THE KILL BILL CASE
CAPITOLO 1: LA SPOSA VIAGGIANTE E LA CITAZIONE ARDITA.
La vettura cabriolet color pastello viene dagli anni Sessanta. L’inquadratura, ora frontale, ora di tre quarti, scava nei dettagli cromati
del paraurti e del fanale anteriore. L’auto è impegnata in una simulazione
di moto che prevede fondali a scorrimento e improbabili ondulazioni laterali
dell’abitacolo. Uno spot a media altezza seleziona, attraverso l’unico
violento fascio di luce di taglio, zigomi e capelli della donna che è alla
guida. La banda sonora è impegnata a ricordare altre epoche e il ritmo
ostinato sembra per un attimo portare la nostra attenzione su elementi
estranei alla scena, che apre il film – quasi fosse un road movie – e
ritorna verso la fine.
Tutto ha comunque a che fare con la memoria di qualcosa di preciso e
indistinto allo stesso tempo. Preciso, come potrebbe essere Janet Leigh che
cerca una via di fuga o Grace Kelly con una o due ruote sempre sull’orlo
del baratro. Preciso, come una serie d’immagini prese di peso dai film di
Alfred Hitchcock, comunque dalle parti del 1960 o poco prima.
Indistinto, come la sensazione di essere, invece, in un altro periodo
indefinito e dentro altre logiche.
Altra scena. Dal film intitolato KILL BILL VOLUME ONE.
La donna dell’auto, detta “Black Mamba”, occupa lo spazio bianco
disinfettato di una clinica. Bloccata sul lettino di degenza, stesa come
mummia inquietante, i tratti androgini sui quali una luce stranamente non
ospedaliera posta sopra il capo si distende, aspetta. Di risvegliarsi dal
coma o, comunque, che qualcosa accada. Primi piani si alternano a
inquadrature del letto, riprese dal punto in cui si trova la porta della
stanza. Forse entrerà qualcuno. L’attesa è spezzata da un allegretto, un
motivo fischiettato, con coppie di semplici salti di un tono, proveniente da
un altro tempo e da differenti stati emotivi. Twisted nerve, del compositore
Bernard Herrmann [doppio musicale di Alfred Hitchcock, da lui scelto per
diverse collaborazioni], è una spiazzante caramella sonora dal sapore d’infanzia. Spiazzante come un ombrello rosso e due gambe femminili in
primissimo piano, all’altezza del pavimento, seguiti dalla m.d.p. fino ad un
altro ambiente della clinica, dove entrano portandosi dietro chi le
possiede, cioè Elle Driver/ Daryl Hannah fasciata da tailleur chiaro e benda
sull’occhio destro. Improvvisamente l’immagine si sdoppia: primissimo piano
di Mamba-Thurman a sinistra, dettagli di una siringa riempita di liquido
rosso a destra e successivamente la stessa siringa nelle mani della
piratessa che va verso la stanza della malata. Ancora una volta, qualcosa di
molto preciso: siamo a tutti gli effetti in un film di Brian de Palma, e per
l’espediente dei fotogrammi divisi, e per i dettagli iperdescrittivi.
[In altro punto della pellicola, poi, alcune riprese zenitali di ambienti
domestici richiamano in maniera eclatante lo stile dello stesso autore].
Ancora una volta anche qualcosa di indistinto: la banda sonora, corpo
apparentemente estraneo, suona come un valore aggiunto e cortocircuita le
nostre sensazioni, divise tra iper-tensione visiva e relax uditivo.
Molteplici sono i luoghi di KILL BILL VOLUME 1 & 2 in cui gli ossimori o i
semplici contrasti e le associazioni ardite sono costruiti con precisione
zen: interi “capitoli” realizzati con animazioni in stile manga accostati a
temi di Ennio Morricone, musiche di Luis Enriquez Bacalov durante duelli tra
moderni samurai, spade giapponesi custodite in camper texani...
