UN'ORA
SOLA TI VORREI [introduzione]
WANTED di Kim Hopkins
DOCU-FICTION [e lavori anomali]
L'IDOLE di Samantha Lang
INSOMNIA di Cristopher Nolan
GERRY di Gus Van Sant
RAX di Roberto Paci Dalò
L'ACQUA IN MEZZO di Daria Menozzi
OLTRE IL CONFINE di Rolando Colla
AL PRIMO SOFFIO DI VENTO
di Franco Piavoli
LA CAGE di Alain Droust
NOVO di Jean-Pierre Limousin
SIGNS
di M. Night Shyamalan
PERSONAL VELOCITY di Rebecca Miller
THE BOURNE IDENTITY di Doug Liman
AIME TON PERE di Jacob Berger
UN'ORA SOLA TI VORREI
di Alina Marazzi

Locarno non deve vivere di presenze VIP, di rincorse affannate
al posto in sala, di stazionamenti coatti durante proiezioni come maledizioni,
ma di RESPIRO, di insana, REALE passione per il racconto cinematografico,
di ANOMALIE e diversità.
Finora, anche per una qualche calcolata defaillance tecnica della sala
stampa, assolutamente in linea con le premesse, materiale non è
stato mandato ai web master di Kinematrix e solo da domani arriverà.
Non ce ne scusiamo perché non è dipeso da noi.
Anticipiamo solo questo:
UNA SOLA GRANDE ONDA DI EMOZIONE, CHE E' GIA' PREMIO DI KINEMATRIX A
LOCARNO:
UN'ORA SOLA TI VORREI, di ALINA MARAZZI, assistente alla regia di Giuseppe
Piccioni per "Fuori dal mondo" e "Luce dei miei occhi".
Cut-up visivo e serrato montaggio del sonoro, messi al servizio della
docu-fiction [horribile dictu] piu' bella degli ultimi anni, capace di
darci colpi al cuore e di riscrivere le linee dei nostri percorsi mentali
riannodando le fila dei passati comuni di chi ha piu' di trent'anni con
la ricostruzione allegramente straziata di una vita autointerrottasi all'alba
dell'era delle contestazioni, ma con un delicato piede affondato nei regimi
morali e nei diktat familiari di inizio secolo.
LISELI, un'immagine che non dimenticheremo, l'intelligente assoluta bellezza
di una figura sempre sole e sempre luna, lanciata come lancia spezzata
ad attraversare 33 anni, dal 1938 al 1971, di vita privatissima e molto
pubblica, in costante sovraesposizione rispetto alle necessità
di ombra/ ragionamento/ impermeabilità al troppo sentire, alle
indelicate forme del dolore.
Liseli era la mamma di Alina, la regista.
Da domani avremo immagini, vedrete qualcosa di un'intervista, brandelli
di assoluta grazia.
E anche altro: NOVO, con Eduardo Noriega, anch'egli intervistato.
REVENGE TRAGEDY.
L'IDOLE.
Per ora brandelli.
Domani, forse, altro.
torna sù
WANTED
di Kim Hopkins

"Una volta la nostra chiesa era la prateria e l'altare le
montagne. Ci siamo messi a pregare, abbiamo chiuso gli occhi e, riapertili,
ci siamo trovati chiusi nella riserva per Indiani d' America e circondati
di chiese dei missionari…Questo del South Dakota, del Nebraska è
un paesaggio molto LUNARE. A questo punto, per come ci trattano, avrebbero
potuto metterci direttamente sulla luna…sarebbe stato molto meglio anche
per noi, ci saremmo fatti dimenticare piu' facilmente…..Vogliamo morire
come siamo nati: un popolo libero, una razza libera…..Oggi I ragazzini
giocano alla FIESTA: organizzano degli incontri con delle bambine, fingono
di bere alcolici e poi di batterle….vuol dire che questa è la loro
vita reale, quella che vedono in casa ogni giorno…"
"WANTED", docu-fiction , insieme a "UN'ORA SOLA TI VORREI
" e "HOMEM TEATRO", risulta essere il materiale piu' vivo
e coinvolgente di tutto il festival.
I lungometraggi di fiction non reggono il passo, a nessun livello.
Questa era la storia di otto uomini, ragazzi, nativi americani di razza
Lakota, ma anche Apache, trovati morti dentro il fiume di un piccolo centro
del South Dakota.
Kim Hopkins, la regista, alterna con grande attenzione tempi rallentati
di pura osservazione dei paesaggi [ diversamente dalla pretesa teatralità
da landscape metaforizzato di Gus Van Sant ], contrappuntati da musiche
country e dedicati alla rappresentazione volutamente didascalica di cio'
che ancora è lasciato intatto [ animali, brandelli di natura ],
e zone di tensione dinamica, durante le ricerche che la polizia conduce,
con volontà assolutamente mutevole e ambigua mancanza di "coinvolgimento",
sicura di poter arrivare ad un dubbio serial killer razzista, invece esplicitamente
convinta di lasciare la situazione come sta.
Una riserva di desperados che nascono con l'alcool della madre nelle vene,
totalmente emarginati o disoccupati, se non employed nella polizia stessa,
che impiegano l'intera esistenza nella coazione a ripetere la fine tragica
dei loro avi, via autodistruzione, appunto, alcoolica o additiva, o via
martirio e morte violenta: atto sacrificale agito dalle mani di qualcuno,
forse qualche colonizzatore di terre e di anime, forse qualche componente
della polizia stessa.
torna sù
Il festival è spezzato in due: BRUTTI FILM DI FICTION e
STUPENDI LAVORI ANOMALI, dai corti alle docu-fiction.
Anzi, forse definitivamente, possiamo stabilire che il Festival di Locarno
2002 sancisce il superamento d'interesse e qualità del FORMATO
ANOMALO su quelli cinematograficamente CONVENZIONALI.
A patto che il primo racconti comunque una RICERCA, un' INVESTIGAZIONE,
un GIRARE ATTORNO ALLE COSE RI-RAPPRESENTANDOLE e non semplicemente enunciandole
-anche con povertà visiva- per quello che sono.
