future film festival xi edizione
Bologna, 27 Gennaio - 01 Febbraio 2009

 

di  Luciana APICELLA

150 eventi, tra proiezioni, workshops e incontri, 27 anteprime (tra le quali il colpaccio di The curious case of Benjamin Button, plurinominato all'Oscar), più di 30.000 presenze, più di 250 giornalisti accreditati. 10 i film in concorso. Netta prevalenza degli Stati Uniti (3 titoli più 1 cooproduzione con la Francia), seguiti a ruota da Giappone e Cina, ma alla fine il vincitore è stato il film con la minor rappresentanza "etnica" al concorso. Il Lancia Platinum Grand Prize dell'XI edizione del Future Film Festival è andato infatti all'unico film argentino di animazione in concorso, Martin Fierro, di Liliana Romero e Norman Ruiz. Ambientato nell'Argentina di fine Ottocento, narra della vicenda dell'omonimo gaucho, soldato son malgrè, che in un impeto di orgoglio e sete di giustizia decide di ribellarsi alle logiche di sfruttamento dei grandi latifondisti della Pampa per restituire dignità e libertà a se stesso e alla sua gente. La giuria, composta da Maurizio Forestieri, Franco La Polla e Massimo Germoglio hanno premiato il film "per l'originalità e la ricercatezza del design, la semplicità ed efficacia della storia che racconta un vecchio poema argentino su gauchos e pampa, con la splendida tradizione della tecnica di animazione 2D".

 

Buona l'edizione appena conclusa di un Festival che mentre mantiene le sue radici ben salde nel tessuto cittadino di Bologna ha saputo ritagliarsi una buona dose di credibilità in Italia e all'estero. Certo, mancavano quest'anno i nomi d'eccellenza (insomma, quest'anno niente Myiazaki, che arriverà al cinema il 20 marzo con Ponyo on the Cliff by the Sea, in concorso a Venezia), o meglio, quelli di grande richiamo per il pubblico ma la maratona dedicata al cinema d'animazione e agli effetti speciali ha regalato soddisfazioni.Resta agli organizzatori da risolvere l'annoso problema delle sale (quest'anno le proiezioni erano dislocate in tre cinema differenti, più il Future Village a Palazzo Re Enzo) e dei finanziamenti: per questo l'appello finale di Oscar Cosulich e Giulietta Fara, direttori del Festival, è stato la richiesta di maggiori garanzie di continuità da parte delle istituzioni. Insomma, Bologna (e i bolognesi) salvino il Future, ne abbiano cura. Speriamo che l'appello sia raccolto.


Lo sguardo sul futuro è stato accompagnato da retrospettive di grande suggestione. Il tributo a Ub Iwerks, papà di Mickey Mouse assieme al sodale Walt Disney, è un doveroso omaggio a uno dei pionieri dell'animazione. In coppia con Walt creò il Topo(lino) più famoso del mondo, separatosi da lui divenne uno dei più straordinari innovatori nel campo delle tecniche di animazione e degli effetti speciali (basti pensare a Gli uccelli di Hitchcock, per i quali ottenne una nomination all'Oscar). Piacevolissime rivisitazioni (dei cortometraggi animati più celebri, prodotti in coppia con Disney e da solo), ma anche la visione di una vera e propria chicca per appassionati con Reluctant Dragon, un lungometraggio Disney del 1941 praticamente sconosciuto in Italia, nel quale i cortometraggi si alternano a testimonianze documentaristiche sul dietro le quinte dello studio di animazione. L'omaggio infine della nipote Leslie Iwerks al celebre nonno, in The hand behind the mouse, documentario su vita e miracoli di uno dei più folli e geniali sperimentatori del mondo dell'animazione e degli effetti speciali, il cui nome è ingiustamente sconosciuto ai più.


Altra retrospettiva di straordinario fascino quella dedicata a "Nobuo Nakagawa, Master of Horror". Un taglio decisamente originale per l'omaggio ad un cineasta che conta nella sua prolifica produzione (87 pellicole) soltanto 8, vale a dire quelle presentate al Future, sono pellicole di genere, kaidan eiga, storie di fantasmi portate sullo schermo. Non semplici esercizi di stile, ma riflessioni profonde e spesso pessimistiche sulle meschinità umane, sugli abusi di potere, su sensi di colpa così profondi da rimanere latenti per generazioni, fino a quando gli spettri non invadono lo spazio della realtà portando alla luce i pozzi neri delle proprie fragilità ed abiezioni. Un maestro pure per le sensazionali trovate registiche, per quel senso di angoscia e peso incombente dato da particolari, dettagli accumulati, che a volte poi lasciano spazio a deliri visivi allucinati.


