La XV edizione di Invideo, Mostra internazionale di video e cinema oltre,
svoltasi presso lo spazio Oberdan di Milano, ha mostrato l’eterogeneo quadro
della più recente produzione video europea e statunitense (scarsissime le
presenze non occidentali).
Strumento linguistico peculiare, il video sguscia facilmente dalle briglie
delle categorie muovendosi tra generi e forme differenti: cinema,
performance, documento, poesia. In generale si possono riconoscere due tipi
di approccio.
Il primo, più frequente, deriva dalla volontà dell’autore di mettere in
forma uno sguardo personale, spesso altero, del reale. Il mezzo
(l’immagine), come il fine (la comunicazione), sono dati acquisiti su cui
non è necessario indugiare. L’obiettivo è noto, il problema è come
raggiungerlo.
Il secondo atteggiamento, invece, muovendosi in special modo nell’ambito
dell’editing avanzato, spinge la propria ricerca verso la stessa essenza
dell’oggetto video perdendo di vista i riferimenti al mondo sensibile per
sostituirli con un universo altro, compiuto in sé ed a sé referente.

border
Al primo caso sono riconducibili i diversi lavori dal carattere
spiccatamente documentario. L’avenir di
Claudio Zulian, Spagna 2005,
raccoglie le paure e le speranze della piccola comunità di Meurchin
incrociando le voci degli intervistati con il movimento inverso della
videocamera che lentamente rivela, insieme a luoghi e cose, lo stato emotivo
più intimo degli abitanti del piccolo centro, bacino minerario del Nord
Pas-de-Calais.
Il fastidio che provoca l’essere puntati dall’occhio di una videocamera è,
invece, il tema su cui gioca il lituano Dansas Evaldos in
Antropology of
Abuse, Lituania 2004.
Ancora ascrivibile all’ambito documentario è
Dialogues 99/II von Sacha
Waltz di Dirk Szuszies, Germania 2004, unica e improvvisata ripresa della
performance curata nel 1999 dal coreografo tedesco per i suggestivi spazi
del museo ebraico di Berlino.
Di video-diario si può parlare, invece, per
Border, Francia/UK, 2004,
intensa ed autentica testimonianza di Laura Waddington, regista londinese
già solita ad esperienze estreme, nascosta tra i profughi, iracheni e
afgani, del campo della croce rossa di Sangatte. Le immagini buie e sgranate
rubate dalla piccola videocamera digitale dell’autrice restituiscono
pienamente l’atroce condizione cui gli esuli sono condannati, disperatamente
appesi all’idea di una falsa terra promessa (l’Inghilterra), pronti a
rischiare la vita per un passaggio clandestino attraverso il tunnel della
Manica. La tensione creata dalle scadenti immagini del filmato ancora di più
comprova l’accresciuta sensibilità dello spettatore alla materia video, la
capacità di emozionarsi anche, o forse, soprattutto di fronte a documenti di
scarsa qualità visiva ma enorme potenzialità comunicativa. Un vocabolario di
immagini ricco ed elaborato è oramai patrimonio comune e diffuso e, con
esso, una vera e propria alfabetizzazione visiva.

instruction
Dal documentario - rilevazione filtrata della realtà - alla finzione -
ricostruzione ad arte del modello reale - diversi sono i lavori presenti
alla mostra che rientrano pienamente all’interno della forma cinematografica
classica. Chain, primo lungometraggio di
Jem Cohen, USA 2004, narra in parallelo le giornate di due ragazze
diversamente aliene alla società: la prima, dipendente di una grande impresa
cinese in missione negli Stati Uniti, vedrà svanire il proprio entusiasmo in
una terra straniera e silenziosamente ostile, la seconda riempie le proprie
giornate vagabondando nei centri commerciali nell’attesa che qualcosa
accorra permettendole di venir fuori da un presente senza futuro. Di analogo
carattere narrativo è il cortometraggio contro le discriminazioni razziali
Manmuswak di Patrick
Bernier e Olive Martin, Francia 2005, mentre in
4* poemas di Syl Betulius
e Lorenz Merz, Svizzera 2005, il racconto si tramuta in affresco attraverso
quattro schizzi poetici raffiguranti una Zurigo in dismissione.

lynn fox
Forme più trasversali di racconto sono quei lavori meno classificabili che
tentano di tradurre in un unico gesto video-sonoro un intento creativo:
intento di denuncia – è il caso di F di Ethem Özgüven, Turchia 2004,
e di Miserere di Antonello Matarazzo, Italia 2004: nel primo, attraverso il
secco suono dei tacchi ed il vigoroso movimento del corpo di una ballerina
di flamenco, si denunciano i maltrattamenti cui sono vittime le donne; nel
secondo è il tema della disabilità ad essere trattato senza patetismi ma con
sofferente poesia partenopea -, intento poetico – in
Passages di Vincent
Chabrillat, Francia 2004, l’alito primordiale della natura si accorda
felicemente con il suono del respiro umano in un ciclico movimento
ondulatorio della camera; in Closer to fall, di
Tim White-Sobieski, USA
2004, neve, pioggia e vento si dissolvono tra le suggestioni sonore di Brian
Eno mentre una figura femminile lascia che il latte che sta bevendo le si
versi addosso; in Hraun og mosi di
Steina Vasulka, USA 2005, è la stessa natura a generare composizioni
visive ed acustiche astratte - intento giocoso - funzionante nel caso di
Curl up and dye di Alisdair Irvine, UK
2004, in cui i parrucchieri britannici sono messi simpaticamente in vetrina;
meno riuscito, invece, in Marsa abu galawa di
Gerard Holthuis, Olanda
2004, banale abbuffata di colori marini e ritmi etnici.