La nuova generazione di LAVORI ANOMALI ha qualcosa d'incredibilmente
nuovo e stimolante:
LAVORA SUL RITMO E IL MONTAGGIO di immagini e sonoro come se non piu'
di un lungometraggio.
WANTED, UN'ORA SOLA TI VORREI, HOMEM-TEATRO, sono tutti lavori costruiti
secondo quest'approccio, APPASSIONATI e APPASSIONANTI, capaci di reggersi
sulle proprie forti gambe e meritevoli di autonoma vita e distribuzione.
torna sù
L'IDOLE
di Samantha Lang

Ancora una storia a due per Samantha Lang [ THE MONKEY'S MASK ]
e ancora rapporti che respirano una [ liberatoria? ] anomalia nel modo
in cui sono impostati e per la tipologia umana di chi li gestisce.
Dagli intrecci tra sensibilità femminili gay in THE WELL e THE
MONKEY'S MASK, alla delicata storia di sfioramenti e tangenze tra una
ninfa in evoluzione ed un anziano cinese, cuoco di professione -almeno
cosi' pensiamo- e poeta dell'anima, che, rientrato in un condominio vagamente
polanskiano di Parigi, si prende cura di una diciottene australiana che
ha il viso alla Balthus, e non solo, di Leelee Sobieski.
La calibratura degli elementi in gioco è totale, perfino eccessiva,
e il gioco di sguardi e trasparenze tra le pareti e i diaframmi del condominio
è spesso languido e visivamente spossato.
Un giovane ama la Sobieski tradendo la moglie e ne fa uso sul piano di
una sessualità convenzionalmente estrema, mentre altri occhi guardano,
desiderano, giudicano….insomma, fanno cio' che troppo facilmente ci aspetteremmo
dopo molti film analoghi.
La Lang ha il merito di una ricostruzione d'ambiente accurata, illuminata
con sapiente conoscenza della cultura visiva cinese e della trasandatezza
eccitante degli appartamenti delle debutants, ma al di là di cio'
la carica di mistero che dovrebbe segnare il passato dell'anziano cinese
e del perchè della sua dedizione maniacalmente autolesionistica
al non realizzarsi di un desiderio sessuale per la ninfa, non è
studiata a dovere e in mano ci rimane una scatola di strani, deboli ricordi
dell' uomo, poco significativi e narrativamente inutilizzabili.
Negli occhi di chi guarda, continua, anche dopo il film, a danzare la
Sobieski, che crescendo entra di diritto nelle importanti lolite, per
ora "indoor" [ in stile kubrick, prima parte del film ], del
cinema.
Forse il viso è un po' largo, rispetto ad EYES WIDE SHUT, ma l'essere
quasi cartoon balthusiano, alice nel paese della sospesa meraviglia del
sesso mentale, la rende ancora piu' inquietante, per la sua capacità
d'inoltrarsi con libertà nelle fantasie di tutti.
torna sù
INSOMNIA
di Cristopher Nolan

Forse era lecito aspettarsi di piu' dal lavoro di Nolan successivo a MEMENTO,
che ci ha viziati, solleticati, abituati a quell'infinita sedimentazione
di biforcazioni [?], con un senso della deriva della scrittura ogni volta
ripescata e rilanciata verso nuovi esiti, inerenti o meno il significato
del film, sempre spiazzanti, sempre stimolanti.
Eppure INSOMNIA vive coraggiosamente la dannazione del secondo figlio,
nel tentativo, riuscito, di sentire ancora la protezione della madre-MEMENTO,
godendo peraltro dei benefici di un'indipendenza tutta maschile [leggasi
Studios], che dovrebbe portare ad un'esistenza senza troppi problemi nell'universo
delle sale mondiali.
Il che non assicura, al regista, di evitare gli strali della critica abituata
al film precedente.
In Nolan c'è ancora, inattaccato e inattaccabile dalla critica
stessa, il senso del percorrere sempre inversamente i luoghi delle logiche
narrative consolidate, a costo, se funzionale al tutto, di far assomigliare
alcune situazioni, qui centrali, a brandelli di altre opere [HEAT di Michael
Mann?] o a non farci sembrare troppo sorprendenti ambientazioni che da
alcuni anni fanno pensare regolarmente al Lynch di TWIN PEAKS e sono diventate
dei topoi nell'area non limitata del thriller-horror di alto respiro [la
provincia Americana dei nord inesplorati dalla cultura, o poco, cinematografica
e non,; meglio : la miriade di minuscule cittadine dimenticate, che vivono
sulla statica economia legata all'industria del legno e dei suoi derivati,
addossate a un monte o stese accanto ad un fiume che scorre sempre raccontando
qualche storia di cadaveri senza nome, entrambi -monte e fiume- evocative
e necessariamente malati, male-detti].
Cosi` come non ci pesa l'ormai inevitabile circumnavigazione che lo sguardo
del regista compie attorno alle isole morte delle vittime, da SEVEN in
poi obbligatoriamente ingiallite, gonfie e acquose, o la teoria di piccoli
"additivi" metallici che regolarmente le buca, o, ancora, i
flash visivi improvvisi [ultimamente ne abbiamo visti centinaia in NAMELESS]
disseminati subliminalmente lungo l'intera pellicola, quasi obbligatori
ormai, forse figli dei videoclip - e non c'è niente di male in
questo- ma spesso inessenziali, se non irritanti.
INSOMNIA rimane un bel film, un'opera dove comunque un paio di colpi di
scena, anche se appena un po' anticipati rispetto ai tempi complessivi
e al ritmo che prende dopo i primi 20 minuti, dicono delle capacità
di Nolan di intendere la scena e l'ordito narrativo come un luogo multiverso
e ipertestuale, dove, ad esempio, le antitesi e le contrapposizioni etiche
-comunque feconde- di un Mann [HEAT/ INSIDER] o il suo disincanto, lasciano
spazio ad un'ironia che è necessaria derivazione di quell'essere
opera aperta, interrogativa e "nativa", per cui il castello
di carta sempre ci cade tra le mani e ci lascia interdetti, ridicoli,
convinti di non poter ambire allo scandaglio di certezze che non hanno
luogo da nessuna parte, o di non poter ergere pilastri di saggezza, definitive
verità. Quindi ci lascia capaci di solo ridere di noi stessi e
di aspettarci ,
Domain, l'opposto di quello ch'è accaduto oggi.
