15.ma Mostra Internazionale di video e cinema oltre
09/13:11:2005

milano

di Marco FERRARA


La XV edizione di Invideo, Mostra internazionale di video e cinema oltre, svoltasi presso lo spazio Oberdan di Milano, ha mostrato l’eterogeneo quadro della più recente produzione video europea e statunitense (scarsissime le presenze non occidentali).
Strumento linguistico peculiare, il video sguscia facilmente dalle briglie delle categorie muovendosi tra generi e forme differenti: cinema, performance, documento, poesia. In generale si possono riconoscere due tipi di approccio.
Il primo, più frequente, deriva dalla volontà dell’autore di mettere in forma uno sguardo personale, spesso altero, del reale. Il mezzo (l’immagine), come il fine (la comunicazione), sono dati acquisiti su cui non è necessario indugiare. L’obiettivo è noto, il problema è come raggiungerlo.
Il secondo atteggiamento, invece, muovendosi in special modo nell’ambito dell’editing avanzato, spinge la propria ricerca verso la stessa essenza dell’oggetto video perdendo di vista i riferimenti al mondo sensibile per sostituirli con un universo altro, compiuto in sé ed a sé referente.


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Al primo caso sono riconducibili i diversi lavori dal carattere spiccatamente documentario. L’avenir di Claudio Zulian, Spagna 2005, raccoglie le paure e le speranze della piccola comunità di Meurchin incrociando le voci degli intervistati con il movimento inverso della videocamera che lentamente rivela, insieme a luoghi e cose, lo stato emotivo più intimo degli abitanti del piccolo centro, bacino minerario del Nord Pas-de-Calais.
Il fastidio che provoca l’essere puntati dall’occhio di una videocamera è, invece, il tema su cui gioca il lituano Dansas Evaldos in Antropology of Abuse, Lituania 2004.
Ancora ascrivibile all’ambito documentario è Dialogues 99/II von Sacha Waltz di Dirk Szuszies, Germania 2004, unica e improvvisata ripresa della performance curata nel 1999 dal coreografo tedesco per i suggestivi spazi del museo ebraico di Berlino.
Di video-diario si può parlare, invece, per Border, Francia/UK, 2004, intensa ed autentica testimonianza di Laura Waddington, regista londinese già solita ad esperienze estreme, nascosta tra i profughi, iracheni e afgani, del campo della croce rossa di Sangatte. Le immagini buie e sgranate rubate dalla piccola videocamera digitale dell’autrice restituiscono pienamente l’atroce condizione cui gli esuli sono condannati, disperatamente appesi all’idea di una falsa terra promessa (l’Inghilterra), pronti a rischiare la vita per un passaggio clandestino attraverso il tunnel della Manica. La tensione creata dalle scadenti immagini del filmato ancora di più comprova l’accresciuta sensibilità dello spettatore alla materia video, la capacità di emozionarsi anche, o forse, soprattutto di fronte a documenti di scarsa qualità visiva ma enorme potenzialità comunicativa. Un vocabolario di immagini ricco ed elaborato è oramai patrimonio comune e diffuso e, con esso, una vera e propria alfabetizzazione visiva.

 


instruction

 

Dal documentario - rilevazione filtrata della realtà - alla finzione - ricostruzione ad arte del modello reale - diversi sono i lavori presenti alla mostra che rientrano pienamente all’interno della forma cinematografica classica. Chain, primo lungometraggio di Jem Cohen, USA 2004, narra in parallelo le giornate di due ragazze diversamente aliene alla società: la prima, dipendente di una grande impresa cinese in missione negli Stati Uniti, vedrà svanire il proprio entusiasmo in una terra straniera e silenziosamente ostile, la seconda riempie le proprie giornate vagabondando nei centri commerciali nell’attesa che qualcosa accorra permettendole di venir fuori da un presente senza futuro. Di analogo carattere narrativo è il cortometraggio contro le discriminazioni razziali Manmuswak di Patrick Bernier e Olive Martin, Francia 2005, mentre in 4* poemas di Syl Betulius e Lorenz Merz, Svizzera 2005, il racconto si tramuta in affresco attraverso quattro schizzi poetici raffiguranti una Zurigo in dismissione.

lynn fox

 

Forme più trasversali di racconto sono quei lavori meno classificabili che tentano di tradurre in un unico gesto video-sonoro un intento creativo: intento di denuncia – è il caso di F di Ethem Özgüven, Turchia 2004, e di Miserere di Antonello Matarazzo, Italia 2004: nel primo, attraverso il secco suono dei tacchi ed il vigoroso movimento del corpo di una ballerina di flamenco, si denunciano i maltrattamenti cui sono vittime le donne; nel secondo è il tema della disabilità ad essere trattato senza patetismi ma con sofferente poesia partenopea -, intento poetico – in Passages di Vincent Chabrillat, Francia 2004, l’alito primordiale della natura si accorda felicemente con il suono del respiro umano in un ciclico movimento ondulatorio della camera; in Closer to fall, di Tim White-Sobieski, USA 2004, neve, pioggia e vento si dissolvono tra le suggestioni sonore di Brian Eno mentre una figura femminile lascia che il latte che sta bevendo le si versi addosso; in Hraun og mosi di Steina Vasulka, USA 2005, è la stessa natura a generare composizioni visive ed acustiche astratte - intento giocoso - funzionante nel caso di Curl up and dye di Alisdair Irvine, UK 2004, in cui i parrucchieri britannici sono messi simpaticamente in vetrina; meno riuscito, invece, in Marsa abu galawa di Gerard Holthuis, Olanda 2004, banale abbuffata di colori marini e ritmi etnici.

