KILL BILL

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VOL. 1 - 2

di Gabriele FRANCIONI

THE KILL BILL CASE

 

CAPITOLO 1: LA SPOSA VIAGGIANTE E LA CITAZIONE ARDITA.

 


La vettura cabriolet color pastello viene dagli anni Sessanta. L’inquadratura, ora frontale, ora di tre quarti, scava nei dettagli cromati del paraurti e del fanale anteriore. L’auto è impegnata in una simulazione di moto che prevede fondali a scorrimento e improbabili ondulazioni laterali dell’abitacolo. Uno spot a media altezza seleziona, attraverso l’unico violento fascio di luce di taglio, zigomi e capelli della donna che è alla guida. La banda sonora è impegnata a ricordare altre epoche e il ritmo ostinato sembra per un attimo portare la nostra attenzione su elementi estranei alla scena, che apre il film – quasi fosse un road movie – e ritorna verso la fine.
Tutto ha comunque a che fare con la memoria di qualcosa di preciso e indistinto allo stesso tempo. Preciso, come potrebbe essere Janet Leigh che cerca una via di fuga o Grace Kelly con una o due ruote sempre sull’orlo del baratro. Preciso, come una serie d’immagini prese di peso dai film di Alfred Hitchcock, comunque dalle parti del 1960 o poco prima.
Indistinto, come la sensazione di essere, invece, in un altro periodo indefinito e dentro altre logiche.
Altra scena. Dal film intitolato KILL BILL VOLUME ONE.
La donna dell’auto, detta “Black Mamba”, occupa lo spazio bianco disinfettato di una clinica. Bloccata sul lettino di degenza, stesa come mummia inquietante, i tratti androgini sui quali una luce stranamente non ospedaliera posta sopra il capo si distende, aspetta. Di risvegliarsi dal coma o, comunque, che qualcosa accada. Primi piani si alternano a inquadrature del letto, riprese dal punto in cui si trova la porta della stanza. Forse entrerà qualcuno. L’attesa è spezzata da un allegretto, un motivo fischiettato, con coppie di semplici salti di un tono, proveniente da un altro tempo e da differenti stati emotivi. Twisted nerve, del compositore Bernard Herrmann [doppio musicale di Alfred Hitchcock, da lui scelto per diverse collaborazioni], è una spiazzante caramella sonora dal sapore d’infanzia. Spiazzante come un ombrello rosso e due gambe femminili in primissimo piano, all’altezza del pavimento, seguiti dalla m.d.p. fino ad un altro ambiente della clinica, dove entrano portandosi dietro chi le possiede, cioè Elle Driver/ Daryl Hannah fasciata da tailleur chiaro e benda sull’occhio destro. Improvvisamente l’immagine si sdoppia: primissimo piano di Mamba-Thurman a sinistra, dettagli di una siringa riempita di liquido rosso a destra e successivamente la stessa siringa nelle mani della piratessa che va verso la stanza della malata. Ancora una volta, qualcosa di molto preciso: siamo a tutti gli effetti in un film di Brian de Palma, e per l’espediente dei fotogrammi divisi, e per i dettagli iperdescrittivi.
[In altro punto della pellicola, poi, alcune riprese zenitali di ambienti domestici richiamano in maniera eclatante lo stile dello stesso autore]. Ancora una volta anche qualcosa di indistinto: la banda sonora, corpo apparentemente estraneo, suona come un valore aggiunto e cortocircuita le nostre sensazioni, divise tra iper-tensione visiva e relax uditivo.
Molteplici sono i luoghi di KILL BILL VOLUME 1 & 2 in cui gli ossimori o i semplici contrasti e le associazioni ardite sono costruiti con precisione zen: interi “capitoli” realizzati con animazioni in stile manga accostati a temi di Ennio Morricone, musiche di Luis Enriquez Bacalov durante duelli tra moderni samurai, spade giapponesi custodite in camper texani...
Eppure verificare una cinefilia creativa capace di opere felicemente anomale e poco classificabili non basta, c’è qualcosa che non torna.

 


CAPITOLO 2: IL REGISTA è UN SAMURAI.