Come dire Al Pacino [non si accettano piu' commenti superflui sulla di
lui bravura zen] che accoppa l'amico nel biancore accecante di una nebbia
messa li`apposta per dirgli quanto è poliziotto invecchiato e minacciato
dal suo stesso dipartimento, di cui, sarà un caso, fa parte il
collega colpito a morte; Pacino che, non te l'aspetti, punta all'autosalvaguardia
e riannoda a suo vantaggio i fili di eventi professionali e di una sua
personale strada morale, che stava per essere deriva. Pacino che viene
ricattato dall'assassino di una ragazzina del luogo - ancora: sacchetti
di plastica, ferrovia, discariche, ovvero Laura Palmer Revisited - che
ha assistito all'errore "di caccia" in cui muore Hap. E che
di costui diventa l'alter ego, la faccia finora inespressa di uno stesso
Male, carico di rivincite, desideri di vendette.
Anche se osserviamo il tutto col ghigno preparato da infinite visioni
di film con Pacino e aspettiamo il suo ghigno decolorato dall'età,
e quindi seguiamo il film come un saggio di bravura di gruppo - un tocco
Nolan, uno Robin Williams, uno il vecchio riccardo terzo italoamericano
- ci piace comunque questo Male che fa autoanalisi al telefono, durante
le conversazioni tra i due, questa specie di belzebu' postmoderno piu'
a suo agio nell'illuminata terapia di gruppo agita da categorie umane
che devono autoassolversi all'alba dell'infinita cattiveria dei primi
anni del millennio. Pulirsi le mani comunque, come il Pat Bateman di Easton
Ellis, come il controterrorismo a tavolino delle superpotenze "global",
come l'Italia che inventa l'arte grafica delle impronte digitali. Per
avere, appunto, mani senza macchia.
In INSOMNIA I segni non vanno via, nonostante I tentativi del detective
e dell'assassino - scrittore, colto, che passa in varechina il sangue
della donna ammazzata - ed è forse proprio su questa teoria dei
SEGNI che si dovrebbe ragionare di piu', anche se non con la pervasività
di MEMENTO.
Pacino è braccato, vuole evitare l'evidenza dei fatti che lo inchiodano,
esattamente come teme la luce di zone talmente vicine al polo da tenerlo
sempre sveglio, insonne, ed è ormai vicino allo zenith della propria
storia, autore di un rendiconto che deve svolgersi eterotopicamente fuori
dalle mura di casa, come gli animali che vanno a morire lontano.
Il film è in realtà tutto su di lui, dato Robin Williams
come suo doppio.
La persona è una sola, il dramma quello dell'ammettere infinite
debolezze, caverne piene di colpe e di dare senso ad un passato che vuole
solo la parola fine.
E' solo divertente il giocare al gatto e al topo rovesciato, con R. W.
che telefona all'altro mentre questi gli perquisisce la casa o gli manda
contro la squadra investigative: quello che conta è il FINIRE di
un uomo, di una forza incontrollata, che ha vissuto inconsciamente la
propria natura di "male", coprendola con gli alibi della professione,
arrivata al capolinea del chiedersi "chi sono?".
L'ironia aperta dei due opposti etici che vanno toccandosi in tutti noi,
lascia spazio, alla fine, a questa tragedia dell'interrogazione e dell'identità
[ecco allora che Nolan coglie ancora nel segno e siamo ancora dentro MEMENTO].
C'è anche, in tutto questo, Hilary Swank, il cigno -swan- bianco
che sorvola la scena del crimine e serve a chiosare la storia con la dignità
della risposta sospesa.
Voto: 29/30
torna sù
GERRY
di Gus Van Sant
Una pièce teatrale tra canyon e praterie, rispettate le unità
aristoteliche, finisce per avere l'aria vaga di un cinema sperimentale
dagli intenti non dichiarati -anzi, fintamente ermetici- ma, a guardar
bene, evidenti.
Intento principale: contrapporre al periodo di collaborazione con gli
Studios [ TO DIE FOR, WILL HUNTING, PSYCHO REVISITED, FINDING FORRESTER
] un'opera improvvisamente stizzita nel suo assolutismo estetico, quasi
un' irrisolta e incontrollata prova d' Autore.
Dimostrazione, questa, a se stesso e agli altri di intatta [?] ispirazione
e autonomia decisionale dal moloch hollywoodiano, ma che sa di prova non
richiesta e inutile autolesionismo.
Intento secondario: mettere in scena l'atto catartico e di autoassoluzione
del lato puro [ o sarà l'altro, quello dei compromessi estetici?
] del proprio genio creativo, che, dopo viaggio interiore alla ricerca
del Senso [ l'acqua?], sopprime l'altro. I due protagonisti sono una stessa
anima: GERRY-GERRY come GUS-GUS.
Ripeto, non è chiaro se è il Van Sant-Cowboy a sopprimere
il Van Sant- Forrester: vedremo piu' avanti.
Non credo sia un'interpretazione forzata. Perlomeno il film ne guadagnerebbe
in spessore.
Al di là della fascinazione di landscapes infiniti, che fanno da
spugna per ogni prodotto cerebrale dello spettatore, la sensazione è
che il regista giri a vuoto, inaridito come cio' che gli sta davanti agli
occhi.
Inutile scavare nei siparietti beckettiani, che acuiscono la sensazione
di assurdo nell'assurdo: la cavalcata gusvantiana nei fantastici vuoti
del film scatenerà peraltro analisi di ogni tipo, sdoganando fervide
fantasie inespresse
Rimane, invece, il senso di forzatura "non petita" e di falso,
calcolato salto nel vuoto [ come a dire: guardatemi, sto per suicidarmi
commercialmente, fate qualcosa ] per vedere l'effetto che fa, sugli altri,
soprattutto.
GERRY è un bell'oggetto di landscape art, come un'opera di Richard
Morris, ma che non evoca nulla, a differenza di quella.
