FRANCE CINéMA

 

01/07:11:2004

FIRENZE

di Marco FERRARA


Brodeuses

di Éléonore Faucher
 

5.4 X 4


Grand Prix de la Semaine a Cannes è, questo, il primo lungometraggio di Éléonore Faucher. La giovane regista, nativa di Nantes, ha studiato presso una delle più importanti scuole di cinema di Parigi – l’École Nationale Supérieure Louis Lumière (ENSLL) – secondo un percorso formativo oramai quasi obbligatorio per chiunque voglia intraprendere la professione registica.
 

C’è da chiedersi se in queste scuole vengono ricordate le dimensioni dello schermo cinematografico. Non è un fattore secondario. Le dimensioni dello schermo standard sono 5.40m x 4m. Poi ci sono quelli panoramici. Questo vuol dire che un primissimo piano, diciamo dal mento alla fronte, di una graziosa fanciulla viene a misurare almeno venti volte la dimensione reale (15-20 cm). Se questo semplice dato fosse ricordato agli studenti, forse, cambierebbe la loro percezione del cinema e con essa il loro approccio al racconto cinematografico.


La giovane Faucher ha voluto raccontare le sensazioni che un anno prima aveva provato durante l’attesa del suo primo bambino. A raffigurarla sullo schermo, sotto il nome di Claire, è Lola Naymark.


Claire è incinta, con un lavoro precario, senza un compagno e senza aiuto da parte dei genitori. La passione per il ricamo la porta ad incontrare Madame Malikian, brodeuse - appunto: ricamatrice, interpretata da Ariane Ascaride - di grande esperienza, il cui unico figlio è da poco morto in un incidente stradale. Il plot è prevedibile: le due sfortunate si aiutano reciprocamente riuscendo, tra una cucitura e un’imbastitura, a superare i propri fantasmi.


Il film è ben scritto, ben girato, ben interpretato, ben fotografato, ben montato. Un prodotto senza pecca. Gli insegnamenti alla Louis Lumière hanno dato buoni frutti. I soliti buoni frutti. Purtroppo.


I film dei registi provenienti dalle scuole di cinema sono generalmente riconoscibili da alcune costanti:
- il soggetto è molto personale, spesso autobiografico
- si tratta generalmente di film d’atmosfera, in cui i silenzi e gli sguardi sostituiscono i dialoghi
- prevalgono i dialoghi a due a scapito delle scene corali, pressoché assenti
- la recitazione è unicamente facciale, bisbigliata, monosillabica
- le inquadrature sono tutte estremamente studiate, spesso ricercatamente poetiche


Il che va tutto bene a patto che ci si chiami Ingmar Bergman. Diversamente, ciò che ne risulta sono film compilati, soggetti prestampati in cui bisogna solo barrare la casella dell’opzione desiderata. Mancano le smagliature, les déchirements, gli errori in cui sia possibile percepire le paure autentiche che ogni regista ha di fronte alla follia del suo lavoro.


Si è ormai consolidata l’idea che il regista è “uno che racconta storie”. E nient’altro. Non viene ricordato, invece, che il regista può anche essere semplicemente “uno che vuole fare dei film”. E fare film significa fare un lavoro singolare - se non assurdo - lanciare un treno a tutta velocità che non può fermarsi anche se rischia di deragliare. Il soggetto può essere solo un pretesto per mobilitare decine di persone (attori, tecnici, produttori, banche) attorno ad un progetto che ha sempre qualcosa di folle in quanto “non necessario” (la magnifica condizione di inutilità propria di ogni arte).


Il cinema è nato come un fenomeno da circo, uno spettacolo affascinante, una scatola magica. E ancora lo è. Un motivo per fare un film può essere quello di voler vedere ingrandito di venti volte il volto innamorato di Lola Naymark. Sarebbe sufficiente a ripagare il biglietto dello spettacolo.