Non torna il fatto che ogni rispettabile citazionismo si connota per il puro gusto dell’accostamento e comunica il piacere del gioco fine a se stesso, come accadeva nelle celebrazioni del Postmoderno in architettura [LA PRESENZA DEL PASSATO, 1980], mentre qui vengono trasmesse altre emozioni e comunicate informazioni che arricchiscono la qualità del dato espressivo.
Si inizia da quel senso di vertigine della percezione sensoriale e di spaesamento descritti sopra, si passa ad un piacere prolungato che dura quanto l’intera pellicola, si termina con l’approdo verso ampi territori di meditazione e, a tratti, di commozione non gratuita, ma simile ad una specie di “coito” mentale.
Ciò che non torna è che, come per i fratelli Coen, forse anche più abili nell’applicazione di questa arte, alla fine ci troviamo in mano un prodotto omogeneo, compatto come un pane pieno di pensieri canditi, che non riusciamo più a decomporre nelle singole parti-citazioni che hanno fatto da ingredienti. Prodotti, in definitiva, che prendono definitivamente la paternità di chi ha così bene impastato la materia filmica. Filmati e firmati indelebilmente.
Se l’homme blasé di Baudelaire sembrava già anticipare i rischi di pre-morte dell’arte, dopo un secolo è accettabile, se non il suo epitaffio, perlomeno l’idea che i margini d’innovazione siano estremamente ridotti. Chi ha diciott’anni oggi fa continuo ricorso al cut and paste come forma di espressione, dai videogiochi ultracitazionisti, alla dj-culture, alla vintage-couture, per così dire, sino a internet.
E’ quindi dimostrazione di infinito talento, nell’Era dell’Impossibilità del Nuovo, riuscire a rendere riconoscibile la propria arte.

Ma come si realizza la quasi-perfetta sintesi?
Da Kusturiça a Lynch ai Coen, da Kitano a Tarantino arriva una sola risposta: preclusa ogni invenzione assoluta, il segreto sta nel conoscere perfettamente la Tecnica, la Storia e i Maestri della materia che poi andrà impastata. Tutti e cinque, presi a mo’ di esempio, sono leggibili attraverso i propri riferimenti culturali, meno nascosti di quanto si pensi. Solo Lynch riesce a mascherare meglio quelli prettamente cinematografici [ma non gli altri, riferibili in primis alla pittura] e ad apparire, nel complesso, più originale.
Il loro genio sta nel partire dalla paziente analisi/ decostruzione/ ricomposizione dei segni e delle regole offerte da opere del passato. Una volta che si dominano: tutto il cinema di ieri [scienza orizzontale] e tutti i generi [scienza verticale], quindi dopo una dimostrazione di straordinario amore e massima disciplina, ci si concede qualche piccolo gesto in più.
In fondo anche la gestualità del samurai, che appare sovraccarica di segni inutili, nasconde al contrario una conoscenza e disciplina infinite, fondate sull’assoluta capacità di padroneggiare la Tradizione, e ogni Maestro riesce a essere diverso dagli altri e dai predecessori, anzi, DEVE essere un po' diverso e alla fine superiore.
Se KILL BILL ha una sola eroina finale che vince con la spada del samurai, costei si sarà dimostrata non la più fantasiosa, ma la più capace di amore, disciplina e impercettibili variazioni all’interno dell’arte del combattimento.
E forse non è un caso che anche lo ZATOICHI di Beat-Takeshi racconti una storia simile a quella da cui siamo partiti [donne giustamente vendicative e protagoniste di guerre esperte, maestri dell’arte marziale addirittura con lo stesso nome, Hattori, etc].
Sicuramente non è un caso che Uma Thurman superi e abbatta i nemici perché spinta da un amore superiore, quello per la figlia creduta morta prima di nascere.

In definitiva, Tarantino è come la terminator del film: un Maestro che domina la propria disciplina, sempre più sapiente nelle scene d’azione, sempre più saggio nel gestire al meglio gli incastri di una struttura narrativa ancora una volta piena di flash-forward e flash-back, che alterna perfettamente segmenti ipercinetici e brevissime pause zen [manipolate in musica dagli stessi RZA-Wu Tang Klan di GHOST DOG, altro film sull’onore del samurai, altro film saggiamente studiato e digerito] nel VOLUME ONE, che cambia registro nel VOL. 2, distendendo lunghe scene di affabulazione introspettiva lungo il percorso di Black Mamba, che riesce come nessuno mai a mettere in copula lo stile televisivo dei serial giapponesi – zoom sguaiati sui visi dei combattenti, qualità d’immagine poverista, gestualità comica – e contrappunto sonoro allogeno, stavolta letteralmente DI Ennio Morricone, non “alla” Morricone, laddove non di Bacalov, o di Riz Ortolani [quello di FRATELLO SOLE SORELLA LUNA.......], o addirittura di Nora Orlandi [l’abbiamo letto nei titoli di coda e non ci sembra poi così assurdo].
Che ricorda Lucio Fulci sempre in coda e guarda, anche solo per pochi secondi, dentro la serratura dello spaghetti-horror quando alza il volume dell’organo nella scena di Thurman-come-Stefania Casini-in SUSPIRIA.
Che si autocita quando la stessa Thurman rinviene dopo analoghe punture: qui una zanzara la porta fuori dal coma, in PULP FICTION era una siringa a salvarla da overdose.
Evitiamo accuratamente l’argomento Manga, degno di analisi a parte. Ma notiamo che la pillola inserita nella Parte Prima vale un premio a qualunque festival di cinema d’animazione.
Quentin T. è lo Zatoichi del cinema, perché col tempo aumentano il volume e la qualità della sua Conoscenza e, di conseguenza, la possibilità di sconfiggere l’avversario con piccoli, sottili, imprevisti gesti d’arte contemporanea.
 