GVS capirà a breve cosa intende fare e se l'ispirazione è
pronta a tornare, senza troppi problemi, senza mettersi addosso pressioni,
magari dopo una bella serata a base di rilassante peyotl.
RAX
di Roberto Paci Dalo', 2001, versione originale inglese, durata 26 min.
Questo video, è stato realizzato su richiesta della Kunsthalle
di
Vienna che ha dedicato lo scorso dicembre una retrospettiva su Robert
Adrian X ed è proprio su questo artista contemporaneo precursore
di
certe tendenze artistiche legate sia all'arte che alla comunicazione,
che Dalo' ne crea una intervista-racconto di vita artistica.
In questo cortometraggio le immagini a rallentatore, spaziano tra
l'inquadratura di Adrian mentre si aggira nella sua abitazione o mentre
racconta, per cui Dalo' chiude le sequenze in primissimi piani tesi ad
evidenziarne gli aspetti piu' salienti come, le mani e la gestualità
che ne derivano e il volto con la sua viva espressività.
Mentre Robert, voce narrante diegetica al film, prosegue con la
narrazione, le riprese spaziano su particolari domestici che danno
elementi maggiori sul personaggio, sul suo modo di vivere e, allo
stesso tempo creano un movimento rispetto alla fissità della voce.
Riferimenti ai film futuristi si hanno nelle immagini che il regista ci
offre quando inquadra una strada che probabilmente il nostro artista ha
percorso, in cui si contrappongono ad immagini di elementi fermi,
immobili, le immagini di elementi che producono movimento come quello
di un passante, di un tram che vengono ripresi a rallentatore. Le
immagini prodotte con questa scansione ritmica, ricordano Balla
Boccioni, alla loro visione del movimento collegato alla
sperimentazione tecnica; la pittoricità delle sequenze è
forte grazie
anche all'uso contrastante della luce, ed alla resa di molte gradazioni
tonali.
Si crea una ricerca di un mélanges visivo, di una ricerca volta
alla
ritmicità ed alla contrapposizione di essi; daltronde le
contrapposizioni fanno parte del nostro esistere, per cui perchè
non
evidenziarle.
Il tempo è l'altra componente che con questo suo fare cinema e
produrre
documento Dalo', mette in forte risalto, ed è anche una componente
fondamentale della vita dell'uomo contro cui combattiamo
inesorabilmente tutta la vita.
La voce dell'intervistato, scandisce il tempo del racconto orale e
l'immagine quella del tempo della nostra vita.
L'ACQUA
IN MEZZO
di Daria Menozzi, 2002 vidéo, durata 27 minuti.
Questo documentario proposto dalla Menozzi, fa parte di una serie di
documentari tratti da testimonianze reali, prodotti dalla Sacher Film.
La regista con questo cortometraggio,
ci introduce in quella che è stata per anni una filosofia di vita
a
molti sconosciuta.
Federico Barozzi, figlio di due attivisti che verso la seconda metà
degli anni '50, si trasferiscono in una comune agricola ad Israele, in
un Kibbutz,
per fare socialismo internazionale con gli arabi, dove"Raba"
fu
concepito.
Scarseggiando il cibo, dopo due o tre anni, la famiglia, fu costretta
a tornare in Italia esattamente a Milano dove Federico si formo'
culturalmente.
Questo documentario di "vita" prima che politico, riesce attraverso
il
racconto serrato
del protagonista stesso, ad accattivare l'attenzione dello spettatore
e
a far si' che fatti
avvenuti nel nostro paese divengano di dominio internazionale inquanto
vicende comuni a molti
paesi.
Egli racconta la sua esperienza creando un parallelismo tra la sua vita
privata e quella politica.
Il montaggio alternato di documenti di repertorio, ormai divenuti
storici e, di fotografie che
raffigurano le esperienze del protagonista stesso, è legato al
ritmo
del racconto, che ne dà la
scansione emotiva.
Entrano qui in gioco esperienze di vita toccanti, come quando Barozzi
ci racconta che ad uno dei
campi estivi a cui lui partecipava come animatore culturale per il
partito, conobbe la sua prima
moglie, con la quale, trascorse un primo mese di passione
travolgente, ma a causa di una malattia del sangue che lei contrasse di
li' a poco dopo essere rimastaincinta e, costretta ad abortire, anche
contro i suoi principi di cattolica fervente; anche dall'emergere di
questi particolari tematiche come questa, deduciamo il voler sviscerare
piu' aspetti dell'esistenza e piu' ideologie in particolare quella
dell'aborto, per cui in quegli stessi anni, si combatteva, ma che
ancora oggi rimane un te3mma sempre scottante e delicato da
affrontare.
Logoratosi il rapporto tra i due, lui per ritrovare un suo equilibrio
interno, disse che
per cambiare doveva essere da solo "con un bel mezzo di acqua in
mezzo".
Riparti' alla volta del Kibbutz, luogo di felicità inconscia in
cui
visse con i genitori unperiodo della sua infanzia di estrema felicità
che fu interrotto molti anni dopo dal divorzio di questi.
Ecco come attraverso il racconto dell'esperienza politica di
un "idealista", possono emergere
esperienze che coinvolgono piu' sfere personali; elementi di un
microcosmo che entrano a far parte del macrocosmo.
Non vi è affatto la banalizzazione di ideali giovanili quali essi
siano
ma bensi',
la regista riesce in soli ventisette minuti a raccontare le insicurezze
e gli accadimenti di una
vita, a creare senza lacune una descrizione del personaggio.
Attraverso il suo accostarsi alla politica, Barozzi fece fuoriuscire
una carica ed una verve che erano in lui latenti, forse soffocati dai
problemi che negli anni aveva maturato con sé stesso.
Con questo svelarsi davanti alla telecamera, Barozzi crea una
situazione di autoanalisi, soprattutto quando racconta dell'euforia
politica giovanile, imbevuta di insoddisfazione e che con la
separazione dei genitori sfocio' in esaurimento nervoso.
Con questo cortometraggio, si estrinseca il bisogno di una politica
caratterizzata dalla concretizzazione, dai fatti e non solo
coreografata da parole e da demagogia.