 


miserere


Interessanti esiti linguistici sono, poi, quelli che vedono corpi, suoni e movimenti di camera amalgamarsi in video-danza come nel caso di Animal regard di Benjamin Silvestre, Francia 2004, e 10 nights rehearsal note di Ong Wing Lock, Hong Kong 2003. Meno certi, invece, gli approdi di labili ricerche poetiche basate su un estremo minimalismo: come avviene in Nur di Eléonore De Montesquiou, Germania 2004, loop posterizzato di una donna velata che gioca tra le onde, e in Chador di Sapideh Salehi, Italia 2005, in cui il gesto del vestimento diviene espressione video.
 

chain


Di tutt’altra natura sono, invece, quelle realizzazioni video che muovono la propria ricerca partendo dalla stessa sostanza ontologica dell’immagine: si tratta di tutti quei lavori dal carattere spiccatamente grafico in grado di ricreare una dimensione visiva non derivante dalla ripresa del reale. Tra questi vanno sicuramente annoverati i video generati da software di modellazione digitale tridimensionale che, tuttavia, anche se di alto livello tecnico, non riescono ad andare oltre un’estetica strettamente dipendente dalla propria matrice numerica ricadendo, così, in visioni ormai prevedibili e difficilmente originali. Vanno comunque citati gli eccellenti risultati di Arnaud Ganzerli e Laurent Bourdoiseau con Electronic performers, Francia 2003, di Vincent & Frank Dudouet e Adolfo Kaplan con Hors chants, Francia 2004, e dei Lynn Fox, gruppo di tre architetti internazionali che, anziché spazi fisici, realizzano spazi immaginifici per videoclip e spot pubblicitari.


Più interessanti, invece, quei lavori che partono da immagini già consumate, “visioni già viste” per rinnovarle in nuovi spazi dello sguardo. L’immagine, materia prima della produzione, è ricondotta ad immagine di sé stessa, “fotocopia della fotocopia”, formulando, in tal modo, una nuova alternativa visiva di quello che è stato il modello reale.
In The def song, Francia 2005, Kactus Hunters ricuce, come in una tela rammendata, “toppe-video” della più eterogenea provenienza, raffiguranti bastimenti in partenza, aerei in ricognizione, carovane in cammino, componendo un affresco di guerra fantastico e sorprendentemente nuovo. Una lunga carrellata in un mondo fatto di fondali, quinte piatte e sagome ritagliate è, invece, l’idea di Broersen&Lukacs, Olanda 2004, con Prime time paradise, in cui l’immagine rivela la sua natura più intrinseca: la bidimensionalità.

 

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La memoria delle immagini, il nostro paesaggio mentale, non distingue più tra la ricezione diretta dell’esperienza e quella proiettata e rimbalzata su uno schermo: la realtà sensibile comprende, allora, tra le sue manifestazioni la sua stessa raffigurazione in un più ricco quadro esperienziale. In Empire, Edouard Salier, Francia 2005, la più placida e ottimista America degli anni ’50, fatta villette e giardini in colori pastello, è attraversata da ombre inquietantemente attuali di carri armati, caccia e sommergibili, presenze invisibili in una realtà falsificante. Come in un nastro magnetico UNDO di Jean-Gabriel Périot, Francia 2005, riavvolge l’intera storia dell’umanità fino alla creazione risolvendo col più comune comando informatico - “annulla” - ogni errore compiuto. Ironico inno di comunione internazionale è The United Nation di Kevin Murphy, Svezia/USA 2005, che, sulle note di “We are the world”, riunisce tutte le nazioni europee sotto un’unica bandiera: l’avviso contenuto in tutti i DVD commerciali che ne vieta un uso pubblico.
 

Strepitosa, infine, l’operazione di manipolazione cinematografica estrema dell’ultimo lavoro dell’artista austriaco Peter Tscherkassky, Instruction for a light and sound machine, Austria 2005. In quest’opera la stessa materia filmica, la pellicola, viene violentemente sottoposta a trattamenti fisici e fotografici al fine di alterarne la consistenza visiva. Spinto ad un bianco e nero contrastatissimo, invertito, sovraesposto, rovinato, giuntato malamente, “Il buono, il brutto, il cattivo, il classico di Segio Leone, senza perdere la propria riconoscibilità iconica, diviene qualcosa di profondamente altro: un’operazione perfettamente condotta il cui fine non è, evidentemente, un risultato visivo stabilito, ma, piuttosto, il processo che lo ha generato.
 

 

Milano, 18:11:2005