Assoluta novità quella della giornata "3D Day", per fare il punto su quella che a detta di alcuni registi è una rivoluzione del cinema pari a ciò che furono il sonoro e il colore, per altri una mera strategia di marketing (destinata ad essere fallimentare, peraltro) destinata a rilanciare le sorti del mezzo cinematografico. Fosse anche solo perchè ha come ricaduta principale quella di riportare gli spettatori nelle sale cinematografiche strappandoli alle poltrone di casa e al pigrume dell'home video, è una storia quella del 3D che vale la pena di essere raccontata. Se n'è parlato, qui al Future: il 3D ha potenzialità enormi a detta dei principali operatori dell'industria cinematografica italiana e mondiale. I festivalieri ne hanno avuto un assaggio con gli occhialini per la versione tridimensionale de la Sposa cadavere burtoniana, e con un assaggio di Monster vs Alien, il film di animazione della Dreamworks che a fine anno competerà col primo 3D della Pixar, UP. Per tralasciare tutto ciò che verrà, con i sequel delle animazioni di maggior successo di questi anni, da Toy Story a Shrek, fino ad arrivare alle Guerre Stellari di Lucas. Come si dice, lo scopriremo vivendo.
 

IDIOTS AND ANGELS

di Bill Plympton

Stati Uniti 2008, 78’

 

di  Luciana APICELLA

La storia è quella di un uomo ordinariamente meschino e arrogante, volgare e abitudinario, cui l'apparire di due ali d'angelo sulla schiena spezza fastidiosamente l'abituale tran tran di doccia barba e quotidiane abiezioni (straordinaria la scena in cui, con satanico autocompiacimento, fa esplodere con una fiamma il serbatoio di un auto colpevole di avergli rubato il parcheggio). Le due innocenti ali, che tenta di estirpare con la sega elettrica quando si accorge che lo portano, contro ogni sua volontà, a compiere azioni "buone", saranno non tanto l'inizio della redenzione per l'uomo, quanto lo scatenarsi di una folle girandola di opportunisti che in quel fenomeno freak scorgono tutte le opportunità di arricchimento (l'esibizione da baraccone dell'uomo-angelo potrebbe essere remunerativa...). Al suo solito il cattivissimo Plympton sbatte ci sbatte in faccia miserie (tante) e (poche) nobiltà, tutte le umane piccolezze e lo squallore cui non si pone argine nell'eterna lotta dell'homo homini lupus. Col suo tratto sporco e livido, stilizzato e ripugnante nel descrivere sommariamente ma puntualmente le sgradevolezze dell'anima riversate sui corpi e nei volti difformi, ci fa vergognare di essere umani, e non ci offre il sollievo finale di una redenzione piena. Al fondo resta sempre quel senso di incompiutezza, peccato e "sporcizia" che ci rende maledettamente, condannati a vita, umani. Si ride, e a volte si distoglie lo sguardo come quando allo specchio notiamo un particolare che proprio non va. Lo ami e lo odi, perchè ti sbatte in faccia lo squallore del vero.

28/30

IGOR

di Tony Leondis

Stati Uniti/Francia 2008, 87’

 

di  Luciana APICELLA

Bella sorpresa questa cooproduzione franco-statunitense, parodia gustosissima dei film della difformità e del mostruoso. Straordinaria anche perchè proiettata in lingua originale, dato che stiamo parlando di signore voci: per questo spassosissimo cartoon si sono scomodati niente popodimeno che Steve Buscemi, John Cusack Jay Leno, Cristian Slater, tanto per dirne qualcuno. L'Igor del titolo è un "Igor", appunto, come molti suoi omonini hunchback ed aiutante del suo personale Scienziato del Male, nel Regno del male di Malaria, oppresso dalla pioggia perenne e da un dispotico re nano (beh..) il cui trono è insidiato da uno degli Scienziati del Male, più ambizioso dei suoi colleghi/rivali. Ogni anno si porta all'attenzione di una soggiogata platea la sfida delle Invenzioni Malvage progettate dagli Scienziati. Igor si diletta di scienza, nonostante il suo status di servo non lo consentirebbe. E quando accidentalmente il suo Padrone Scienziato muore, decide di proseguirne l'opera e di creare la più straordinaria invenzione di sempre, la vita, di un essere ovviamente malvagio. Peccato che gli esca fuori una specie di Biancaneve obesa ed abnorme, filantropa ed appassionata di recitazione. Tra gag divertentissime e tentativi falliti di costringersi ad essere "cattivi" più che si può (dato che pare che solo le ragazze, e i ragazzi, cattivi vadano dovunque), Igor si arrenderà alla fine alla propria (buona) natura e a quella del suo novello Frankenstein in gonnella, aiutato nel suo percorso da due sue creazioni, Brian, un cervello sotto vetro (ovviamente stupidissimo) e Scamper, un coniglio reso immortale suo malgrado, che escogita mille stratagemmi (invani) per suicidarsi. Se avrà successo commerciale ne saremo felicissimi. Forse arriva un po' in ritardo rispetto alle evoluzioni poetico-espressioniste della Pixar? Vabbè, chi se ne frega, avercene come diceva qualcuno qui vicino...