miserere
Interessanti esiti linguistici sono, poi, quelli che vedono corpi, suoni e
movimenti di camera amalgamarsi in video-danza come nel caso di
Animal
regard di Benjamin Silvestre, Francia 2004, e
10 nights rehearsal note di
Ong Wing Lock, Hong Kong 2003. Meno certi, invece, gli approdi di
labili ricerche poetiche basate su un estremo minimalismo: come avviene in
Nur di Eléonore De Montesquiou, Germania 2004, loop posterizzato
di una donna velata che gioca tra le onde, e in
Chador di Sapideh Salehi, Italia 2005,
in cui il gesto del vestimento diviene espressione video.

chain
Di tutt’altra natura sono, invece, quelle realizzazioni video che muovono la
propria ricerca partendo dalla stessa sostanza ontologica dell’immagine: si
tratta di tutti quei lavori dal carattere spiccatamente grafico in grado di
ricreare una dimensione visiva non derivante dalla ripresa del reale. Tra
questi vanno sicuramente annoverati i video generati da software di
modellazione digitale tridimensionale che, tuttavia, anche se di alto
livello tecnico, non riescono ad andare oltre un’estetica strettamente
dipendente dalla propria matrice numerica ricadendo, così, in visioni ormai
prevedibili e difficilmente originali. Vanno comunque citati gli eccellenti
risultati di Arnaud Ganzerli e Laurent Bourdoiseau con
Electronic
performers, Francia 2003, di Vincent & Frank Dudouet e Adolfo Kaplan
con Hors chants, Francia 2004, e dei
Lynn Fox, gruppo di tre architetti
internazionali che, anziché spazi fisici, realizzano spazi immaginifici per
videoclip e spot pubblicitari.
Più interessanti, invece, quei lavori che partono da immagini già consumate,
“visioni già viste” per rinnovarle in nuovi spazi dello sguardo. L’immagine,
materia prima della produzione, è ricondotta ad immagine di sé stessa,
“fotocopia della fotocopia”, formulando, in tal modo, una nuova alternativa
visiva di quello che è stato il modello reale.
In The def song, Francia 2005,
Kactus Hunters ricuce, come in una tela
rammendata, “toppe-video” della più eterogenea provenienza, raffiguranti
bastimenti in partenza, aerei in ricognizione, carovane in cammino,
componendo un affresco di guerra fantastico e sorprendentemente nuovo. Una
lunga carrellata in un mondo fatto di fondali, quinte piatte e sagome
ritagliate è, invece, l’idea di Broersen&Lukacs, Olanda 2004, con
Prime
time paradise, in cui l’immagine rivela la sua natura più intrinseca: la bidimensionalità.

empire
La memoria delle immagini, il nostro paesaggio mentale, non distingue più
tra la ricezione diretta dell’esperienza e quella proiettata e rimbalzata su
uno schermo: la realtà sensibile comprende, allora, tra le sue
manifestazioni la sua stessa raffigurazione in un più ricco quadro
esperienziale. In Empire, Edouard Salier,
Francia 2005, la più placida e ottimista America degli anni ’50, fatta
villette e giardini in colori pastello, è attraversata da ombre
inquietantemente attuali di carri armati, caccia e sommergibili, presenze
invisibili in una realtà falsificante. Come in un nastro magnetico UNDO di
Jean-Gabriel Périot, Francia 2005, riavvolge l’intera storia
dell’umanità fino alla creazione risolvendo col più comune comando
informatico - “annulla” - ogni errore compiuto. Ironico inno di comunione
internazionale è The United Nation di
Kevin Murphy,
Svezia/USA 2005, che, sulle note di “We are the world”, riunisce tutte le
nazioni europee sotto un’unica bandiera: l’avviso contenuto in tutti i DVD
commerciali che ne vieta un uso pubblico.
Strepitosa, infine, l’operazione di manipolazione cinematografica estrema
dell’ultimo lavoro dell’artista austriaco Peter Tscherkassky,
Instruction
for a light and sound machine, Austria 2005. In quest’opera la stessa
materia filmica, la pellicola, viene violentemente sottoposta a trattamenti
fisici e fotografici al fine di alterarne la consistenza visiva. Spinto ad
un bianco e nero contrastatissimo, invertito, sovraesposto, rovinato,
giuntato malamente, “Il buono, il
brutto, il cattivo, il classico di Segio
Leone, senza perdere la propria riconoscibilità iconica, diviene qualcosa di
profondamente altro: un’operazione perfettamente condotta il cui fine non è,
evidentemente, un risultato visivo stabilito, ma, piuttosto, il processo che
lo ha generato.
Milano, 18:11:2005
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