«¿Dónde
está Wally?»
«Me n’andavo a braccetto d’un bell’argomento»: con Bene/Laforgue godevo
dell’essere al Genova Film Festival – e per campanilismo [nonostante
l’ossimorico odi et amo che La Superba mi suscita] e per attuffarmi in Arte
altra dopo anni di Poesia e Letteratura.
Suppongo, giacché ogni pensiero è una supposizione soggettiva, Kinematrix si
aspettasse dal mio dattiloscritto un resoconto più «canonico»: valutazione
dei filmati; interviste ai registi; pregi e difetti; resoconti delle
premiazioni; dissertazioni critiche circa l’evolversi della Settima Arte; et
cetera…
E le aspettative, ça va sans dire, nel migliore dei casi – sono disattese.
Premesso l’inchino per l’organizzazione e onorando il lavoro e l’impegno di
tutte le Anime e gli Artisti che sostengono/sostanziano/supportano il
Festival, quel che pulsa per essere condiviso è l’Umanità: alla risonanza
preferisco la consonanza.
Consonanza e corrispondenza concertate dai commenti a fine rappresentazioni
– e che presenziassi a un FILM festival era indifferente perché sarei potuta
benissimo essere a un festival di POESIA: «crisi» è il refrain che arriccia
le labbra di tutti. Docciando le trachee di birra con Ildo Brizzi e
Francesco Gasparri [rispettivamente: regista e protagonista] dopo la
proiezione di Finesterre – esauriti i paralleli tra industria
cinematografica e produzione editoriale, passando per il rapporto tra Heavy
Metal e sacerdozio [esiste un collegamento con la trama di Finisterre, ve lo
giuro!, mano destra sul Black Album], sgraniamo l’unica soluzione possibile
per una sinestetica produzione artistica praticabile: unirsi.
Chi scrive non ha la più diafana idea di «quante camere» abbia usato questo
o quel regista, ma sa perfettamente quando una sceneggiatura non regge o
quando il fonico è stato colto da sordità temporanea o quando un attore è
stato prelevato dalla strada con «velleità pasoliniane» senza successo…
Tuttavia: perché stroncare? Perché ribollire d’orrore per il negativo o per
il dilettantesco – quando sarebbe [ed è!] costruttivo luminare l’eccellenza
e la costanza di chi crede nonostante?
E il discorso, nell’eterno ritorno, si ripete confrontandosi con Sieva
Diamantakos [regista di Dimenticandosi di noi]: finanziamenti che non
esistono per le realtà minori; attori che non possono essere pagati; amici
che s’improvvisano attori; livelli e livellamenti; … Tutto santo e
sacrosanto, ma esiste un valore nell’ostinazione come nella determinazione e
nessuno potrà mai impedire la «distruzione dei mulini» a chi DAVVERO è
l’Arte che incarna [solo, Vi prego, Artisti d’ogni Arte: potreste, almeno
una volta ogni lustro, evitare di gloglottare che
filmate/scrivete/suonate/recitate/dipingete… Perché «avete qualcosa da
dire»? Anche il panettiere o l’idraulico hanno «qualcosa da dire», ma
ribadire l’ovvio non lo trovo un atto rivoluzionario].
Tornando a Genova, al mugugno preferisco l’impegno – trattando di cinema e
di politica. E ACAB di Sollima è opera cruda e necessaria; è l’urgenza di
testimoniare per restaurarci migliori; è il romanzo di Carlo Bonini; è il
popolo dei limoni di Lello Voce e Giacomo Verde; è il marchio che non riesco
[non ancora] a convertire in parole. È politica. E cosa intendiamo per
politica? Per film politico? Πολιτικός sottintende Τέχνη e quale Arte è
attinente alla Res Pubblica, alla Πόλις, quando NON vedo uno Stato, quando
NON vedo una città? Genova è sempre la stessa Genova scenario [anche] di
feroci lotte intestine e dissidi continui tra Genoani e Sampdoriani,
Albarini e Portuali, Ponente e Levante…
Per questo non capii le rimostranze mosse a Medianeras di Gustavo Taretto
giacché come evidenziò il produttore, Luis Miñarro, l’ambientazione è Buenos
Aires, ma non è solo Buenos Aires, quanto più: ogni città [ogni Πόλις, ab
imis].
Generalmente evito i film sottotitolati perché l’ambliopia monolaterale mi
scatena feroci emicranie [e, tra parentesi, peroro la causa della minoranza
che non può visionare in 3d affinché ci permettessero, in futuro, poter
recarci al cinema], ma Medianeras è stata duplice gioia come spettatore e
come autore: molte delle frasi proiettate SOTTO lo schermo erano e sono –
aforismi puri. Avvampa così il «rogo della parola»: per Miñarro, ad esempio,
il cinema è troppo parlato e desidera un ritorno alle origini, ai Fratelli
Lumière e al trionfo dell’immagine. Lo scatto sinaptico è immediato e non
solo per il successo planetario di The Artist, ma per il riproporsi di quel
che Norma Desmond immortalò [grazie all’insuperata maestria espressiva di
Gloria Swanson], devastata dal sonoro, abituata a comunicare solo con lo
sguardo e con il vocabolario fisico proprio dell’attore: «io sono sempre
grande, è il cinema che è diventato piccolo!».
Personalmente non credo alla parola come morbo del cinema, credo manchi la
parola adatta al cinema, l’equipollenza del visivo e del verbale: e quante
pellicole eccellono per fotografia, ma difettano di copione altrettanto
degno?