La Faucher lo fa e ci regala due momenti d’amore di grande intensità (tra Claire e Guillaume: in automobile, prima, in campagna, dopo). Ma c’è da interrogarsi sulla piena consapevolezza della regista.


La proiezione è stata preceduta dalle rituali chiacchiere tra Aldo Tassone (direttore artistico del Festival), il distributore italiano (la Bim), la Gan (società assicuratrice che ha sostenuto il progetto), e la regista, che aveva una pancia enorme. Il suo secondo figlio nascerà il 13 gennaio.


France Cinema si svolge prevalentemente al Cinema della Compagnia di via Cavour. L’uscita posteriore della sala dà su via Ricasoli, lungo la quale, al n° 60, si trova la Galleria dell’Accademia. All’interno è esposto il David di Michelangelo (altezza: 5.17 m). All’ingresso dell’Accademia vi sono un sacco di bancarelle in cui una riproduzione del David (altezza: 10-30 cm) costa meno del biglietto d’ingresso alla Galleria.


Ma la gente continua a fare la fila per entrare nel museo.
 

 

Le cou de la girafe

di Safy Nebbou


Ottimo lungometraggio d’esordio per Safy Nebbou, attore, regista teatrale e, dal 1997, anche autore di cortometraggi. Classe 1968, basco (nato a Bayonne, sui Pirenei atlantici), padre berbero d’Algeria e madre di origini tedesche, Nebbou lega l’interesse per i grandi temi della comunicazione interpersonale alle sue origini mediterranee. In termini di messa in scena ciò significa grande passione per la direzione degli attori.
 

La vicenda inizia prima che la lampada del proiettore si accenda: il gioco, apparentemente insensato, della piccola protagonista in automobile è un nodo di un intreccio già delineato, addirittura quasi terminato. La descrizione dell’antefatto è solo una questione funzionale e, può, tranquillamente essere messa in secondo piano.


Subito, invece, deve partire il gioco dei sentimenti. Subito ci si trova a rincorrere la piccola Louisa Pili. E con lei, i suoi occhi. La sua interpretazione di Mathilde è perfetta, né troppo marcata nella sua misteriosa alienazione, né blanda e stereotipata nell’ormai consunto ruolo di bambina sveglia a cui nulla si può nascondere. Madre di Mathilde è Hélène, una Sandrine Bonnaire capace di acquistare simpatia lungo lo sviluppo della narrazione. Claude Rich offre, infine, un’accortissima interpretazione di Paul, padre di Hélène e nonno di Mathilde: un ruolo non facile – si scoprirà presto la natura vendicativa del personaggio - espressamente disegnato per lui dal regista (anche sceneggiatore insieme a Agnès Yobregat e Danièle Thompson). Tutti e tre i personaggi principali sono diretti con mano esperta per restituire alla storia un perfetto equilibrio tra fiaba e immedesimazione, tra astrazione e comunicazione. Per contorno: patatine fritte croccanti. Ovvero un Darry Cowl comicissimo a capo di un manipolo di vecchietti, eroi in ospizio.


La storia si sviluppa attorno ad un viaggio, quello di Mathilde alla ricerca della propria nonna, la madre di Hélène, mai conosciuta perché rinnegata dal nonno. Un tema classico - quello del viaggio appunto – trattato con grande delicatezza e senza mai annoiare. I luoghi, i luoghi fisici (non tanto i panorami quanto la stazione, la casa di cura… meglio: quella stazione, quella casa di cura, quella spiaggia, quell’albergo, quella piazzetta) rendono lieve, comodissimo il trapasso da spettatore a fantasma nel solito rito della rappresentazione. Rito che si svolge al buio e, di norma, dura un’ora e mezza. A volte un’ora e tre quarti, o più.


La strada intrapresa dall’esordiente Nebbou è, evidentemente, la prosecuzione di una ricerca iniziata parecchi anni fa sulla recitazione, sull’economia dei sentimenti, sul modo di comunicarli con leggerezza, evitando ogni pathos.
 