Lucia Lombardi
OLTRE
IL CONFINE
Regia di Rolando Colla
Interpreti: Anna Galiena, Senad Basic,
Giuliano Persico, Gianluca Gobbi.
La produzione di questo film é della svizzera "Peacock",
fondata dal
regista stesso nel 1984, tramite la quale Colla realizza in principio
film didattici per passare poi lui stesso ai lungometraggi,
come "Jagdzeit" con cui otterrà il premio "I pardi
di domani" qui a
Locarno nel 1994.
Quattro anni dopo, il successo gli arriderà nuovamente sempre in
ambito
festivaliero con il film in costume "Le monde à l'envers".
Dopo essersi dedicato ai cortometraggi, il regista é tornato con
il
lungometraggio in questione: Oltre il confine, da cui si deduce in
Colla una propensione alle tematiche sociali, in quanto la pellicola
affronta il tema della guerra in Bosnia ma vi arriva non direttamente
ma grazie ad alcuni stratagemmi narrativi, ovvero parte dalla storia di
un vecchio reduce italiano impazzito e di sua figlia Agnese(Anna
Galliena), donna inserita in ambito lavorativo nella Torino dei primi
anni novanta, che ha una relazione con un architetto ticinese; i due
conducono vite separate anche se lavorano nello stesso ambito.
Agnese é costretta a raggiungere il vecchio padre all'ospedale
militare
perché in fin di vita, ed il giovane medico che accudiva il padre
di
lei, lo affida per una notte alle cure di Reuf, un clandestino bosniaco
che si rifugiava a casa del medico con la figlia maggiore.
I problemi sorgono quando Reuf, esaudisce il desiderio del vecchio di
fare una "corsa" notturna e simbolica nel parco dell'ospedale,
quasi un
assaporare una nuova libertà, una fuga immaginaria; l'incantesimo,
viene interrotto il comandante scopre il bosniaco sprovvisto di
documenti e lo trattiene in caserma.
Agnese si trova quindi catapultata in in una doppia problematica, la
malattia del padre e l'uomo che lo ha aiutato finito agli arresti; in
un primo momento la donna rifugge mentalmente ogni accadimento non
appartenente alla sua storia famigliare, ma poi si rende conto che deve
riconoscenza a quello sconosciuto.
Mentre la donna aiuta Reuf nella sua fuga, il padre viene meno e i due
si uniscono nel loro dolore. Lei torna a Torino con Reuf per
proteggerlo, e contemporaneamente rifiuta l'appoggio psicologico del
suo uomo, di cui mette in discussione i sentimenti, quelle poche ore
trascorse con il profugo e con una realtà che poteva esserle
apparentemente estranea, finiscono per coinvolgerla psicologicamente,
perché le riaffiora alla mente la sua infanzia, segnata dalla seconda
guerra mondiale, e dal tragico ritorno del padre dalla campagna di
russia.
Questo prendersi a cuore una situazione famigliare non sua, ma in cui
lei trovava similitudini e sofferenze, che lei aveva per anni rimosso,
come un dolore non appartenutole e che una volta compresa la rimozione,
lei comincia a comportarsi in maniera catartica non volendo che qualcun
altro potesse rivivere quelle tragedie che rimangono inconsciamente
sedimentate in noi.
E' sulla rimozione del dolore che con il tempo indurisce l'essere
umano, che lavora Colla, sullo sviluppo delle teorie nietzschiane
dell'eterno ritorno, perché é a causa della cancellazione
della
sofferenza dalla mente, che vi é il ripetersi delle guerre, ecco
allora
che si spiega la figura e il comportamento della protagonista, ed il
suo buttarsi a copofitto in una situazione a lei estranea, per poterla
mutare, come una specie di autopurificazione e rilettura della propria
vita, nonché un modo di superare le proprie paure ed insicurezze
irrisolte. Quando Agnese si ritrova catapultata in Bosnia in pieno
conflitto, la regia si fa ancora piu'autentica, rifiuta ogni ricerca
estetica, la macchina da presa é a mano e le riprese si fanno documento
storico.
Scenograficamente, non vi é nulla di costruito, suoni, luci e location
sono tutti reali.
Il fine ultimo é non dimenticare, perché le nuove generazioni
affrontino coscientemente queste tematiche, non rimuovendole ma
vivendole criticamente, e fare cosi' in modo che l'esperienza del
singolo possa servire da esempio di vita, per evitare il ripetersi di
errori!
Lucia Lombardi
AL
PRIMO SOFFIO DI VENTO
Regia di Franco Piavoli
Interpreti: Primo Gaburri, Mariella Fabbris,
Ida Carnevali, Alessandra Agosti,
Biana Galeazzi, Lucky Ben Dele.
Italia 2002.
Il regista Franco Piavoli, ambienta il suo nuovo film in un antico
casolare della campagna padana, in una assolata giornata d'estate, in
cui una famiglia borghese trascorre le proprie vacanze, senza
interagire con gli altri componenti.
La pellicola é costellata di silenzi intensi e ricchi di significati
in
cui é racchiudibile il mondo di ognuno di essi, ma anche le distanze
che si creano, sono una sorta di incomunicabilità dichiarata.
Funge da colonna sonora l'intenso e ipnotico canto delle cicale.
Si creano da subito mondi paralleli, in cui ogni individuo della
famiglia si trincera e vive la propria vacanza, come la piu' piccola
del gruppo che appare come una Ninfa alla Poussin che corre nel verde,
ed affronta i primi rapimenti amorosi, grazie ad un incontro casuale
lungo le rive del fiume Po, che nella cultura padana é sentito
come una
entità superiore, quasi una divinità, una presenza costante
nella vita
di ognuno.
La figlia piu' grande, suona assorta costantemente il pianoforte,
sembra quasi vivere un rapimento intellettuale.
La figura di Antonio, il padre, pare ascritta alla contemplazione della
natura, ai suoi meccanismi evolutivi, che trascrive al computer come
osservazioni scientifiche tra sé e sé, egli sogna persino
di insetti e
di loro particolari con un forte sentimento evoluzionistico. Enuclea un
discorso sull'unicità dei geni e quindi di ogni essere vivente,
e pare
asserire che proprio questa unicità, che potrebbe apparentemente
unirci, ci separa! Nella diversità, regna la solitudine. Ed ecco
con
questi ragionamamenti intimisti, spiegato il significato profondo ed
attuale del film stesso.
