparentemente
unirci, ci separa! Nella diversità, regna la solitudine. Ed ecco con
questi ragionamamenti intimisti, spiegato il significato profondo ed
attuale del film stesso.
La madre seduta al tavolo della sala, colpita da luci calde che rendono
la sensazione dell'afa d'agosto, compone i suoi quadri di fiori e
piante di cui cosparge le pareti, e bisbiglia una poesia amorosa o
meglio sulla finitezza di questo. Gli interni che vengono ripresi
dall'occhio del regista, ed alcune immagini campestri che qui sono
immortalate, portano con sé la poesia delle immagini fotografiche di
Migliori e di Luigi Ghirri e riportano la mente ad una certa tradizione
figurativa italiana.
Questa pellicola cosi' intimista, pare sinonimo del significato del
ciclo della vita, delle solitudini che ci pervadono e della necessità
di ritrovare un rapporto con il naturale, per comprendere maggiormente
significato e significante di noi stessi.

Lucia Lombardi

LA CAGE
di Alain Droust

Caroline Ducey è la ragione principale per andare a vedere questo film sofferente e forse sofferto.
Road-movie a una voce sola, quindi anomalo e silenzioso, è tutto nel viso di una giovane assassina appena uscita dal carcere dopo 7 anni di buona condotta, impegnata nell'attraversamento di paesaggi francesi sempre piu' montani -un po' come i GERRY di Gus Van Sant- perché il viaggio è un atto di catarsi, alla fine del quale trovare perdono o morte dalle sole mani che possono darli, ovvero quelle del padre dell'ucciso.
Il film indugia nell'uso di campi medi, laddove dovrebbe realmente abbandonarsi alla natura come scenografia che parla al posto della silenziosa protagonista, seguita invece da vicino, nonostante affidi la recitazione alla sola mimica facciale, con risultati, comunque, molto apprezzabili.
Purtroppo manca il ritmo di un qualunque poliziesco -ad esempio l'analogo, per certi versi, ROBERTO SUCCO visto a Cannes l'anno scorso- perchè Anne non è piu' braccata e cio' che lei insegue è ancora piu' statico: il padre del ragazzo ucciso, infatti, è anch'egli sprofondato in una crisi d'identità che gli ha fatto letteralmente perdere il rapporto col suo doppio [ scena prima, nudo sul terrazzo, non vede piu' la propria ombra ].
In tal modo tutto accade su di una linea retta e sentiamo la mancanza delle premesse, inseribili tranquillamente in un LA CAGE 1 mai girato, cosi' come l'incontro tra I due avviene troppo tardi.
I blocchi narrativi sono contrapposti e non intrecciati, senza raccordi apprezzabili, sia quando, all'uscita dal carcere, Anne fa seguire la rinuncia al posto di lavoro, sia al momento dell'abbandono del nucleo familiare ridotto [ "non sono un esperimento", dice al capufficio responsabile del programma di recupero ].
Pero' la Ducey ha una forza tutta compressa che da sola vale l'immersione nel dramma: la scena dell'ok corral domestico, con le immagini di vendetta evocate dal padre di lui, vale l'attesa, perché Caroline, attiva-passiva di fronte a tanto odio, muove ogni muscolo facciale quasi venisse colpito e scavato da quelle parole assolute.

VOTO: 26/30

NOVO
regia di Jean-Pierre Limousin
interpreti: Eduardo Noriega, Anna Mouglalis, Nathalie Richard,
Eric Caravaca, Paz Vega.
Francia 2002, minuti 97.

