46.MO FESTIVAL DEI POPOLI 02/08:12:2005 FIRENZE |
|
![]() |
Inatteso
Prima italiana
Difficile definire l'arrivante, colui che giunge inatteso, come recita il titolo di questo documentario toccante, bellissimo. Il giovanissimo regista, allievo del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, si è spostato per l'Italia disegnando una geografia dell'immigrazione, sulle tracce dei "sommersi" senza salvezze da sperare, di quei profughi che arrivano in Italia non per lavoro o per il miraggio di un'esistenza materialmente migliore ma per sfuggire alle torture, alle persecuzioni, al carcere, ai regimi politici di cui sono vittime. Narrano del disincanto, delle sofferenze, della mancanza di un tetto, di acqua, di ogni più piccolo aiuto da parte dello stato italiano sordo alle loro legittime richieste di esuli e rifugiati politici. Stato che disattendendo sistematicamente la Convenzione di Ginevra non ha saputo fare di meglio che istituire un ponte aereo con la Libia, in cambio della cessazione dell'embargo, verso la quale sono trasferiti i non graditi ospiti. Le masse di uomini che sbarcano ogni giorno sulle coste della penisola, ammassati per la conta come bestie, parlano della loro condizione con l'amarezza stupita e incredula di chi non comprende la mancanza di una risposta alle loro grida di aiuto. Parlano dei lavori pesanti cui sono costretti per sopravvivere, sotto il sole abbacinante dei campi di pomodori e per le strade, dei sonni rotti sui pavimenti di casolari abbandonati in attesa dell'ennesimo sgombero della polizia. Parlano con voce bassa, lenta, senza rabbia, per questo ancora più straziante. "Gli italiani cosa credono che possiamo mangiare, terra?" dice uno di essi al microfono del'intervistatore. E di fronte all'ovvietà della richiesta di un pezzo di pane per chi ha subito privazioni, distruzioni e torture fisiche di settimane o mesi, per chi è rimasto appeso per le mani per giorni, per chi è stato ustionato, sfigurato, si rimane ammutoliti di un silenzio colpevole, che dovrebbe fare abbassare il capo, che ci costringe a chiedere perdono. Voto: 30/30
Phantom Limb
Prima italiana
Il 37
– Memorie di una città ferita
Il trentasette è il bus che raccolse i primi
corpi estratti dalle macerie della stazione di Bologna, il giorno della
strage, in quel 2 agosto dell'80 così lontano, così sommerso da tutto ciò
che dopo è venuto nella furia dell'informazione che tutto rende obsoleto
nell'arco di ore, tutt'al più di giorni, eppure così vicino e vivo nella
memoria della città (chi non ricorda quanto i bolognesi - e non solo -
s'infuriarono di fronte alla ventilata ipotesi di rimettere in moto le
lancette dell'orologio della stazione fermo per sempre sulle 10.25?), nelle
viscere dei suoi abitanti. Il trentasette fu il simbolo stesso della
tragedia che faceva irruzione nel quotidiano, banale e piatto trascorrere
delle esistenze. Un bus di linea, nemmeno troppo affollato solitamente,
carico di gente comune: quel giorno ai finestrini furono appese lenzuola
bianche, a coprire lo sconcio dei corpi bruciati, l'odore delle carni reso
più acre dalla calura estiva, e il percorso fu deviato dalla stazione
all'obitorio e indietro a vedere cosa si poteva fare ancora per medicare le
ferite della città dilaniata. Un documentario che è tutto costruito sui
ricordi di quella mattina: gli attimi che precedettero lo scoppio, rappresi
nel grumo della memoria come accade sempre del ricordo,che si fa
incredibilmente vivo e dettagliato quando quel "prima" precede un evento
straordinario, che rompe le maglie della normalità. Le voci di chi quella
mattina fu precipitato nell'inferno di quello scoppio: vigili urbani,
medici, conducenti di bus, funzionari comunali, vigili del fuoco, tutti
coloro che sentirono che era necessario rendersi utili, poter fare qualcosa,
dal donare sangue al portare un caffè caldo a chi scavava nelle macerie, dal
deviare il traffico a portare ai parenti delle vittime i primi conforti.
L'intreccio delle voci e delle interviste è un coro tragico straziante
quanto le pochissime immagini di repertorio che il documentario presenta,
schiette di accento emiliano e dolore ancora non cancellato, forse mai
cancellabile.
