di Riccardo FASSONE

GIORNO TRE, 11:04:2005
 

 

Ultranova

di Bouli Lanners

Il belga Bouli Lanners costruisce il proprio primo lungometraggio da regista intorno al silenzio. Un silenzio più interrogativo che significativo, frutto della totale impenetrabilità e anti-empaticità del protagonista, Dimitri, un agente immobiliare che fatica a stringere rapporti con chiunque e vive chiuso in un misterioso mutismo che sembra scaturire da un passato torbido. Il gelo che circonda e compenetra i personaggi di ULTRANOVA è perenne ed inarrestabile e il lavoro di Lanners sembra volersi concentrare sul collasso delle dinamiche sociali, rese dure e fragilissime dall’insoddisfazione, dall’insensibilità. Sulla carta il tema è interessante, ma avrebbe necessitato di una regia più rigorosa, di una ricerca più approfondita, di una schematizzazione meno rigida dei rapporti tra i personaggi. Così com’è ULTRANOVA pare un esperimento poco riuscito, un film che sembra non avere il coraggio di essere amaro e cinico fino in fondo e stempera continuamente l’evidente pessimismo che lo pervade con pennellate grottesche e una riflessione sulla predestinazione espressa nel finale ma pulsante lungo tutta la pellicola che lascia perplessi.

VOTO 22/30

 

Onde

di Francesco Fei

Unico italiano in concorso, Francesco Fei debutta alla regia di un lungo con un film che ha i propri pregi e difetti principali in un’autarchia pressochè totale. Alla supremazia della parola tipica del cinema italiano, Fei contrappone il primato dell’immagine; lo sguardo è dinamico, multiforme, mentre il dialogo è statico, intrappolato. In questo senso, la storia di Luca e Francesca è un racconto le cui immagini funzionano perfettamente, giustificate dalla loro stessa nitidezza geometrica e cromatica, indifferenti alla concatenazione narrativa, mentre le parole che i due si scambiano sembrano soffrire di una scrittura poco efficace, che sfiora più di una volta l’artificiosità. La riflessione sull’handicap, che rappresenta il fulcro delle vite lui, cieco, e lei, segnata da una voglia sul viso, è lucida e lontana dal patetismo (molto lontana, visto che trovare simpatica Francesca, una brava Anita Caprioli, riesce difficilissimo...) e la scelta, ancora una volta controcorrente, di un commento sonoro dissonante, materico, genuinamente rumoroso, è assolutamente vincente. Mancano una sceneggiatura più solida e dialoghi costruiti con più attenzione, il resto è un’ottima promessa.

VOTO 26/30

::: SPECIALE ONDE :::

 

The Soup, One Morning

di Takahashi Izumi

Film molto spigoloso quello del giapponese Takahasi Izumi, che si affida ad un’estetica più che minimalista per narrare le vicende di un giovane che entra a far parte di una setta para-new age e dell’evoluzione del suo rapporto con la compagna. Girato secondo stilemi che paiono voler suggerire una via giapponese al (defunto) Dogme, il film scorre lungo piani statici in cui la fissità della macchina da presa accentua intelligentemente l’orrore della routine e dell’incomunicabilità tra i due. Si diceva di un lavoro spigoloso e in effetti i dialoghi spezzati, l’assenza di una concatenazione solida tra i “quadri”, l’assoluta, inderogabile anti-spettacolarità della pellicola non sono scogli facili da oltrepassare. Eppure il film funziona, lavora su dinamiche reali e non pretende di analizzarle, le dipinge con una fotografia cruda, ambienti spartani, visi anonimi; un lavoro pulitissimo e urticante, supremamente disincantato, che piace proprio perchè non scende a patti con lo spettatore, mai.