Eppure verificare una cinefilia creativa capace di opere felicemente anomale
e poco classificabili non basta, c’è qualcosa che non torna.
CAPITOLO 2: IL REGISTA è UN SAMURAI.
Non torna il fatto che ogni rispettabile citazionismo si connota per il puro
gusto dell’accostamento e comunica il piacere del gioco fine a se stesso,
come accadeva nelle celebrazioni del Postmoderno in architettura [LA
PRESENZA DEL PASSATO, 1980], mentre qui vengono trasmesse altre emozioni e
comunicate informazioni che arricchiscono la qualità del dato espressivo.
Si inizia da quel senso di vertigine della percezione sensoriale e di
spaesamento descritti sopra, si passa ad un piacere prolungato che dura
quanto l’intera pellicola, si termina con l’approdo verso ampi territori di
meditazione e, a tratti, di commozione non gratuita, ma simile ad una specie
di “coito” mentale.
Ciò che non torna è che, come per i fratelli Coen, forse anche più abili
nell’applicazione di questa arte, alla fine ci troviamo in mano un prodotto
omogeneo, compatto come un pane pieno di pensieri canditi, che non riusciamo
più a decomporre nelle singole parti-citazioni che hanno fatto da
ingredienti. Prodotti, in definitiva, che prendono definitivamente la
paternità di chi ha così bene impastato la materia filmica. Filmati e
firmati indelebilmente.
Se l’homme blasé di Baudelaire sembrava già anticipare i rischi di
pre-morte dell’arte, dopo un secolo è accettabile, se non il suo epitaffio,
perlomeno l’idea che i margini d’innovazione siano estremamente ridotti.
Chi ha diciott’anni oggi fa continuo ricorso al cut and paste come forma di
espressione, dai videogiochi ultracitazionisti, alla dj-culture, alla
vintage-couture, per così dire, sino a internet.
E’ quindi dimostrazione di infinito talento, nell’Era dell’Impossibilità
del Nuovo, riuscire a rendere riconoscibile la propria arte.
Ma come si realizza la quasi-perfetta sintesi?
Da Kusturiça a Lynch ai Coen, da Kitano a Tarantino arriva una sola
risposta: preclusa ogni invenzione assoluta, il segreto sta nel conoscere
perfettamente la Tecnica, la Storia e i Maestri della materia che poi andrà
impastata. Tutti e cinque, presi a mo’ di esempio, sono leggibili
attraverso i propri riferimenti culturali, meno nascosti di quanto si pensi.
Solo Lynch riesce a mascherare meglio quelli prettamente cinematografici [ma non gli altri, riferibili in primis alla pittura] e ad apparire, nel
complesso, più originale.
Il loro genio sta nel partire dalla paziente analisi/ decostruzione/
ricomposizione dei segni e delle regole offerte da opere del passato. Una
volta che si dominano: tutto il cinema di ieri [scienza orizzontale] e
tutti i generi [scienza verticale], quindi dopo una dimostrazione di
straordinario amore e massima disciplina, ci si concede qualche piccolo
gesto in più.
In fondo anche la gestualità del samurai, che appare sovraccarica di segni
inutili, nasconde al contrario una conoscenza e disciplina infinite, fondate
sull’assoluta capacità di padroneggiare la Tradizione, e ogni Maestro riesce
a essere diverso dagli altri e dai predecessori, anzi, DEVE essere un po' diverso e alla fine superiore.
Se KILL BILL ha una sola eroina finale che vince con la spada del samurai,
costei si sarà dimostrata non la più fantasiosa, ma la più capace di amore,
disciplina e impercettibili variazioni all’interno dell’arte del
combattimento.
E forse non è un caso che anche lo ZATOICHI di Beat-Takeshi racconti una
storia simile a quella da cui siamo partiti [donne giustamente vendicative
e protagoniste di guerre esperte, maestri dell’arte marziale addirittura
con lo stesso nome, Hattori, etc].