 

CAPITOLO 3: LE TRE RAGAZZE DELLA GIUSTA VENDETTA.

 

Ciò che era stato omesso in precedenza è una verità assoluta del cinema realizzato dai registi-samurai e forse vale più di ogni analisi condotta finora:
gli oggetti filmici prodotti dalla bottega dei Maestri, seducenti giocattoli fiammeggianti a uno sguardo superficiale, ma apparentemente refrattari a ogni tipo d’interpretazione contenutistica, trasmettono, al contrario, emozioni all’interno di storie quotidiane o grands recits molto più delle opere che trascurano la disciplina dello stile, del come e giustificano l’assenza di qualità con l’urgenza di un’ipertrofia comunicativa.
L. V. Trier, ad esempio, ha speso anni a modellare e limare stilizzatissimi esercizi di stile - magari un po' deboli nei contenuti forse proprio perché troppo levigati [poi contraddetti durante l’ambigua fase dogme-95] - e finalmente, dopo tanto apprendere, ha prodotto lavori emozionanti, come DANCER IN THE DARK.
Ovvero: la storia della semicieca emigrata in un’America ostile e assassina, senza i perfetti, geniali e controllatissimi “balletti di fabbrica e ferrovia” [quindi girata come IDIOTERNE o FESTEN], sarebbe risultata improponibile e ruffiana.

KILL BILL 1 & 2 confermano Tarantino nella sua vocazione a parlarci del mondo delle donne con ampio sguardo e nessuna tentazione machista. Dai gangster che assistono allo smantellamento delle proprie sicurezze e già posseggono un’anima sensibile e in stato di allerta emotiva, da questi veri uomini incerti moderni impegnati nell’agire una violenza intesa come fragile scudo [RESERVOIR DOGS e PULP FICTION], si passa alle amazzoni dell’anima dei film successivi.
JACKIE BROWN e Black Mamba combattono per una dignità perduta e aderiscono alle regole dettate da altri – uomini – solo strumentalmente e all’unico scopo, una volta riscattatesi, di abbandonare quelle stesse regole e iniziare una nuova esistenza creativa e creatrice. Mentre l’universo maschile è un motore che batte in testa quando rivela, nella sua coazione a ripetere gli errori di sempre, tutta la sua incapacità a costruire, le donne se ne sono già andate e loro giacciono, più o meno fuor di metafora, sul campo di battaglia.
Anche Bill, con tutto l’onore del samurai-cowboy, soccomberà.

In KILL BILL le ragioni della violenza valgono: per Black Mamba [killer ferita a morte dall’inconsapevole padre della figlia portata in grembo, resuscita e affronta una sepoltura da viva, combattimenti contro eserciti di samurai, duelli con gli ex-compagni traditori, per vendicare la figlia che crede di aver perso durante una carneficina nuziale da cui parte la storia]; per Oren – Ishii [cino-americana, testimone bambina dell’assassinio del padre, è mossa da analoghi sentimenti di rivalsa, fino a che, ormai a capo della yakuza di Tokyo, accetta l’onorevole sfida dell’indomabile avversaria da lei tradita]; per Niki [B. Mamba è costretta a eliminare, per prima, sua madre ed ex-collega Vernita Green; è in casa quando ha luogo il fatto e riceve la promessa della protagonista che, a tempo debito, potrà, dovrà esercitare contro di lei il suo diritto di giusta vendetta].
Ma anche le figure maschili, seppur meno convinte, riconoscono questo diritto alla protagonista, e, all’atto finale, escono di scena con dignità.

Onore, riscatto, dignità: Tarantino prende spunto in maniera convinta e convincente dall’etica del samurai e aderisce a culture diverse dalla sua. Opera all’interno di una forma di rispetto globale verso ciò che è diverso/interessante/rispettabile sia che si tratti di film altrui, sia che abbia a che fare con persone e, appunto, culture.
In fondo è molto vicino, sul piano personale e sul piano della sensibilità artistica, sia a Kitano che a John Woo, capaci anche loro di costruirsi una carriera su questi valori e sulle tematiche ad essi connesse.
 


CAPITOLO 4: pre-scriptum e conclusione: METICCIO E’ IL CINEMA.
“The price you pay for bringing up either my chinese or american heritage as a negativism, i collect your fucking heads!”.

