46.MO FESTIVAL DEI POPOLI

02/08:12:2005

FIRENZE

di Luciana APICELLA

 

Inatteso
di Domenico Distilo
Italia, 2005, 52’

Prima italiana
 

 

Difficile definire l'arrivante, colui che giunge inatteso, come recita il titolo di questo documentario toccante, bellissimo. Il giovanissimo regista, allievo del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, si è spostato per l'Italia disegnando una geografia dell'immigrazione, sulle tracce dei "sommersi" senza salvezze da sperare, di quei profughi che arrivano in Italia non per lavoro o per il miraggio di un'esistenza materialmente migliore ma per sfuggire alle torture, alle persecuzioni, al carcere, ai regimi politici di cui sono vittime. Narrano del disincanto, delle sofferenze, della mancanza di un tetto, di acqua, di ogni più piccolo aiuto da parte dello stato italiano sordo alle loro legittime richieste di esuli e rifugiati politici. Stato che disattendendo sistematicamente la Convenzione di Ginevra non ha saputo fare di meglio che istituire un ponte aereo con la Libia, in cambio della cessazione dell'embargo, verso la quale sono trasferiti i non graditi ospiti. Le masse di uomini che sbarcano ogni giorno sulle coste della penisola, ammassati per la conta come bestie, parlano della loro condizione con l'amarezza stupita e incredula di chi non comprende la mancanza di una risposta alle loro grida di aiuto. Parlano dei lavori pesanti cui sono costretti per sopravvivere, sotto il sole abbacinante dei campi di pomodori e per le strade, dei sonni rotti sui pavimenti di casolari abbandonati in attesa dell'ennesimo sgombero della polizia. Parlano con voce bassa, lenta, senza rabbia, per questo ancora più straziante. "Gli italiani cosa credono che possiamo mangiare, terra?" dice uno di essi al microfono del'intervistatore. E di fronte all'ovvietà della richiesta di un pezzo di pane per chi ha subito privazioni, distruzioni e torture fisiche di settimane o mesi, per chi è rimasto appeso per le mani per giorni, per chi è stato ustionato, sfigurato, si rimane ammutoliti di un silenzio colpevole, che dovrebbe fare abbassare il capo, che ci costringe a chiedere perdono.

Voto: 30/30

 

Phantom Limb
di Jay Rosenblatt
USA, 2005, 28’

Prima italiana
 


Se non si vuole che una cosa esista è sufficiente non parlarne. Il silenzio ha questa virtù di cancellazione o forse soltanto di rimozione momentanea, di accantonamento fittizio perchè anche al di là delle parole che la costruiscono la realtà esiste, la realtà della morte esiste per quanto si tenti di scrollarla via da sè. Perchè forse l'esperienza della morte è quella tra tutte meno dicibile, meno mostrabile eppure più presente nella sua ineluttabilità. Attraverso un collage di immagini di repertorio da archivi televisivi, vecchi cinegiornali, filmini in Super8 girati in famiglia Jay Rosenblatt costruisce per quadri la sua riflessione sul senso della morte - e quindi della vita - sull'esperienza del distacco, del dolore, del rimorso: un omaggio alla memoria del fratellino morto a sette anni. Quella morte per tanti anni taciuta, nel tacito accordo di non parlarne in famiglia, pesa nella coscienza come un rimorso. Eppure l'esistenza quotidiana ci restituisce immagini di privazione: la nascita stessa lo è, nello sfacelo del sangue e delle grida di un parto, nell'essere gettati alla rinfusa in mezzo al mucchio dei nati inconsapevoli e nudi. Una nudità che diventa metafora stessa del senso dell'esistere sprovveduti per lo più di ogni mezzo per fronteggiare il reale, il quotidiano:la nudità sconcia di un moncherino, di una pecora tosata (una scena incredibilmente bella, al rallentatore, sottolineata dal silenzio sospeso degli spettatori in sala, della nascita. Il regista offre l'immagine di una vita che diventa faticosa conquista esperienziale, poiché solo affrontando nudi il vivere di ogni giorno si può tentare di ricoprire dignitosamente il proprio ruolo di uomini.
Voto: 30/30

 

Il 37 – Memorie di una città ferita
di Roberto Greco
Italia, 2005, 56’

 

 

