5nto HUMAN RIGHTS NIGHT

INTERNATIONAL FILM FESTIVAL
07/15:04:2005

BOLOGNA

 

LE RECENSIONI

di Luciana APICELLA

Saturday, April 9

22.30 Auguste Lumière
WEAPONS OF MASS DECEPTION by Danny Schechter (USA/2004) (98')
After the film, debate with director Danny Schechter
 

Gli epigoni di mister Michael Moore si moltiplicano, con risultati più o meno apprezzabili, più o meno efficaci. Il modello è sempre lì, sempre presente, idolatrato o respinto. Danny Schechter, anche fisicamente ci rimanda a Moore: corpulento e trasandato, t-shirt e cappellino da baseball di ordinanza, ma gli mancano forse la spietatezza e l’ironia che soprattutto di Bowling a Colombine hanno fatto un cult. Weapons of Mass Deception è un lungo documentario girato in puro stile Moore: montaggio rapidissimo, soluzioni grafiche da videoclip, accostamenti stridenti di immagini, affastellarsi di voci- il magma dell’informazione che ci bombarda, di una guerra che entra nelle nostre living rooms suscitando quell’indignazione che come osservava il bravo Marco Paolini qualche sera fa in un’intervista televisiva “dura il tempo di un orgasmo, e poi come ben sapete ci viene sonno”. Da outsider dell’informazione (è Executive Editor di Mediachannel.org, il maggior network mondiale di controinformazione) a Schechter preme denunciare l’operazione di filtraggio compiuta dai media americani sulla guerra irachena, "Operation Iraq Liberation" o meglio "Operation Iraq Freedom", perché l’acronimo denuncerebbe nel primo caso, amara ironia, una verità ormai palesata. In due ore che non sempre scorrono via lisce (a tratti l’attenzione viene meno, la carne al fuoco è tanta e il racconto un po’ pesante) dietro ai volti e alle immagini patinate dei maggiori network, Fox Nbc Cnn, dietro le immagini digitali l’odore di una guerra sporca, fatta di sangue polvere scarsità di cibo bambini mutilati dalle cluster bombs case polverizzate da bombe “intelligenti”. Dietro agli allarmati proclami del governo Bush sulla necessità della guerra “preventiva” le striscianti strategie comunicative pilotate dal Pentagono, una propaganda studiata a tavolino assieme ad esperti di comunicazione e consulenti d’immagine degli Studios holliwoodiani. Il regista si scaglia contro il giornalismo “embedded”, contro l’informazione pilotata da interessi politici ed economici, contro i distorcimenti della realtà, se è vero che prima vittima di ogni guerra è la verità. E lo fa ripetiamo senza la leggerezza di quei magnifici inserti di animazione di Bowling a Colombine: là avevamo imparato come instillare un sentimento ancestrale e insopprimibile come la paura - la paura dell’invasione la paura delle bombe dell’antrace dei kamikaze- fosse stata l’arma vincente di Bush e dei suoi falchi: sufficiente a giustificare la mattanza in nome dell’interesse supremo della Patria. Il film di Schechter ha forse intenti meno divulgativi, comunque minor impatto emotivo, minor capacità di coinvolgimento. Comunque ben venga la denuncia, se può servire a risvegliare una coscienza critica, una capacità di discernimento, un sussulto di indignazione. Se servisse anche a pensare che il gesto più rivoluzionario sarebbe quello di spegnere ogni tanto la tv - poiché è forse questo il potere più grande che abbiamo - il gioco sarebbe fatto..


VOTO 26/30
 

 

 

 

 

 

Monday, April 11

10.30 Auguste Lumière
Screening for Schools
PRIVATE by Saverio Costanzo (Italy/2004) (90')
In collaboration with Amici dei Popoli

 