Pas sur la bouche!

di Alain Resnais


Operetta in tre atti di André Barde (libretto) e di Maurice Yvain (musiche), Pas sur la bouche! debutta al Théâtre de Nouveautés di Parigi nel febbraio 1925. Il successo è tale da far registrare il tutto esaurito per quasi due stagioni. Sono gli anni di Duchamp, di Dalì e di Picasso: la nuova generazione di artisti è permeata dalla voglia di rompere con la tradizione moralista dei primi lustri del novecento, già sepolti dalle macerie della grande guerra. Così, l’«operetta» diviene «commedia musicale», dal valzer si passa al ragtime e al foxtrot, l’insolenza beffarda prende il posto del patriottismo borghese.


Alain Resnais non cambia una parola del testo originale (gli unici interventi sono la soppressione di quattro canzoni e la riduzione di altre) e rimette in scena il vaudeville parigino senza la minima pretesa di giustificarlo nel contemporaneo.
Un po’ come Rohmer, ne La nobildonna e il duca, utilizza il diario di una nobile inglese come pretesto per una sperimentazione sul digitale.
Un po’ come de Oliveira, in Un film parlato, mette su pellicola la storia del Mediterraneo in forma di lettura didattica senza preoccuparsi di costruire attorno una trama.


Resnais è nato nel 1922, Rohmer nel 1920, de Oliveira nel 1908. Le più interessanti sperimentazioni cinematografiche degli ultimi anni provengono da autori che hanno, già da un po’, superato gli ottant’anni. Se poco c’è da aspettarsi dalle nuovissime generazioni di registi, spesso senza coraggio, che fin troppo si prendono sul serio, almeno possiamo fare affidamento sulla longevità dei maestri.


Dunque, il film: Gilberte (Sabine Azéma), civettuola donna della buona società, deve mantenere il marito Georges Valandray (Pierre Arditi), ricco industriale metallurgico, all’oscuro del matrimonio in prime nozze tra la donna e Eric Thomson (Lambert Wilson), un americano in procinto di mettersi in affari con Georges. Situazioni buffe ed equivoci si susseguono ottimamente sorretti dalle spalle di un cast perfetto che oltre ai nomi citati vede anche le preziose interpretazioni di Isabelle Nanty (Arlette Poumaillac, sorella di Gilberte), Jalil Lespert (Charley, artista “cucuista”), Audrey Tatou (Huguette Verberie, innamorata di Charley), Darry Cowl (madame Foin, portiera di garçonniere), Daniel Prévost (Faradel, dongiovanni mancato).

Immersi in una scenografia palesemente ricostruita in studio, gli attori recitano la parte di commedianti teatrali che interpretano i personaggi stereotipati di un’opera buffa. E poi cantano. Con la propria voce, meravigliosamente inesperta. Come nella migliore tradizione del musical.
Il regista disegna coreografie con le battute dei personaggi, con le entrate e le uscite di scena, con il gioco di complicità tra attore e pubblico. E la macchina da presa sta a guardare. Senza movimenti inutili, carrelli sfrenati o montaggi pirotecnici. Sta lì, buona, a riprendere senza stacchi minuti interi di libero delirio teatrale degli attori. L’intero film è girato in pochi piani-sequenza per non disturbare l’intimo flirt tra gli attori e i loro personaggi. Poi ci sono delle necessità narrative, delle quali Resnay se ne è autorevolmente infischiato: e allora con un campo-controcampo si può, senza interrompere il dialogo, saltare dal salotto alla cucina, dallo studio alla camera da letto. E invece di attendere l’uscita di scena di un personaggio si può farlo svanire come un fantasma. Tanto non serve più.


Ennesima lezione etica da parte del maestro francese. Il messaggio trasmesso dal film non viene dal soggetto, assolutamente non attualizzabile, ma dal metodo: intriso di gioco e di ricerca autentica.
Fare un film e divertirsi è possibile.
Anche prima di compiere ottanta anni.
 

 

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