Il nuovo film del regista francese Limousin, che ha suscitato scalpore
al Festival del cinema di Locarno, in una piazza gremita e
fortunatamente risparmiata dalla pioggia,
apre la pellicola con una sequenza che ad un buon intenditore di
fotografia, ricorda la serie fotografica di Luigi Ghirri dal
titolo "Atlante", metafora del viaggio.
Si apre a noi una immagine di montagne che pare ripresa da un atlante
scolastico ma, mentre il regista apre la macchina ed amplifica
l'inquadratura, ci troviamo catapultati in una scena metropolitana in
cui un uomo si avventa contro un distibutore di bibite, subito
scopriamo che egli è pedinato da una guardia che controlla i suoi
movimenti; tutto questo è sviante rispetto al film inquanto pare
introdurci in un genere poliziesco ma, pian piano il film si apre a
nuove tematiche, accompagnandoci, trasportandoci verso il vero soggetto
filmico, il giovane semina involontariamente la guardia e torna al suo
lavoro quotidiano servizio fotocopie in una azienda parigina.
Lui spagnolo in terra straniera in cui ci dice il regista durante
l'intervista, che, la scelta cade sullo straniero per rendere ancora
piu' incisiva la problematica di cui Graham(Edoardo Noriega) é affetto
da amnesia da circa sei mesi, quindi per lui le difficoltà si
moltiplicano, l'apprendimento di un nuovo idioma e le difficoltà di
tenersi a mente ogni elemento della sua vita lavorativa e privata, per
cui il suo ufficio viene costellato di memorandum!La meticolosa
precisione con cui trascrive nel proprio diario ogni elemento del suo
quotidiano, murales che incontra nel suo percorso giornaliero per
recarsi al lavoro, fermate della metropolitana, ed anche appunti del
suo privato.
Il fatto che sia straniero e che sia affetto da amnesia, crea nelle
donne che lui incontra una commistione tra l'istinto di protezione e la
sensualità; tant'é che la direttrice dell'ufficio lo irretisce creando
quasi una sorta di iniziazione ad una forma di sessualità piu' libera.
L'interno algido dell'azienda é contrastato da due elementi colorati: I
divani rossi tra cui si riconosce il divano "Tatlin" dell'architetto
riminese Roberto Semprini; questi due elemnti colorati sono leggibili
metaforicamente, in un primo momento la direttrice vi ci si siede in un
momento di provocazione sentimentale, ed in un secondo avviene una
discussione tra quest'ultima e la ex di Graham preoccupata per le sue
condizioni fisiche, ed ancora sensibile al fascino dell'uomo.
Lo sviluppo della storia, si ha quando all'orizzonte giunge una nuova
collega Iréne, a cui lui mostra l'azienda, tra i due scoppia subito il
dardo ed appena lei scopre il problema che attanaglia la mente di
Graham lei rimane folgorata.
Tra i due scoppia una passione viscerale che li lega anche fisicamente,
in quanto le amnesie di lui rendono il rapporto sempre nuovo e vissuto
dalla donna quasi come una sfida ed una speranza di poterlo aiutare, in
questo caso lei si aiuta con la scrittura, scrive sul corpo di lui il
suo nome a caratteri cubitali, lascia tracce della sua presenza,
cospargendolo di baci rossi sul collo come fossero i tatuaggi degli
aborigeni.
Dopo qualche tempo il rapporto che prima aveva portato a lievi
miglioramenti, entra in crisi, perché lei, si accorge della difficoltà
nel creare un rapporto duraturo, che perché diventi tale, esso si deve
sostentare nel ricordo delle sensazioni provate. Ovviamente il tutto é
una chiara simbologia, di come ogni rapporto necessiti di un
rinnovamento continuo, la forza sta nel vivere tutto con occhi nuovi,
come un bambino che affronta una nuova avventura, perché la forza di
autorigenerarsi deve essere insegnamento di vita.
Anche dopo la separazione delle loro strade, Inés e Graham, si
ricongiungono grazie sia al destino, che alla voglia di lui di
impostare saldamente cio' che prima involontariamente non poteva.

Lucia Lombardi

SIGNS
di M. Night Shyamalan
Interpreti: Mel Gibson, Joaquin Phoenix,
Rory Culkin, Abigail Breslin.
America 2002, 114 minuti.

Ecco il nuovo lavoro molto atteso da pubblico e critici del regista
Shyamalan, nato in India nel 1970 ma cresciuto negli Stati Uniti,
ricevette sette nomination agli Oscar con il film "Il sesto senso,
1999", psicothriller e di "Unbreakable, 2000", ricerca sul senso degli
accadimenti della vita.
Il film si apre con la messa in scena di quello che é un fenomeno molto
studiato ed ancora sconosciuto, denominato "crop circles", ma questo
aspetto non viene scientificamente evidenziato, piuttosto il regista
lavora su quella che é una presenza di esseri, la cui identità é
sconosciuta.
La storia gravita attorno ad una famiglia americana della Pennsylvania
capeggiata dall'ex reverendo e padre di due bambini rimasto vedovo da
poco tempo, dal nome di Graham Hess.
I due figli avvertono per primi le tracce lasciate sui campi da queste
entità sconosciute, i piccoli rimangono scossi dalle sensazioni che
essi avvertono, la bambina in particolare avverte nell'acqua un odore
differente e cosparge la casa di bicchieri d'acqua, che pero' saranno
poi fatalmente utili alla loro salvezza... .
Il padre in un primo momento scettico, rimane impressionato e si viene
a creare in lui un forte senso di protezione, puntellato da un forte
senso di impotenza, lui, che fino a sei mesi prima era reverendo e
quindi aveva in sé radicate delle forti certezze, ora i fatti della
vita lo provano, lo mettono in discussione con sé stesso e con la
figura divina che gli aveva sempre indicato il cammino, dovuta anche
alla prematura perdita della moglie, frutto di un destino avverso.
Questo film puo' avere anche una molteplicità di chiavi di lettura, ma
in cui la potenza dell'uomo viene messa in forte dubbio su piu' piani.
Un film, che dal punto di vista tematico é profondo, e da cui trapela
il mutamento del sentimento americano dopo l'11 settembre; tutto
vacilla ed il nemico si puo' annidare ovunque, ma cio' che puo'
salvarci é l'unità domestica, la solidità dei sentimenti ed il coraggio
di far fronte all'imprevedibilità degli eventi ed alla loro casualità.
L'atmosfera che viene creata nelle prime scene del film, si perde nel
resto della pellicola, soprattutto quando si dona fisicità all'entità
sconosciuta, creando una sorta di "visitors" del 2000; certo,
caratteristica fondamentale del regista é dar forma tridimensionale al
fantastico, ma cosi' pare scomparire il mistero; forse per placare
paure latenti si aveva la necessità di dare un volto a queste presenze.