Cosi’ parlò, nell’Episode One, Oren Ishii/Lucy Liu alla cupola-yakuza degli “88”.
Ma lo stesso anatema, in forma di manifesto o dogma di ogni meticciato cinematografico, potrebbe essere scagliato da Quentin Tarantino [o dal suo stesso film fattosi persona], verso chi si ostina a non considerare avvenuto il superamento del mero concetto di “post-modernità” [vedi CAPITOLO 2] come collezione e giustapposizione di segni provenienti dalla cava sempre aperta del “tempo passato”.
Sibila una delle sacerdotesse della giusta vendetta a tre quarti di “Kill Bill Primo Volume” [le altre seakers for revenge sono la Niki figlia di Vernita Green in un ipotetico Vol. 3 e, naturalmente, Uma-Black Mamba]: “Vi stacco la testa se provate a mettere in cattiva luce il mio essere doppio sangue”, e la poca voglia che avevamo di contraddirla scolora e svanisce nel nero stilizzato delle still life animate ispirate al design in movimento della serie “Shadow Warriors 1,2,3 and 4” [dvd/ contenuti inediti].
Partiamo da questa premessa per porre fine ai ragionamenti angusti sul vuoto inoffensivo di un’arte cartoonistica di stripes-vivents, di cut-up organizzati da una goliardica ed estemporanea genialità da fastidioso prestigiatore: non abbiamo a che fare con un maniaco di lyotard e derrida ( o di maurizio ferraris... ), che scivola sul piano inclinato di deboli pensieri incapaci di novità e, quindi, incline a bere alla fonte – passiva – della “citazione”.
L’arte meticcia di “Kill Bill 1 & 2” è pura profondità, scavo, terza e quarta dimensione dell’immagine che parla, cubismo di un cinema amato a dismisura – e in quanto tale assolutamente anti-intellettualistico – per la possibilità di veicolare valori e storie attraverso i canali , le vene e le arterie, di tutti i generi immaginabili e re-immaginati dalla mente tarantolata del regista.
Come una giovane donna cino-americana di inaccettabile-indefinibile bellezza [dicevamo: Oren-Ishii], i film dell’italo-americano non espongono superficialmente la bidimensionalità di occhi cinesi agganciati a una bocca statunitense, la cultura delle storie di samurai appiccicata male a strutture narrative u.s.a.: gli incroci – ricordiamolo – sono sempre il meglio, e quindi il fascino di una lucy liu, [come lo splendore della pellicola “Kill Bill”], sono tali perchè portano in dote la profondità di matrici etno-culturali ricche e stratificate nel tempo.
Riportano in vita quel tempo, quei tempi come se fossero uno spazio della mente in cui collocare lo spettatore per farlo ragionare e provare emozioni, non li espongono come un drappo rigido solo da toccare.
I “fans” di Tarantino credono di essere sempre al luna park e vedono la giostra girare, ma l’uomo si è fermato a pensare da molto tempo, ormai, ed è sceso prima di loro.
Non si tratta di maturità presunta, di Jackie Brown piu’ introspettivo di Pulp Fiction, di “Volume Two” piu’ meditativo di “V. 1” etc.: Q.T. chiarisce, in un breve ma illuminante passaggio dell’intervista contenuta nel dvd del primo episodio, il senso e il piacere del fare cinema meticcio.
“Ho voluto che la troupe del set pechinese fosse composta dai dipendenti degli studi locali, maestranze cinesi di varie generazioni, che da sempre abitano con le famiglie dentro quegli stessi spazi, con tanto di negozi e scuole... lavoravamo bene ed eravamo rilassati. Non è stato lo stesso quando siamo tornati a los angeles... ”.
Quindi: assorbire con rispetto varie voci di varie culture per farle parlare con voce propria.
Questo non significa negare, ai molti adepti del culto di T., il piacere di attraversare quel caleidoscopio di colori e forme inaspettate con la vorace voglia di bersi in un sorso solo il giochino delle montagne russe [è stato bello, ma può bastare].
A noi, però, non basta mai!!!
Perchè entrare in una casa di piacere intellettivo come “Kill Bill”, ci costringe a inserire nel nostro sistema percettivo una sorta di ralenti capace di suddividere in segmenti infinitesimali la sottile linea arcobaleno delle informazioni regalateci, si’ da farci godere e della velocità, e dell’attimo sospeso nel tentativo di trovare un punto di fuga.
E ogni volta, ad ogni istante bloccato, vorremmo poltrona bibita e relax per potere meglio ammirare quel frammento che in fuga non andrà mai.
Niente
helter skelter: Semmai siamo in un Guggenheim che ci gira letteralmente intorno piu’ di quanto volesse F. L. Wright.
 

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05.05.2004

 

KILL BILL

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