La madre seduta al tavolo della sala, colpita da luci calde che rendono
la sensazione dell'afa d'agosto, compone i suoi quadri di fiori e
piante di cui cosparge le pareti, e bisbiglia una poesia amorosa o
meglio sulla finitezza di questo. Gli interni che vengono ripresi
dall'occhio del regista, ed alcune immagini campestri che qui sono
immortalate, portano con sé la poesia delle immagini fotografiche
di
Migliori e di Luigi Ghirri e riportano la mente ad una certa tradizione
figurativa italiana.
Questa pellicola cosi' intimista, pare sinonimo del significato del
ciclo della vita, delle solitudini che ci pervadono e della necessità
di ritrovare un rapporto con il naturale, per comprendere maggiormente
significato e significante di noi stessi.
Lucia Lombardi
LA
CAGE
di Alain Droust
Caroline Ducey è la ragione principale per andare a vedere questo
film sofferente e forse sofferto.
Road-movie a una voce sola, quindi anomalo e silenzioso, è tutto
nel viso di una giovane assassina appena uscita dal carcere dopo 7 anni
di buona condotta, impegnata nell'attraversamento di paesaggi francesi
sempre piu' montani -un po' come i GERRY di Gus Van Sant- perché
il viaggio è un atto di catarsi, alla fine del quale trovare perdono
o morte dalle sole mani che possono darli, ovvero quelle del padre dell'ucciso.
Il film indugia nell'uso di campi medi, laddove dovrebbe realmente abbandonarsi
alla natura come scenografia che parla al posto della silenziosa protagonista,
seguita invece da vicino, nonostante affidi la recitazione alla sola mimica
facciale, con risultati, comunque, molto apprezzabili.
Purtroppo manca il ritmo di un qualunque poliziesco -ad esempio l'analogo,
per certi versi, ROBERTO SUCCO visto a Cannes l'anno scorso- perchè
Anne non è piu' braccata e cio' che lei insegue è ancora
piu' statico: il padre del ragazzo ucciso, infatti, è anch'egli
sprofondato in una crisi d'identità che gli ha fatto letteralmente
perdere il rapporto col suo doppio [ scena prima, nudo sul terrazzo, non
vede piu' la propria ombra ].
In tal modo tutto accade su di una linea retta e sentiamo la mancanza
delle premesse, inseribili tranquillamente in un LA CAGE 1 mai girato,
cosi' come l'incontro tra I due avviene troppo tardi.
I blocchi narrativi sono contrapposti e non intrecciati, senza raccordi
apprezzabili, sia quando, all'uscita dal carcere, Anne fa seguire la rinuncia
al posto di lavoro, sia al momento dell'abbandono del nucleo familiare
ridotto [ "non sono un esperimento", dice al capufficio responsabile
del programma di recupero ].
Pero' la Ducey ha una forza tutta compressa che da sola vale l'immersione
nel dramma: la scena dell'ok corral domestico, con le immagini di vendetta
evocate dal padre di lui, vale l'attesa, perché Caroline, attiva-passiva
di fronte a tanto odio, muove ogni muscolo facciale quasi venisse colpito
e scavato da quelle parole assolute.
VOTO: 26/30
NOVO
regia di Jean-Pierre Limousin
interpreti: Eduardo Noriega, Anna Mouglalis, Nathalie Richard,
Eric Caravaca, Paz Vega.
Francia 2002, minuti 97.
Il nuovo film del regista francese Limousin, che ha suscitato scalpore
al Festival del cinema di Locarno, in una piazza gremita e
fortunatamente risparmiata dalla pioggia,
apre la pellicola con una sequenza che ad un buon intenditore di
fotografia, ricorda la serie fotografica di Luigi Ghirri dal
titolo "Atlante", metafora del viaggio.
Si apre a noi una immagine di montagne che pare ripresa da un atlante
scolastico ma, mentre il regista apre la macchina ed amplifica
l'inquadratura, ci troviamo catapultati in una scena metropolitana in
cui un uomo si avventa contro un distibutore di bibite, subito
scopriamo che egli è pedinato da una guardia che controlla i suoi
movimenti; tutto questo è sviante rispetto al film inquanto pare
introdurci in un genere poliziesco ma, pian piano il film si apre a
nuove tematiche, accompagnandoci, trasportandoci verso il vero soggetto
filmico, il giovane semina involontariamente la guardia e torna al suo
lavoro quotidiano servizio fotocopie in una azienda parigina.
Lui spagnolo in terra straniera in cui ci dice il regista durante
l'intervista, che, la scelta cade sullo straniero per rendere ancora
piu' incisiva la problematica di cui Graham(Edoardo Noriega) é
affetto
da amnesia da circa sei mesi, quindi per lui le difficoltà si
moltiplicano, l'apprendimento di un nuovo idioma e le difficoltà
di
tenersi a mente ogni elemento della sua vita lavorativa e privata, per
cui il suo ufficio viene costellato di memorandum!La meticolosa
precisione con cui trascrive nel proprio diario ogni elemento del suo
quotidiano, murales che incontra nel suo percorso giornaliero per
recarsi al lavoro, fermate della metropolitana, ed anche appunti del
suo privato.
Il fatto che sia straniero e che sia affetto da amnesia, crea nelle
donne che lui incontra una commistione tra l'istinto di protezione e la
sensualità; tant'é che la direttrice dell'ufficio lo irretisce
creando
quasi una sorta di iniziazione ad una forma di sessualità piu'
libera.
L'interno algido dell'azienda é contrastato da due elementi colorati:
I
divani rossi tra cui si riconosce il divano "Tatlin" dell'architetto
riminese Roberto Semprini; questi due elemnti colorati sono leggibili
metaforicamente, in un primo momento la direttrice vi ci si siede in un
momento di provocazione sentimentale, ed in un secondo avviene una
discussione tra quest'ultima e la ex di Graham preoccupata per le sue
condizioni fisiche, ed ancora sensibile al fascino dell'uomo.