Sicuramente non è un caso che Uma Thurman superi e abbatta i nemici perché
spinta da un amore superiore, quello per la figlia creduta morta prima di
nascere.
In definitiva, Tarantino è come la terminator del film: un Maestro che
domina la propria disciplina, sempre più sapiente nelle scene d’azione,
sempre più saggio nel gestire al meglio gli incastri di una struttura
narrativa ancora una volta piena di flash-forward e flash-back, che alterna
perfettamente segmenti ipercinetici e brevissime pause zen [manipolate in
musica dagli stessi RZA-Wu Tang Klan di GHOST DOG, altro film sull’onore
del samurai, altro film saggiamente studiato e digerito] nel VOLUME ONE,
che cambia registro nel VOL. 2, distendendo lunghe scene di affabulazione
introspettiva lungo il percorso di Black Mamba, che riesce come nessuno mai
a mettere in copula lo stile televisivo dei serial giapponesi – zoom
sguaiati sui visi dei combattenti, qualità d’immagine poverista, gestualità
comica – e contrappunto sonoro allogeno, stavolta letteralmente DI Ennio
Morricone, non “alla” Morricone, laddove non di Bacalov, o di Riz Ortolani
[quello di FRATELLO SOLE SORELLA LUNA.......], o addirittura di Nora Orlandi
[l’abbiamo letto nei titoli di coda e non ci sembra poi così assurdo].
Che ricorda Lucio Fulci sempre in coda e guarda, anche solo per pochi
secondi, dentro la serratura dello spaghetti-horror quando alza il volume
dell’organo nella scena di Thurman-come-Stefania Casini-in SUSPIRIA.
Che si autocita quando la stessa Thurman rinviene dopo analoghe punture:
qui una zanzara la porta fuori dal coma, in PULP FICTION era una siringa a
salvarla da overdose.
Evitiamo accuratamente l’argomento Manga, degno di analisi a parte. Ma
notiamo che la pillola inserita nella Parte Prima vale un premio a qualunque
festival di cinema d’animazione.
Quentin T. è lo Zatoichi del cinema, perché col tempo aumentano il volume e
la qualità della sua Conoscenza e, di conseguenza, la possibilità di
sconfiggere l’avversario con piccoli, sottili, imprevisti gesti d’arte
contemporanea.
CAPITOLO 3: LE TRE RAGAZZE DELLA GIUSTA VENDETTA.
Ciò che era stato omesso in precedenza è una verità assoluta del cinema
realizzato dai registi-samurai e forse vale più di ogni analisi condotta
finora:
gli oggetti filmici prodotti dalla bottega dei Maestri, seducenti giocattoli
fiammeggianti a uno sguardo superficiale, ma apparentemente refrattari a
ogni tipo d’interpretazione contenutistica, trasmettono, al contrario,
emozioni all’interno di storie quotidiane o grands recits molto più delle
opere che trascurano la disciplina dello stile, del come e giustificano
l’assenza di qualità con l’urgenza di un’ipertrofia comunicativa.
L. V. Trier, ad esempio, ha speso anni a modellare e limare stilizzatissimi
esercizi di stile - magari un po' deboli nei contenuti forse proprio perché
troppo levigati [poi contraddetti durante l’ambigua fase dogme-95] - e
finalmente, dopo tanto apprendere, ha prodotto lavori emozionanti, come
DANCER IN THE DARK.
Ovvero: la storia della semicieca emigrata in un’America ostile e
assassina, senza i perfetti, geniali e controllatissimi “balletti di
fabbrica e ferrovia” [quindi girata come IDIOTERNE o FESTEN], sarebbe
risultata improponibile e ruffiana.