Finalmente un film italiano bello. Bello, coraggioso, commovente. Finalmente un film italiano lontano anni luce dalla faciloneria degli intimismi mucciniani, delle crisi da trentenni-eterni-peter pan, dai film “paraculi” (definizione splendida!) alla manuale d’amore. Finalmente un film italiano che però non sembra girato da un italiano, con un digitale sporco e un’immagine costantemente mossa, sgranata, a dare una sensazione di maggior realismo a una vicenda paradossale e reale, fatta di violenza e dignità difesa fino all’estremo. Il giovane Costanzo jr si era prestato fino ad ora, come apprendiamo leggendo alcune note biografiche, al documentario. Il suo primo lungometraggio premiato col Pardo d’Oro al Festival di Locarno ne mostra la maturità di cineasta sapiente e consumato. La vicenda si svolge interamente all’interno di una casa, isolata all’esterno, circondata solo da un terreno brullo, nella zona dei territori occupati palestinesi (la fotografia è interamente giocata su tinte spente, aride, e molte delle azioni sono riprese in notturna). Mohammed è un docente di letteratura, convinto della necessità di opporre una resistenza non armata, fatta soltanto della strenua difesa della propria dignità di uomo e padre, alle possibili rappresaglie dell’esercito israeliano. La moglie è spaventata, teme per l’incolumità dei figli e vorrebbe fuggire, abbandonare la casa. Un gesto che per Mohammed rappresenterebbe la sconfitta (“Se fuggiamo ora saremo costretti a fuggire per sempre”), che equivarrebbe a lasciare ai propri figli un’eredità fatta di viltà e rassegnazione. Così, quando una notte un gruppo di soldati israeliani irrompe nell’abitazione e la dichiara di proprietà dell’esercito israeliano Mohammed non si piega alle intimidaziono: i soldati occuperanno il primo piano della casa, mentre loro potranno restare al piano terra e continuare a svolgere la loro quotidiana esistenza, col divieto assoluto di salire le scale che separano quei due mondi. Così il paradosso diventa quotidianità. Di sopra i soldati pianificano le loro strategie, fanno sentinelle, sparano all’esterno, di sotto si continua a vivere, a cucinare, a fare i compiti come inflessibilmente e a tratti incomprensibilmente si ostina a volere il capo famiglia imponendo di forza la sua autorità e le sue decisioni. La vita deve proseguire, questa è l’unica arma che egli ha a disposizione. Due dei suoi figli più grandi non condividono questo atteggiamento che vivono come un piegare il capo alla prepotenza: vorrebbero resistere con altre armi che non quelle della paterna cocciutaggine, anche a costo di mettere a repentaglio la vita dei loro stessi cari. Anche al piano superiore convivono anime diverse, tra i privates (il titolo è volutamente ambiguo, riferendosi il termine inglese sia al concetto di intimità che a quello di “soldato semplice”) dell’esercito. C’è il capetto arrogante e spietato, che conosce solo la forza del fuoco del suo mitra e non può comprendere la scelta di Mohammed (“Perché non lasci la casa?” gli chiede, e Mohammed ”Perché non la lasci tu, questa è casa mia”), c’è il soldato capace di un gesto di umanità, quello che suona il flauto e vive la noia delle lunghe ore di appostamenti. E la figlia di Mohammed che contravvenendo al divieto sale le scale per nascondersi in un armadio e spiare le mosse dei soldati torna al piano terra ogni giorno con la consapevolezza di avere a che fare con ragazzi, niente di più niente di meno, ragazzi della sua età che parlano una lingua differente dalla sua, separati da secoli di odio ma così vicini, fatti di debolezze, di arroganze e virtù, come tutti. E racconta ogni giorno al fratellino piccolo aneddoti divertenti sui soldati, insegnandogli forse suo malgrado, lei così convinta della necessità della lotta, lei che potrebbe morire per il suo popolo, la tolleranza. Il finale è volutamente e terribilmente sospeso, e lì si gioca il senso di ogni scelta compiuta, lì il senso di una guerra che pare inestirpabile, infinita, ma che in fondo da uomini è fatta, e che da uomini potrebbe essere fermata.
Una cosa che ci fa piacere sottolineare: la proiezione di Private era per le scuole, era presente una classe soltanto (non vogliamo sapere per quali scelte didattiche, forse ancora si ritiene sia meglio far imparare un’ode del Carducci piuttosto che insegnare a gettare uno sguardo sul mondo che ci circonda), una quinta liceo forse: prima della proiezione l’immancabile trillare di cellulari le risatine soffocate e i racconti delle sbronze della sera precedente. Per tutto il corso della proiezione, non un fiato. Qualcosa vorrà dire.

VOTO 30/30