Lucia Lombardi

PERSONAL VELOCITY
di Rebecca Miller
Anche PERSONAL VELOCITY s'inserisce nella categoria della fiction documentaristica, partendo pero' da un soggetto d'invenzione.
Tre vite, tre modi di elaborare le teorie della frustrazione quotidiana al femminile, con uno stile che ricorda il collage di Van Sant in TO DIE FOR: voce fuori campo durante certi fermi-immagine, flashback, uso di filmini del passato.
I protagonisti non esistono nella realtà, ma il senso di fisicità filmica cosi' prodotto genera effettivamente un modo appassionante di narrare. E' il segnale piu' chiaro di questa edizione di Locarno.
Forse è una questione di ritmo, oppure di voyeurismo legato alla possibilità di scandagliare a-diaframmaticamente il privato della gente, o, ancora, di morbosa curiosità -a volte sommata a coscienza civile- di osservare i drammi indiani o brasiliani o domestici senza sporcarci le mani.
Certe situazioni sono un po' forzate [ il sesso in macchina dell'ultratrentenne separata col ragazzino, i due seni appesi, etc ], ma nel complesso le tre storie - e le prove delle tre attrici, Kyra Sedgwick, Fairuza Balk e Parker Posey - riescono a portare lo spettatore dentro l'acquario dove i personaggi galleggiano senza trattenersi, in un continuo andirivieni di legami sempre piu' allentati.
Coerentemente, la MDP scivola tra corridoi upper class o ambienti di terza, quarta classe morale, con la moglie sbattuta contro il tavolo e sanguinante in viso, [ cinepresa a mano e fermi immagine in successione ] come se dovese di volta in volta aderire alla materia che ha di fronte, senza pretese d'imposizione di uno stile.
Talvolta la frammentazione e i tagli di montaggio sono persino eccessivi, laddove paradossalmente il documentario-documentario ne richiede di meno.
Ma sta proprio in questo la forza di tali lavori: il vincolo a un corpo narrativo strutturato che necessiti di pesi e contrappesi non esiste, non è dato in partenza, sicché si rinuncia di buon cuore alla consequenzialità dei fatti, in favore di un ennesimo graditissimo cut-up di situazioni tra il tragico e il grottesco.
Le storie, tutte rigorosissimamente curate nel design degli ambienti - questo veramente controllato e dettagliato, con plauso particolare per il calibratissimo yuppismo arredativo mostrato nel secondo episodio - vanno dalla frustrazione violenta di Delia in fuga dal marito, alla ninfomania annoiata e metropolitana di Greta, al doloroso segreto familiare del terzo espisodio con Parker Posey.
La figlia di Arthur Miller, diversamente da Sofia Coppola, dimostra anch'essa di sapere raccontare con sicurezza l'universo femminile in costante mutazione.