Per
sempre
A
filo d’acqua
Sotto la poderosa muscolatura teutonica della
pluripremiata Josefa Idem, campionessa mondiale e olimpica di canoa, c'è una
donna molto simile a tante altre, che tenta di conciliare la propria
attività professionale col ruolo di madre e moglie. Questo volto dolce ma
deciso di Josefa ci mostra il bel documentario di Gian Enrico Bianchi,
che segue l'atleta nel percorso di preparazione alle Olimpiadi di Atene del
2004, dove la Idem vinse l'argento, arrivando come detentrice dell'oro di
Sidney 2000. Lo sguardo è intimista, l'atleta parla di sè, della sua
attività sportiva ma anche di quella politica (è Assessore allo Sport del
Comune di Ravenna), delle sue origini e dell'amore per la sua terra di
adozione, la Romagna, con i suoi paesaggi e i suoi valori contadini, con
l'orgoglio partigiano del suocero e i suoi racconti sulla guerra di
resistenza e liberazione. Le immagini ci restituiscono il ritratto di una
donna forte ma non infallibile, mai sopra le righe, salda di un equilibrio
che piò appartenere solo a chi fa della costante disciplina,
dell'allenamento per superare il limite precedentemente scavalcato una norma
di vita. Ma c'è anche l'umanissima paura di non farcela, di non essere
all'altezza, la voglia di dedicarsi interamente alla famiglia dopo una vita
di sacrifici, l'amore per la terra d'origine, la voglia di un viaggio che
non sia soltanto spostarsi da un punto all'altro per le gare ma assaporare
la strada che scorre sotto ai piedi e il paesaggio che varia piano, dai
finestrini del camper. Un bel ritratto di donna e atleta, lontano dal mito
della super donna, che suscita immediata e inevitabile empatia.
L'anno di Rodolfo
Italia, 2004, 65’
La macchina da presa si presta a un vero e proprio pedinamento dell'operaio Rodolfo, sindacalista della Fiom, instancabile promotore di cortei, scioperi, assemblee, nell'ostinata difesa di un diritto, quello al lavoro, che pare sempre più minacciato e sempre meno garantito dal proliferare di forme contrattuali all'insegna della precarietà e della flessibilità, dal costante spostamento all'estero delle attività produttive per tagliare sui costi di produzione e garantire alle imprese, in condizioni di generale stagnanza economica, una continuità di profitti. Rodolfo è uno degli ultimi rappresentanti di una categoria, quella dei metalmeccanici, il cui potere e la cui visibilità hanno subito un progressivo indebolimento. è un operaio dell'Officina 81, ex meccanica Mirafiori, stabilimento decentrato per la produzione di pezzi di ricambio Fiat. Una fabbrica diventata una sorta di lazzaretto, di ghetto per lavoratori con invalidità più o meno gravi, cassintegrati dopo la chiusura dello stabilimento: uomini e donne che vivono il dramma della perdita del posto di lavoro tentando di conservare la propria dignità e la volontà di combattere, riunirsi, discutere in cerca di soluzioni o almeno di comprensione. "L'intento," ci dice Federico Testardo Tonozzi, "era quello di fare un film sugli operai evitando però l'usuale sguardo sulla massa, sulla "coralità" delle manifestazioni sindacali e degli scioperi di piazza. Io non vivo da molto a Torino, e volevo comprendere quanto forte fosse ancora l'impatto sulla città della "sua" industria. L'incontro con Rodolfo è stato determinante per il suo essere in maniera del tutto naturale un "personaggio", nella sua testardaggine e fedeltà al ruolo di "rompiscatole", di scomodo". Con disarmante schiettezza egli denuncia durante le assemblee i sindacati colpevoli di essere rimasti indifferenti alle sorti dello stabilimento, i funzionari incapaci di dare risposte; coordina il gruppo dei cassaintegrati tentando di tenere vivo un tessuto di lotta operaia che sembra sfaldarsi nella rassegnazione di chi sa di non esercitare più la stessa forza catalizzatrice di un passato travagliato e glorioso di lotte e rivendicazioni. D'altra parte se un presidente del consiglio definisce lo sciopero una "inutile perdita di tempo", se i mezzi di informazione preferiscono farci ingoiare squallide vicende di isole e fattorie, è inevitabile che il vivere reale del paese, la quotidianità di milioni di uomini e donne alle prese col problema di pagare un affitto e comprare i libri per far studiare i figli diventino - paradosso - il meschino, il piccolo di cui non vale la pena occuparsi. Povera patria, cantava Battiato qualche anno fa...
Un ottimo documentario, che ha avuto l'onore di
essere l'unico film italiano in concorso al Cinéma du Réel 2005 di
Parigi.
Firenze, 09:12:2005 |