Lo sviluppo della storia, si ha quando all'orizzonte giunge una nuova
collega Iréne, a cui lui mostra l'azienda, tra i due scoppia subito
il
dardo ed appena lei scopre il problema che attanaglia la mente di
Graham lei rimane folgorata.
Tra i due scoppia una passione viscerale che li lega anche fisicamente,
in quanto le amnesie di lui rendono il rapporto sempre nuovo e vissuto
dalla donna quasi come una sfida ed una speranza di poterlo aiutare, in
questo caso lei si aiuta con la scrittura, scrive sul corpo di lui il
suo nome a caratteri cubitali, lascia tracce della sua presenza,
cospargendolo di baci rossi sul collo come fossero i tatuaggi degli
aborigeni.
Dopo qualche tempo il rapporto che prima aveva portato a lievi
miglioramenti, entra in crisi, perché lei, si accorge della difficoltà
nel creare un rapporto duraturo, che perché diventi tale, esso
si deve
sostentare nel ricordo delle sensazioni provate. Ovviamente il tutto é
una chiara simbologia, di come ogni rapporto necessiti di un
rinnovamento continuo, la forza sta nel vivere tutto con occhi nuovi,
come un bambino che affronta una nuova avventura, perché la forza
di
autorigenerarsi deve essere insegnamento di vita.
Anche dopo la separazione delle loro strade, Inés e Graham, si
ricongiungono grazie sia al destino, che alla voglia di lui di
impostare saldamente cio' che prima involontariamente non poteva.
Lucia Lombardi
SIGNS
di M. Night Shyamalan
Interpreti: Mel Gibson, Joaquin Phoenix,
Rory Culkin, Abigail Breslin.
America 2002, 114 minuti.
Ecco il nuovo lavoro molto atteso da pubblico e critici del regista
Shyamalan, nato in India nel 1970 ma cresciuto negli Stati Uniti,
ricevette sette nomination agli Oscar con il film "Il sesto senso,
1999", psicothriller e di "Unbreakable, 2000", ricerca
sul senso degli
accadimenti della vita.
Il film si apre con la messa in scena di quello che é un fenomeno
molto
studiato ed ancora sconosciuto, denominato "crop circles", ma
questo
aspetto non viene scientificamente evidenziato, piuttosto il regista
lavora su quella che é una presenza di esseri, la cui identità
é
sconosciuta.
La storia gravita attorno ad una famiglia americana della Pennsylvania
capeggiata dall'ex reverendo e padre di due bambini rimasto vedovo da
poco tempo, dal nome di Graham Hess.
I due figli avvertono per primi le tracce lasciate sui campi da queste
entità sconosciute, i piccoli rimangono scossi dalle sensazioni
che
essi avvertono, la bambina in particolare avverte nell'acqua un odore
differente e cosparge la casa di bicchieri d'acqua, che pero' saranno
poi fatalmente utili alla loro salvezza... .
Il padre in un primo momento scettico, rimane impressionato e si viene
a creare in lui un forte senso di protezione, puntellato da un forte
senso di impotenza, lui, che fino a sei mesi prima era reverendo e
quindi aveva in sé radicate delle forti certezze, ora i fatti della
vita lo provano, lo mettono in discussione con sé stesso e con
la
figura divina che gli aveva sempre indicato il cammino, dovuta anche
alla prematura perdita della moglie, frutto di un destino avverso.
Questo film puo' avere anche una molteplicità di chiavi di lettura,
ma
in cui la potenza dell'uomo viene messa in forte dubbio su piu' piani.
Un film, che dal punto di vista tematico é profondo, e da cui trapela
il mutamento del sentimento americano dopo l'11 settembre; tutto
vacilla ed il nemico si puo' annidare ovunque, ma cio' che puo'
salvarci é l'unità domestica, la solidità dei sentimenti
ed il coraggio
di far fronte all'imprevedibilità degli eventi ed alla loro casualità.
L'atmosfera che viene creata nelle prime scene del film, si perde nel
resto della pellicola, soprattutto quando si dona fisicità all'entità
sconosciuta, creando una sorta di "visitors" del 2000; certo,
caratteristica fondamentale del regista é dar forma tridimensionale
al
fantastico, ma cosi' pare scomparire il mistero; forse per placare
paure latenti si aveva la necessità di dare un volto a queste presenze.
Lucia Lombardi
PERSONAL
VELOCITY
di Rebecca Miller
Anche PERSONAL VELOCITY s'inserisce nella categoria della fiction documentaristica,
partendo pero' da un soggetto d'invenzione.
Tre vite, tre modi di elaborare le teorie della frustrazione quotidiana
al femminile, con uno stile che ricorda il collage di Van Sant in TO DIE
FOR: voce fuori campo durante certi fermi-immagine, flashback, uso di
filmini del passato.
I protagonisti non esistono nella realtà, ma il senso di fisicità
filmica cosi' prodotto genera effettivamente un modo appassionante di
narrare. E' il segnale piu' chiaro di questa edizione di Locarno.
Forse è una questione di ritmo, oppure di voyeurismo legato alla
possibilità di scandagliare a-diaframmaticamente il privato della
gente, o, ancora, di morbosa curiosità -a volte sommata a coscienza
civile- di osservare i drammi indiani o brasiliani o domestici senza sporcarci
le mani.
Certe situazioni sono un po' forzate [ il sesso in macchina dell'ultratrentenne
separata col ragazzino, i due seni appesi, etc ], ma nel complesso le
tre storie - e le prove delle tre attrici, Kyra Sedgwick, Fairuza Balk
e Parker Posey - riescono a portare lo spettatore dentro l'acquario dove
i personaggi galleggiano senza trattenersi, in un continuo andirivieni
di legami sempre piu' allentati.
Coerentemente, la MDP scivola tra corridoi upper class o ambienti di terza,
quarta classe morale, con la moglie sbattuta contro il tavolo e sanguinante
in viso, [ cinepresa a mano e fermi immagine in successione ] come se
dovese di volta in volta aderire alla materia che ha di fronte, senza
pretese d'imposizione di uno stile.