KILL BILL 1 & 2 confermano Tarantino nella sua vocazione a parlarci del
mondo delle donne con ampio sguardo e nessuna tentazione machista. Dai
gangster che assistono allo smantellamento delle proprie sicurezze e già
posseggono un’anima sensibile e in stato di allerta emotiva, da questi veri
uomini incerti moderni impegnati nell’agire una violenza intesa come
fragile scudo [RESERVOIR DOGS e PULP FICTION], si passa alle amazzoni
dell’anima dei film successivi.
JACKIE BROWN e Black Mamba combattono per una dignità perduta e aderiscono
alle regole dettate da altri – uomini – solo strumentalmente e all’unico
scopo, una volta riscattatesi, di abbandonare quelle stesse regole e
iniziare una nuova esistenza creativa e creatrice. Mentre l’universo
maschile è un motore che batte in testa quando rivela, nella sua coazione a
ripetere gli errori di sempre, tutta la sua incapacità a costruire, le donne
se ne sono già andate e loro giacciono, più o meno fuor di metafora, sul
campo di battaglia.
Anche Bill, con tutto l’onore del samurai-cowboy, soccomberà.
In KILL BILL le ragioni della violenza valgono: per Black Mamba [killer
ferita a morte dall’inconsapevole padre della figlia portata in grembo,
resuscita e affronta una sepoltura da viva, combattimenti contro eserciti di
samurai, duelli con gli ex-compagni traditori, per vendicare la figlia che
crede di aver perso durante una carneficina nuziale da cui parte la storia]; per Oren – Ishii
[cino-americana, testimone bambina dell’assassinio del
padre, è mossa da analoghi sentimenti di rivalsa, fino a che, ormai a capo
della yakuza di Tokyo, accetta l’onorevole sfida dell’indomabile
avversaria da lei tradita]; per Niki [B. Mamba è costretta a eliminare,
per prima, sua madre ed ex-collega Vernita Green; è in casa quando ha luogo
il fatto e riceve la promessa della protagonista che, a tempo debito, potrà,
dovrà esercitare contro di lei il suo diritto di giusta vendetta].
Ma anche le figure maschili, seppur meno convinte, riconoscono questo
diritto alla protagonista, e, all’atto finale, escono di scena con dignità.
Onore, riscatto, dignità: Tarantino prende spunto in maniera convinta e
convincente dall’etica del samurai e aderisce a culture diverse dalla sua.
Opera all’interno di una forma di rispetto globale verso ciò che è
diverso/interessante/rispettabile sia che si tratti di film altrui, sia che
abbia a che fare con persone e, appunto, culture.
In fondo è molto vicino, sul piano personale e sul piano della sensibilità
artistica, sia a Kitano che a John Woo, capaci anche loro di costruirsi una
carriera su questi valori e sulle tematiche ad essi connesse.
CAPITOLO 4: pre-scriptum e conclusione: METICCIO E’ IL CINEMA.
“The price you pay for bringing up either my chinese or american heritage as
a negativism, i collect your fucking heads!”.
Cosi’ parlò, nell’Episode One, Oren Ishii/Lucy Liu alla cupola-yakuza
degli “88”.
Ma lo stesso anatema, in forma di manifesto o dogma di ogni meticciato
cinematografico, potrebbe essere scagliato da Quentin Tarantino [o dal suo
stesso film fattosi persona], verso chi si ostina a non considerare
avvenuto il superamento del mero concetto di “post-modernità” [vedi
CAPITOLO 2] come collezione e giustapposizione di segni provenienti dalla
cava sempre aperta del “tempo passato”.
Sibila una delle sacerdotesse della giusta vendetta a tre quarti di “Kill
Bill Primo Volume” [le altre seakers for revenge sono la Niki figlia di
Vernita Green in un ipotetico Vol. 3 e, naturalmente, Uma-Black Mamba]: “Vi
stacco la testa se provate a mettere in cattiva luce il mio essere doppio
sangue”, e la poca voglia che avevamo di contraddirla scolora e svanisce nel
nero stilizzato delle still life animate ispirate al design in movimento
della serie “Shadow Warriors 1,2,3 and 4” [dvd/ contenuti inediti].