Il trentasette è il bus che raccolse i primi corpi estratti dalle macerie della stazione di Bologna, il giorno della strage, in quel 2 agosto dell'80 così lontano, così sommerso da tutto ciò che dopo è venuto nella furia dell'informazione che tutto rende obsoleto nell'arco di ore, tutt'al più di giorni, eppure così vicino e vivo nella memoria della città (chi non ricorda quanto i bolognesi - e non solo - s'infuriarono di fronte alla ventilata ipotesi di rimettere in moto le lancette dell'orologio della stazione fermo per sempre sulle 10.25?), nelle viscere dei suoi abitanti. Il trentasette fu il simbolo stesso della tragedia che faceva irruzione nel quotidiano, banale e piatto trascorrere delle esistenze. Un bus di linea, nemmeno troppo affollato solitamente, carico di gente comune: quel giorno ai finestrini furono appese lenzuola bianche, a coprire lo sconcio dei corpi bruciati, l'odore delle carni reso più acre dalla calura estiva, e il percorso fu deviato dalla stazione all'obitorio e indietro a vedere cosa si poteva fare ancora per medicare le ferite della città dilaniata. Un documentario che è tutto costruito sui ricordi di quella mattina: gli attimi che precedettero lo scoppio, rappresi nel grumo della memoria come accade sempre del ricordo,che si fa incredibilmente vivo e dettagliato quando quel "prima" precede un evento straordinario, che rompe le maglie della normalità. Le voci di chi quella mattina fu precipitato nell'inferno di quello scoppio: vigili urbani, medici, conducenti di bus, funzionari comunali, vigili del fuoco, tutti coloro che sentirono che era necessario rendersi utili, poter fare qualcosa, dal donare sangue al portare un caffè caldo a chi scavava nelle macerie, dal deviare il traffico a portare ai parenti delle vittime i primi conforti. L'intreccio delle voci e delle interviste è un coro tragico straziante quanto le pochissime immagini di repertorio che il documentario presenta, schiette di accento emiliano e dolore ancora non cancellato, forse mai cancellabile.
Voto: 27/30

 

Per sempre
di Alina Marazzi
Italia/Svizzera, 2005, 53’

 


Un incontro tra donne prima di tutto vuole essere lo sguardo rispettoso e attento della macchina da presa che scavalca le mura di un convento di monache di clausura, alla ricerca di un perchè, della una comprensione profonda di una scelta che è "per sempre". Una regista, una donna, che tenta un dialogo con altre donne che paiono essersi private volontariamente di tutto ciò che maggiormente al femminile inerisce, famiglia sessualità corpo seduzione. Alina Marazzi affronta un tema insolito e forse poco attraente di una realtà poco riconoscibile e riconosciuta, della quale si fatica a riconoscere il possibile inquadramento sociale. Siamo lontani anni luce dal tempo in cui la monacazione poteva darsi come rifugio per mancanza di una "dote", o di avvenenza fisica per sfuggire l'onta dello status di non maritata, o perchè il monastero poteva costituire l'unico accesso ad una cultura altrimenti negata al mondo femminile: oggi invece cosa può giustificare una simile scelta? Fuori campo la voce della regista pone i propri interrogativi, in un percorso di progressivo avvicinamento allo spazio fisico e mentale dell'isolamento delle suore: uno clausura che prima di ogni altra cosa è interiore, come dice una delle monache intervistate, ciò che soltanto può rendere sopportabile un'esistenza che nulla ha di eclatante, che sembra anzi fuggire qualsiasi possibilità di imprevisto, scandita com'è dal ritmo fissato per ogni attività, preghiera e meditazione, pasti e lavoro, nella rigorosa adesione al quotidiano calendario delle ore. Le parole delle monache, da brani di corrispondenze con la regista o attraverso la loro voce, a tratti sconcertano: ci si aspetterebbero fervore e trasporto religioso e un po' fanatico, costante richiamo all'eccezionalità del quotidiano e privilegiato rapporto col divino, e invece si sentono le parole "corpo" e "femminilità" e "dubbio". Emerge che la reale sfida quotidiana è quella della convivenza con altre donne, la vicinanza concreta e fisica di esseri umani che scelgono di condividere spazi, cibo, pensieri che non sempre si accordano, possibili ostilità da appianare poiché l'amore incondizionato per il prossimo è il fine ultimo, l'amare e il porsi in condizione di essere amati. Così nulla c'è di eccezionale in queste esistenze, solo il quotidiano vivere perchè ogni esistenza è degna, perchè "o è importante tutto, o non è importante niente". Il film della Marazzi è insolito e coinvolgente, lo dico da laica, lo dico da spettatrice arrivata in sala un po' perplessa e scettica rispetto alla visione di un film "sulle suore", uscita dalla sala con qualcosa di bello e profondo su cui riflettere.
Voto: 28/30
 

A filo d’acqua
di Gian Enrico Bianchi
Italia, 2004, 58’

 

 