VOTO: 27/ 30


THE BOURNE IDENTITY
di Doug Liman

Poliziesco, detective-movie dalla parte dell'inseguito, dramma dell'identità perduta.
Partendo dall' ultima notazione, diciamo subito che evidentemente I festival procedono per blocchi tematici, anche se non necessariamente ben sviluppati.
Dopo l'accoppiata anomala sulle "catarsi paesaggistiche" [ GERRY/ LA CAGE], ecco il secondo film, dopo NOVO, sulla perdita della memoria e annesse crisi di personalità.
Ma BOURNE IDENTITY, strana coproduzione che mette in campo l'eclettico Matt Damon, la bilingue Franka Potente e un televisivo Orso Maria Guerrini [!], in realtà vive esclusivamente sul ritmo forsennato dell'investigazione sul perchè Damon sia inseguito dai servizi segreti, che l'avevano incaricato di eliminare un leader di colore.
Cio' che il protagonista non dimentica mai è una violenza secca, molto bella da vedere, con la quale si fa largo nel mistero che lo dovrebbe attanagliare, mentre gli garantisce nuova linfa vitale e il pretesto per intrecciare un rapporto con la crocerossina Potente.
Non è che s'indaghi molto attorno alla tragedia privata di chi ha perso se stesso, mentre molto s'indaga attorno al perché Damon non avrebbe portato a termine la missione, da cui la presunta sua fuga e gli inseguimenti cui si accennava.
Ottimo prodotto ottimamente prodotto, sufficiente direzione degli attori, spolpati di ogni profondità fuori luogo in simili contesti, delirio tecnologico stilizzato e graficizzato, in linea con gli ultimi 007 e missioni impossibili di sorta.

VOTO: 26/ 30

Aime ton père
Regia di Jacob Berger
Interpreti: Gérard Depardieu, Guillaume Depardieu,
Silvie Testud, Julien Boisselier,
Noémie Kocher.
Francia 2002, durata 100 minuti.

Tra le scoscese montagne della Francia meridionale, in una baita in cui
la vita sembra scorrere al meglio secondo l'ordine naturale delle cose.
Una telefonata giunta all'alba cambia un po' l'ordine degli addendi in
quanto questo stratagemma, ci svela che Léo Shepherd era uno scrittore
che vince il premio Nobel per la letteratura che sua figlia maggiore
sposata funge da sua collaboratrice abita anch'ella nella baita insieme
al marito ed alla nuova moglie del padre.
La notizia della vittoria de premio viene divulgata dai media, cosicché
giunge anche al figlio Paul che cerca di comunicare con il padre via
telefono, ma sia la matrigna che
la sorella non gli permettono di parlargli.
Nel frattempo fervono i preparativi per la partenza alla volta della
Svezia per ritirare il prestigioso premio, Lèo decide di partire da
solo in moto, mentre gli altri lo seguono in aereo.
Durante una sosta al distributore di benzina, sopraggiunge
inaspettatamente alle spalle dello scrittore Paul, il figlio, egli si
complimenta con il padre, ma non si trattiene dall'essere pungente, per
cui ci viene delineato il rapporto critico e spigoloso che vige tra i
due.
Lèo riprende il suo viaggio con un po' di amaro in bocca, lasciandosi
cullare dalle morbide curve montane; i giri del motore aumentano, le
curve si fanno piu' tortuose e comincia ad apparirgli davanti agli
occhi, l'immagine di un bambino che gli attraversa improvvisamente la
strada, il motociclista inchioda e dopo la curva ci si apre la scena di
un gravissimo incidente automobilistico, in cui lui si trova
marginalmente coinvolto e gli altri perdono la vita. Dopo qualche
momento sopraggiunge un'auto, questa si ferma per soccorrere gli
incidentati e vediamo scendere Paul. Egli interviene portando via con
sé il padre colto da una crisi di nervi, quest'ultimo quasi piu'
impaurito dalla presenza del figlio che dall'accadimento in sé.
Il viaggio dei due comincia ad essere frenetico, in cui il figlio sente
di dover svelare le sue paure al padre, che non prova nessuna stima per
il giovane ex tossicodipendente, il quale intende il viaggio come una
sorta di seduta psicanalitica proprio con colui che era stato il frutto
delle sue frustrazioni ed insicurezze per tutta la vita. I due vengono
alle mani, svelano oltre che all'altro anche a sé stessi alcuni lati
oscuri del proprio modo di pensare, per esempio il rapporto criptico di
Paul con l'infanzia non corrisponde a quello di Léo, che appare nel suo
rapporto con i figli come un padre dispotico, a tratti individualista,
volto ad esaudire solo le proprie esigenze di intellettuale.
Il "rapimento" del padre da parte del figlio appare come la ricerca di
una tregua, del recupero di un rapporto che pareva in pieno
disgregamento.
Questo film puo' aiutare sia i genitori che i figli nella gestione dei
loro ruoli all'interno della relazione parentale, e nel misurarsi
reciprocamente in modo costruttivo e rispettoso delle proprie natura.
Lucia Lombardi

 

Gabriele FRANCIONI
05/11 - 08 - 02

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