Partiamo da questa premessa per porre fine ai ragionamenti angusti sul vuoto
inoffensivo di un’arte cartoonistica di stripes-vivents, di cut-up
organizzati da una goliardica ed estemporanea genialità da fastidioso
prestigiatore: non abbiamo a che fare con un maniaco di lyotard e derrida (
o di maurizio ferraris... ), che scivola sul piano inclinato di deboli
pensieri incapaci di novità e, quindi, incline a bere alla fonte – passiva
– della “citazione”.
L’arte meticcia di “Kill Bill 1 & 2” è pura profondità, scavo, terza e
quarta dimensione dell’immagine che parla, cubismo di un cinema amato a
dismisura – e in quanto tale assolutamente anti-intellettualistico – per la
possibilità di veicolare valori e storie attraverso i canali , le vene e le
arterie, di tutti i generi immaginabili e re-immaginati dalla mente
tarantolata del regista.
Come una giovane donna cino-americana di inaccettabile-indefinibile bellezza
[dicevamo: Oren-Ishii], i film dell’italo-americano non espongono
superficialmente la bidimensionalità di occhi cinesi agganciati a una bocca
statunitense, la cultura delle storie di samurai appiccicata male a
strutture narrative u.s.a.: gli incroci – ricordiamolo – sono sempre il
meglio, e quindi il fascino di una lucy liu, [come lo splendore della
pellicola “Kill Bill”], sono tali perchè portano in dote la profondità di
matrici etno-culturali ricche e stratificate nel tempo.
Riportano in vita quel tempo, quei tempi come se fossero uno spazio della
mente in cui collocare lo spettatore per farlo ragionare e provare emozioni,
non li espongono come un drappo rigido solo da toccare.
I “fans” di Tarantino credono di essere sempre al luna park e vedono la
giostra girare, ma l’uomo si è fermato a pensare da molto tempo, ormai, ed
è sceso prima di loro.
Non si tratta di maturità presunta, di Jackie Brown piu’ introspettivo di
Pulp Fiction, di “Volume Two” piu’ meditativo di “V. 1” etc.: Q.T.
chiarisce, in un breve ma illuminante passaggio dell’intervista contenuta
nel dvd del primo episodio, il senso e il piacere del fare cinema meticcio.
“Ho voluto che la troupe del set pechinese fosse composta dai dipendenti
degli studi locali, maestranze cinesi di varie generazioni, che da sempre
abitano con le famiglie dentro quegli stessi spazi, con tanto di negozi e
scuole... lavoravamo bene ed eravamo rilassati. Non è stato lo stesso
quando siamo tornati a los angeles... ”.
Quindi: assorbire con rispetto varie voci di varie culture per farle parlare
con voce propria.
Questo non significa negare, ai molti adepti del culto di T., il piacere di
attraversare quel caleidoscopio di colori e forme inaspettate con la vorace
voglia di bersi in un sorso solo il giochino delle montagne russe [è stato
bello, ma può bastare].
A noi, però, non basta mai!!!
Perchè entrare in una casa di piacere intellettivo come “Kill Bill”, ci
costringe a inserire nel nostro sistema percettivo una sorta di ralenti
capace di suddividere in segmenti infinitesimali la sottile linea arcobaleno
delle informazioni regalateci, si’ da farci godere e della velocità, e
dell’attimo sospeso nel tentativo di trovare un punto di fuga.
E ogni volta, ad ogni istante bloccato, vorremmo poltrona bibita e relax per
potere meglio ammirare quel frammento che in fuga non andrà mai.
Niente
helter skelter: Semmai
siamo in un Guggenheim che ci gira letteralmente intorno piu’ di quanto
volesse F. L. Wright.
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Voto KB-2: 30+/30
05.05.2004
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