Talvolta la frammentazione e i tagli di montaggio sono persino eccessivi,
laddove paradossalmente il documentario-documentario ne richiede di meno.
Ma sta proprio in questo la forza di tali lavori: il vincolo a un corpo
narrativo strutturato che necessiti di pesi e contrappesi non esiste,
non è dato in partenza, sicché si rinuncia di buon cuore
alla consequenzialità dei fatti, in favore di un ennesimo graditissimo
cut-up di situazioni tra il tragico e il grottesco.
Le storie, tutte rigorosissimamente curate nel design degli ambienti -
questo veramente controllato e dettagliato, con plauso particolare per
il calibratissimo yuppismo arredativo mostrato nel secondo episodio -
vanno dalla frustrazione violenta di Delia in fuga dal marito, alla ninfomania
annoiata e metropolitana di Greta, al doloroso segreto familiare del terzo
espisodio con Parker Posey.
La figlia di Arthur Miller, diversamente da Sofia Coppola, dimostra anch'essa
di sapere raccontare con sicurezza l'universo femminile in costante mutazione.
VOTO: 27/ 30
THE
BOURNE IDENTITY
di Doug Liman
Poliziesco, detective-movie dalla parte dell'inseguito, dramma dell'identità
perduta.
Partendo dall' ultima notazione, diciamo subito che evidentemente I festival
procedono per blocchi tematici, anche se non necessariamente ben sviluppati.
Dopo l'accoppiata anomala sulle "catarsi paesaggistiche" [ GERRY/
LA CAGE], ecco il secondo film, dopo NOVO, sulla perdita della memoria
e annesse crisi di personalità.
Ma BOURNE IDENTITY, strana coproduzione che mette in campo l'eclettico
Matt Damon, la bilingue Franka Potente e un televisivo Orso Maria Guerrini
[!], in realtà vive esclusivamente sul ritmo forsennato dell'investigazione
sul perchè Damon sia inseguito dai servizi segreti, che l'avevano
incaricato di eliminare un leader di colore.
Cio' che il protagonista non dimentica mai è una violenza secca,
molto bella da vedere, con la quale si fa largo nel mistero che lo dovrebbe
attanagliare, mentre gli garantisce nuova linfa vitale e il pretesto per
intrecciare un rapporto con la crocerossina Potente.
Non è che s'indaghi molto attorno alla tragedia privata di chi
ha perso se stesso, mentre molto s'indaga attorno al perché Damon
non avrebbe portato a termine la missione, da cui la presunta sua fuga
e gli inseguimenti cui si accennava.
Ottimo prodotto ottimamente prodotto, sufficiente direzione degli attori,
spolpati di ogni profondità fuori luogo in simili contesti, delirio
tecnologico stilizzato e graficizzato, in linea con gli ultimi 007 e missioni
impossibili di sorta.
VOTO: 26/ 30
Aime
ton père
Regia di Jacob Berger
Interpreti: Gérard Depardieu, Guillaume Depardieu,
Silvie Testud, Julien Boisselier,
Noémie Kocher.
Francia 2002, durata 100 minuti.
Tra le scoscese montagne della Francia meridionale, in una baita in cui
la vita sembra scorrere al meglio secondo l'ordine naturale delle cose.
Una telefonata giunta all'alba cambia un po' l'ordine degli addendi in
quanto questo stratagemma, ci svela che Léo Shepherd era uno scrittore
che vince il premio Nobel per la letteratura che sua figlia maggiore
sposata funge da sua collaboratrice abita anch'ella nella baita insieme
al marito ed alla nuova moglie del padre.
La notizia della vittoria de premio viene divulgata dai media, cosicché
giunge anche al figlio Paul che cerca di comunicare con il padre via
telefono, ma sia la matrigna che
la sorella non gli permettono di parlargli.
Nel frattempo fervono i preparativi per la partenza alla volta della
Svezia per ritirare il prestigioso premio, Lèo decide di partire
da
solo in moto, mentre gli altri lo seguono in aereo.
Durante una sosta al distributore di benzina, sopraggiunge
inaspettatamente alle spalle dello scrittore Paul, il figlio, egli si
complimenta con il padre, ma non si trattiene dall'essere pungente, per
cui ci viene delineato il rapporto critico e spigoloso che vige tra i
due.
Lèo riprende il suo viaggio con un po' di amaro in bocca, lasciandosi
cullare dalle morbide curve montane; i giri del motore aumentano, le
curve si fanno piu' tortuose e comincia ad apparirgli davanti agli
occhi, l'immagine di un bambino che gli attraversa improvvisamente la
strada, il motociclista inchioda e dopo la curva ci si apre la scena di
un gravissimo incidente automobilistico, in cui lui si trova
marginalmente coinvolto e gli altri perdono la vita. Dopo qualche
momento sopraggiunge un'auto, questa si ferma per soccorrere gli
incidentati e vediamo scendere Paul. Egli interviene portando via con
sé il padre colto da una crisi di nervi, quest'ultimo quasi piu'
impaurito dalla presenza del figlio che dall'accadimento in sé.
Il viaggio dei due comincia ad essere frenetico, in cui il figlio sente
di dover svelare le sue paure al padre, che non prova nessuna stima per
il giovane ex tossicodipendente, il quale intende il viaggio come una
sorta di seduta psicanalitica proprio con colui che era stato il frutto
delle sue frustrazioni ed insicurezze per tutta la vita. I due vengono
alle mani, svelano oltre che all'altro anche a sé stessi alcuni
lati
oscuri del proprio modo di pensare, per esempio il rapporto criptico di
Paul con l'infanzia non corrisponde a quello di Léo, che appare
nel suo
rapporto con i figli come un padre dispotico, a tratti individualista,
volto ad esaudire solo le proprie esigenze di intellettuale.
Il "rapimento" del padre da parte del figlio appare come la
ricerca di
una tregua, del recupero di un rapporto che pareva in pieno
disgregamento.
Questo film puo' aiutare sia i genitori che i figli nella gestione dei
loro ruoli all'interno della relazione parentale, e nel misurarsi
reciprocamente in modo costruttivo e rispettoso delle proprie natura.
Lucia Lombardi
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