VOTO 27/30

 

Andrè Valente

di Catarina Ruivo

Andrè è ha otto anni e vive alla periferia di una grande città del Portogallo con la madre, una donna coraggiosa ma disillusa, che dopo la fuga del marito ha perso la voglia di combattere. Il piccolo Leonardo Viveiros è bravissimo, ma non basta; il film, esordio assoluto della Ruivo, pecca di superficialità e si accontenta di un tratteggio sommario laddove un maggiore approfondimento della psicologia dei personaggi avrebbe giovato ad una storia semplice ma affascinante. Solo la figura di Andrè, intelligentissimo e caparbio, gode di un’analisi affettuosa e profonda. Il resto è didascalico; edificante, è vero, ma lontano dal restituire l’intensità delle emozioni dei personaggi. L’amicizia di Andrè con Nicolai, immigrato russo dal cuore d’oro è in bilico sul crinale che divide il reale dal favolistico e soffre dell’assenza di una sterzata che possa condurla in una direzione precisa, definendone i contorni e gli spazi. Il film è comunque gradevole, se non altro per la confezione più che sobria e, laddove una maggiore scaltrezza avrebbe condotto sui binari del patetismo, l’acerbità narrativa della Ruivo genera ad un’essenzialità forse non del tutto conscia, ma almeno onesta. 

VOTO 23/30

 

 

GIORNO DUE, 10:04:2005
 

Willenbrock

di Andreas Dresen

WILLENBROCK è un film che riflette sul venir meno del senso di sicurezza che si prova rispetto alle proprie cose e ai propri famigliari; ambientata nella parte orientale della Germania, la pellicola racconta di un uomo, Berndt Willenbrock, che assiste alla disgregazione delle proprie certezze nel volgere di una notte, quella in cui due malintenzionati irrompono in casa sua, costringendolo a cercare riparo con la moglie presso i vicini. Diretto con mano più che esperta da Andreas Dresen, regista che può vantare un’anzianità professionale nettamente superiore rispetto a quella di buona parte dei colleghi in concorso, il film è una riflessione trasversale, che analizza rapporti famigliari, rapporti sociali, affetti, come a voler sondare nella sua interezza la sfera relazionale del “tedesco medio” Willenbrock, ottimamente interpretato dal veterano Axel Prahl. E’ in effetti la prova più che convincente dell’attore protagonista a sollevare le sorti di una pellicola scritta e girata piuttosto bene, ma affossata da una tendenza deleteria alla multidirezionalità, un’ipertrofia dello sguardo che penalizza il grado di approfondimento con cui vengono trattate le vicende dei personaggi secondari e, cosa più grave, rende del tutto implausibile la redenzione (perchè, in effetti, di questo tratta il film) del protagonista.
voto 23/30

Evergreen

di Enid Zentelis
Già in concorso a Sundance, l’esordio alla regia di un lungometraggio della statunitense Enid Zentelis ha nella propria aderenza incondizionata e a tratti forzosa all’estetica del cinema indipendente americano il proprio maggior difetto. Storia di una ragazza che vive con madre e nonna sull’orlo della povertà in un’America brutta e squallidamente provinciale, il film si concentra sul divario stridente tra le difficili condizioni di vita della giovane Henri e quelle dell’agiato all-american guy Chat, bello e ricchissimo, innamorato della protagonista. La Zentelis si concentra sull’esplorazione delle dinamiche di attrazione/repulsione che Henri sperimenta rispetto alla famiglia di chat, costruendo così una messa in scena grossolana, priva di qualsiasi sottigliezza, nella quale i “poveri” sono generosi e i “ricchi” hanno gli armadi traboccanti di scheletri di vario tipo e conducono una vita tutto make up e arredi trash. Il che è sinceramente troppo poco anche per un’esordiente la cui fascinazione per il look di certo cinema “scomodo” (in che misura lo sia, poi, è tutto da vedere) ha generato un’opera che è una giustapposizione di stereotipi sull’America contemporanea. Una sorta di Dawson’s Creek in betacam.
VOTO 15/30

Chased by Dreams

di Buddhadev Dasgupta
Il nuovo lavoro del regista/scrittore/poeta indiano Buddhadev Dasgupta si pone, secondo l’autore stesso, come “una riflessione sul labirinto della vita”, su quell’intrecciarsi di volontà e casualità che è alla base dello scorrere dell’esistenza. Partendo dal ritratto di due strambi proiezionisti che girano l’India per mostrare video educativi agli abitanti dei villaggi rurali, il film scorre entro diversi tracciati, narrando storie diverse su piani di realtà diversi (il presente, il passato, il sogno, il confine), stimolando aree distanti tra loro nella sfera percettiva dello spettatore. Nonostante l’evidente tendenza all’espressione poetica, il regista non insegue mai l’astrazione, concentrandosi piuttosto sull’interazione tra immagine e suono, volti e dialoghi, alla ricerca di canali di espressione il più possibile ampi. Film molto bello da vedere, estremamente raffinato nel tentativo di evitare qualsiasi indulgenza poetica, intelligente nella volontà di mitigare le velleità metaforiche e simboliche della storia con un’ironia vagamente surreale. Cinema dell’inconcluso, del suggerito; soprattutto cinema di gran qualità, condotto con sensibilità rara.
VOTO 28/30