E ancora: esiste un altro linguaggio, il lessico del richiamo interno, la
traccia nascosta che sottende suggestioni altre. Per questo, nel mutuo
traffico di commenti al termine di Medianeras, non sopportai sentir
cianciare di banalità della trama; interpreti inadeguati; leggerezza dei
contenuti; … Non lo sopportai e non lo sopporto perché quando i cinefili si
atteggiano da tuttologi annoiati – mi ricordano quei critici poetici
infarciti di spocchia che criticano tutto e poi attribuiscono Ode alla vita
a Neruda e non a Martha Medeiros. Pertanto, non vi racconterò la trama
[Internet esiste anche per questo], ma m’addentrerò nello specifico [e prego
chiunque non intenda ottenere anticipazioni evitare continuare la lettura],
luminando quella «poetica delle piccole cose» che rendono Medianeras non
solo un film politico, innestato sull’alienazione sociale comparata
all’architettura, ma anche un film dove il dettaglio, quel dettaglio mai
strillato, è la cifra di un labor limae che moltiplica contenuto e
suggestioni:
- Dopo aver
detto che gli appartamenti a Buenos Aires procedono in ordine alfabetico
[semplificando: A=Attico e, di lettera in lettera, si squalifica il valore
dell’immobile], Mariana, la protagonista abita al piano G e il protagonista
al piano H. Benché due condominii differenti ma dirimpettai, il messaggio è
palese
- In principio
fu la Disney: i Walt Disney Studios, nel 2007, furono i primi a promettere
di eliminare dalle future pellicole per famiglia ogni scena che prevedesse
fumatori tra i protagonisti; una vittoria per i Ministeri della Salute. In
Medianeras, evitando qualsivoglia propensione o avversione come qualunque
giudizio etico, la sigaretta assume il carattere di personaggio/stampella:
Mariana fuma dall’inizio alla fine del film e, pur odiando gli ascensori a
causa della claustrofobia che l’affligge, macina scalinate per raggiungere
la cima di un grattacielo a differenza del suo accompagnatore [occasionale,
sportivo e dottore dell’Anima] che si arrende al martinetto moderno; il
medico di Martin fuma durante la visita; la ragazza incontrata da Martin
tramite internet fuma e perfino Martin che non fuma [tabacco, ma cannabis]
sfoggia una T-shirt con il frame di una bocca che aspira avidamente una
bionda. Tralasciando il tabagismo che mi donò una scimmia schiumante sulla
spalla durante la proiezione, apprezzai particolarmente quel filo di fumo
che è filo rosso intessuto di realtà: nel recente Rock of Ages, ad esempio,
l’alcol annaffia le trachee di tutti [non solo dei Rocker], ma risulta
inverosimile l’assenza pressoché totale di fumatori.
- Architetta riciclatasi
vetrinista, Mariana vive nella «campana di vetro» di montaliana memoria e il
suo portachiavi raffigura una donna intrappolata in un blocco trasparente;
Martin, in parallelo, dovrà evolvere prima di liberare dalla custodia di
plastica l’action figure di Astro Boy
- Simbolo dei loro incontri
mancati ma delle sintonie mentali, nell’apparente orizzonte dei non-eventi,
Martin acquista una sedia girevole recapitatagli a domicilio e Mariana
recupera una sedia girevole abbandonata vicino ai bidoni della spazzatura
- Il «fattore sliding doors»
dell’incrociarsi senza ancora conoscersi e senza ancora riconoscersi,
rispetto ad altre pellicole, è evidenziato da interventi grafici per amor di
pixel
- Martin, webmaster, crea il
primo sito per il suo psicologo e il primo game che elabora è per gli
insonni – con chiara citazione nerd: le pillole sostituiscono i mattoni, ma
è la versione ansiolitica di Arkanoid/Breakout
- Manifesto il tributo all’Opera
di Woody Allen, ma anche all’immancabile saga di George Lucas e a Tim Burton
– facilmente riconoscibili per chi frequenta informatici, role player,
appassionati, …
- Due luci rettangolari a parete
in casa di Mariana presentano i simboli, che il Compact Cassette della
Philip rese universali, di stop/pause/play – per semplificare [e nel
contempo: rendere meccaniche e automatiche] le dinamiche che imponiamo al
nostro esistere
- La dog-sitter [riassunta nel
gioco di parole, difficilmente traducibile in italiano, di
porta-cane/porta-canne] prima di iniziare una breve relazione con Martin gli
domanda se sia gay e, durante una serata con il sociopatico webmaster, mente
via sms – negandosi a qualcuno che nel display del cellulare è annotato in
rubrica col nome di Mariana
- Mariana e Martin non si baciano
mai sulle labbra e il film termina dove altri principiano
- …
Allacciandomi all’operato di
Scena Madre e al loro intervistare gli spettatori del Genova Film
Festival, all’uscita dalle sale, circa quale fosse – appunto – «la scena
madre» delle riprese appena visionate – di Medianeras mi colpì una Frase
Madre [che cito a memoria e, quindi, sarà inesatta giacché cercai
trascriverla al buio]: «Internet ci permette di schiacciare un pulsante per
accendere il riscaldamento di casa dall’ufficio, sapendo che nessuno ci
aspetta e nessuno ci rende calda la casa».
Di citazione inesatta a citazione esatta che introduce il catalogo del
15esimo Genova Film Festival: «è la storia di una società che precipita e
che, mentre sta precipitando, si ripete per farsi coraggio: fino a qui tutto
bene, fino a qui tutto bene. Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio».
Il contatto e l’impatto con la materia umana [mai troppo umana] sono stati,
in corrente continua ed alternata, Big Crash e Big Bang di questo Festival,
in corrente continua ed alternata: solitudini ed eremitaggi; incubi e
succubi; dilemmi d’etica/d’estetica/d’esistenza; eutanasia e fedeltà alla
vita; stragi e vittorie; frazioni e riunioni; …
E sono queste proiezioni che ci proiettano, futurando Truffaut:
«L’avvenire è dei curiosi di professione» |