Sotto la poderosa muscolatura teutonica della pluripremiata Josefa Idem, campionessa mondiale e olimpica di canoa, c'è una donna molto simile a tante altre, che tenta di conciliare la propria attività professionale col ruolo di madre e moglie. Questo volto dolce ma deciso di Josefa ci mostra il bel  documentario di Gian Enrico Bianchi, che segue l'atleta nel percorso di preparazione alle Olimpiadi di Atene del 2004, dove la Idem vinse l'argento, arrivando come detentrice dell'oro di Sidney 2000. Lo sguardo è intimista, l'atleta parla di sè, della sua attività sportiva ma anche di quella politica (è Assessore allo Sport del Comune di Ravenna), delle sue origini e dell'amore per la sua terra di adozione, la Romagna, con i suoi paesaggi e i suoi valori contadini, con l'orgoglio partigiano del suocero e i suoi racconti sulla guerra di resistenza e liberazione. Le immagini ci restituiscono il ritratto di una donna forte ma non infallibile, mai sopra le righe, salda di un equilibrio che piò appartenere solo a chi fa della costante disciplina, dell'allenamento per superare il limite precedentemente scavalcato una norma di vita. Ma c'è anche l'umanissima paura di non farcela, di non essere all'altezza, la voglia di dedicarsi interamente alla famiglia dopo una vita di sacrifici, l'amore per la terra d'origine, la voglia di un viaggio che non sia soltanto spostarsi da un punto all'altro per le gare ma assaporare la strada che scorre sotto ai piedi e il paesaggio che varia piano, dai finestrini del camper. Un bel ritratto di donna e atleta, lontano dal mito della super donna, che suscita immediata e inevitabile empatia.
Voto: 27/30
 

L'anno di Rodolfo
di Daniel Ruffino, Federico Testardo Tonozzi

Italia, 2004, 65’
 


La crisi dell'industria italiana vista e vissuta attraverso gli occhi di un operaio metalmeccanico, Rodolfo. E se si parla di Torino, di Fiat, di Mirafiori,  la vicenda assume un valore paradigmatico.

La macchina da presa si presta a un vero e proprio pedinamento dell'operaio Rodolfo, sindacalista della Fiom, instancabile promotore di cortei, scioperi, assemblee, nell'ostinata difesa di un diritto, quello al lavoro, che pare sempre più minacciato e sempre meno garantito dal proliferare di forme contrattuali all'insegna della precarietà e della flessibilità, dal costante spostamento all'estero delle attività produttive per tagliare sui costi di produzione e garantire alle imprese, in condizioni di generale stagnanza economica, una continuità di profitti. Rodolfo è uno degli ultimi rappresentanti di una categoria, quella dei metalmeccanici, il cui potere e la cui visibilità hanno subito un progressivo indebolimento. è un operaio dell'Officina 81, ex meccanica Mirafiori, stabilimento decentrato per la produzione di pezzi di ricambio Fiat. Una fabbrica diventata una sorta di lazzaretto, di ghetto per lavoratori con invalidità più o meno gravi, cassintegrati dopo la chiusura dello stabilimento: uomini e donne che vivono il dramma della perdita del posto di lavoro tentando di conservare la propria dignità e la volontà di combattere, riunirsi, discutere in cerca di soluzioni o almeno di comprensione.

"L'intento," ci dice Federico Testardo Tonozzi, "era quello di fare un film sugli operai evitando però l'usuale sguardo sulla massa, sulla "coralità" delle manifestazioni sindacali e degli scioperi di piazza. Io non vivo da molto a Torino, e volevo comprendere quanto forte fosse ancora l'impatto sulla città della "sua" industria. L'incontro con Rodolfo è stato determinante per il suo essere in maniera del tutto naturale un "personaggio", nella sua testardaggine e fedeltà al ruolo di "rompiscatole", di scomodo". Con disarmante schiettezza egli denuncia durante le assemblee i sindacati colpevoli di essere rimasti indifferenti alle sorti dello stabilimento, i funzionari incapaci di dare risposte; coordina il gruppo dei cassaintegrati tentando di tenere vivo un tessuto di lotta operaia che sembra sfaldarsi nella rassegnazione di chi sa di non esercitare più la stessa forza catalizzatrice di un passato travagliato e glorioso di lotte e rivendicazioni. D'altra parte se un presidente del consiglio definisce lo sciopero una "inutile perdita di tempo", se i mezzi di informazione preferiscono farci ingoiare squallide vicende di isole e fattorie, è inevitabile che il vivere reale del paese, la quotidianità di milioni di uomini e donne alle prese col problema di pagare un affitto e comprare i libri per far studiare i figli diventino - paradosso - il meschino, il piccolo di cui non vale la pena occuparsi.

Povera patria, cantava Battiato qualche anno fa...

Un ottimo documentario, che ha avuto l'onore di essere l'unico film italiano in concorso al Cinéma du Réel 2005 di Parigi.
Voto: 30/30
 

 

Firenze, 09:12:2005