Tarfaya

di Daoud Aoulad-Syad
Figlio della recente ondata di coproduzioni franco/marocchine, TARFAYA, è la storia di Miriam, giovane marocchina, che vorrebbe fuggire dal proprio paese per sbarcare in Spagna, una terra promessa al di là di pochi chilometri di mare. Film sull’immigrazione, dunque, ma anche, prendendo le distanze dalla mera oggettività, film sul moltiplicarsi della distanza tra luoghi effettivamente vicini, sulla volontà di fuggire e sull’impossibilità di farlo. Film che risente di una pochezza di mezzi piuttosto evidente e, ed è più grave, di una sceneggiatura che affastella situazioni senza continuità, e pare costruita unicamente intorno alla bella (anche troppo, visto che appare sempre e comunque pettinatissma e truccatisima) Touria Alaoui, la cui interpretazione è leggermente sopra le righe. Le rovine dell’antico villaggio di Tarfaya e il mare azzurrissimo aiutano il film, che visivamente è affascinante, limpido; al di là della naturale fascinazione per i luoghi, tanto vicini sulle mappe quanto remoti culturalmente, di TARFAYA comunque resta poco e l’efficacia drammatica della pellicola è limitata ad una manciata di sequenze
VOTO 21/30
 

 

GIORNO UNO, 09:04:2005
 

The Living and The Dead

di Kari Paljakka
Rigorosissima analisi dell’esperienza del lutto e delle conseguenze psicologiche e sociali ad esso associate, THE LIVING AND THE DEAD, del finlandese Kari Paljakka, è un film che rifugge gli psicologismi d’accatto e sceglie di contemplare l’evolversi del sentimento di accettazione della tragedia. La storia (a quanto pare vera) è quella di una famiglia che perde in un drammatico incidente il figlio minore; i tre superstiti, seguiti da una regia esperta e assolutamente anti-patetica, compiono la propria discesa nell’inferno dell’assenza e ne escono seguendo strade del tutto diverse tra loro. Il dolore arriva a ondate, seguendo cicli di durata imprevedibile e le onde che lo trasportano colpiscono progressivamente i membri della famiglia, lasciandoli impotenti di fronte all’inevitabilità dell’assenza. Alla fine del tunnel, la comunità, che sembra respingere chi è colpito dal lutto, quasi si trattasse di uno sgradevole promemoria della propria finitezza. Film programmaticamente poco “cinematografico” (sebbene certi estetismi, soprattutto cromatici, giochino il proprio ruolo nella narrazione) e intensamente umano, asciuttissimo e per questo ancora più stordente nella propria lampante realisticità.
voto 26/30

Ice Men

di Thom Best
Un gruppo di amici di lunga data si dà appuntamento in una baita di montagna per trascorrere un weekend in ricordo dei vecchi tempi, ma presto le incomprensioni e i segreti tenuti celati per anni cominceranno a ribollire, increspando la superficie apparentemente tranquilla dei loro rapporti. Esordio alla regia del canadese Thom Best, ICE MEN pone le proprie fondamenta sul contrasto chiuso/aperto; alla decadente accoglienza della baita di famiglia, si contrappone l’asperità dei boschi innevati che la circondano; l’apparente solidità del legame tra gli amici si scontra con il peso degli inquietanti segreti di ognuno di loro. Le tematiche classiche del dramma contemporaneo ci sono tutte, così come i luoghi comuni che generalmente popolano opere di questo tipo. I personaggi sono appiattiti su stereotipi logori, i dialoghi mettono in luce un intento iper-realista che fa sorridere, l’intreccio di relazioni è banale. Dal drogato di lavoro che vive all’ombra del padre ultra-macho, al maniaco del fisico che si scopre gay, tutti i più abusati “tipi” del cinema americano fanno bella mostra di sé in un film onestamente insalvabile. Se si aggiunge un pizzico di moralismo della peggior specie (quello mascherato da distaccata tolleranza), il quadro appare davvero deprimente.
voto 15/30