27/30

PACO AND THE MAGICAL BOOK
di Tetsuya Nakashima

Giappone 2008, 105'

 

di  Luciana APICELLA

La follia allo stato puro. Gli orizzonti estetici nipponici mi risultano sempre ostici da afferrare, comprendere dunque godere. Mettono talvolta a dura prova il mio imbarazzo. Nell'usuale accumulo di personaggi strambi, barbe posticce, improbabili occhiali, capigliature esplosive, vecchietti ridicoli, accumuli di oggetti da scenario apocalittico colorato con gli Uniposca, la storia è quella (ripercorsa nella memoria di uno scrittore, scopriremo alla fine chi è), di una strambra clinica/ospedale/ricovero per travestiti ripudiati, loschi individui sfregiati, infermiere sadomaso in bianco, mogli-vampire assetate di potere. Onuki, un vecchio canuto cinico e sgradevole, sopporta a stento l'olezzo di questa compagnia di reietti, e in generale l'umanità. Ma capita che sulla sua panchina si sieda Paco, una ragazzina (i buoni, osservava giustamente il Dottor C. ad una proiezione, hanno sempre tratti più occidentali), che legge continuamente lo stesso libro pop up in cui sono narrate le avventure di un principe rana.Paco a segiuto di un incidente ha perso la memoria. Ogni notte il sonno cancella i ricordi del giorno precedente. E nel cuore secco del vecchio Onuki si fa strada una crepa, di commozione e affetto, che lo porta ad escogitare un modo per regalare alla bambina la possibilità di trattenere almeno un ricordo. Così recluta pazienti e infermiere per mettere in scena la fiaba che la bambina legge ogni giorno con avidità, fino al commovente finale. Una favola che all'inizio ti respinge poi ti fa sciogliere inevitabilmente nella commozione anche se continui a non capire che diavolo possa passare nella testa di uno che si inventa e filma una storia del genere (oltre ad invidiare inevitabilmente le sostanze che potrebbe avere assunto).

25/30

SITA SINGS THE BLUES
di Nina Paley

Stati Uniti 2008, 72'

di  Luciana APICELLA

La sorpresa più staordinaria del Festival. Avevo giurato che mi sarei incatenata davanti a Palazzo Re Enzo se non avesse vinto. Poi si sono verificate due coincidenza: non ha vinto, ed ha iniziato a piovere di brutto. Comunque..
That's the story. Questa pazza regista quarantenne, Nina Paley (che si definisce allegramente una "media whore" e fornisce la sua mail. Le ho scritto, mi ha risposto) nel 2002 si trasferisce in India assieme al marito. Legge il Ramayana, poema indù, e si accorge che la storia della principessa Sita abbandonata dal suo principe azzurro e consorte Rama, si ripete ironicamente da millenni, nella vicenda sempre nuova e sempre uguale delle complicanze amorose. Ne fa, in 5 anni, un film animato sul computer di casa, poi comincia a fare una colletta per portarlo su pellicola. Il risultato è un film straordinario per originalità, incantevole per ironia, ammaliante per i diversi registri narrativi e di tratto che coesistono con una naturalezza e un risultato sorprendente. Sita e Rama sono le figurine dell'iconografia classica indiana, volti fissi e occhi bistrati di nero, figurine piatte e rigide che interpretano il loro millenario ruolo. Ma la loro storia è raccontata pure da tre "ombre" indonesiane che continuamente sembrano mettere in discussione il racconto (prendiamolo un po' in giro questo mito, che è in fondo una storia di corna e debolezze). E la loro storia è raccontata pure dalle note struggenti del blues malinconico e donnesco di Annette Hanshaw, cantante jazz degli anni venti: e allora la principessa Sita si trasforma in Annette, o Annette in Sita, bambola mora dalle curve mozzafiato che canta della rudezza del suo uomo, di quanto è dolce il suo uomo, di quanto sa ferirla il suo uomo. E la loro storia si riflette pure nella vicenda americana e contemporanea di Nina e del suo compagno (altro registro grafico), che le sepzza il cuore via mail (gli uomini sono tutti uguali, e la mamma ve l'aveva detto). Insomma rimandi ad una storia dal sapore millenario e sacrale, desacralizzata dall'accostamento alla banalità delle quotidiane beghe amorose, con inserti pop che avrebbero fatto crepare d'invidia sir George Harrison e compagnia. La Nina mi ha detto che in Italia sarà distribuito. Visione obbligatoria, che in un colpo spazza via il piattume di produzioni animate a volte standardizzate (con le dovute, grandiose, eccezioni).

30/e lode

retrospettiva

Nobuo Nakagawa

Master of Horror

di Antonella MILICIA

Kaidan Kasane ga Fuchi

(The Ghosts of Kasane Swamp), 1957
Primo film horror di Nakagawa, realizzato a 51 anni, con quindi già una grande esperienza umana e professionale alle spalle ed un'assoluta padronanza del mezzo, che lo porterà a sperimentare nuove forme di rappresentazione. L'aspetto visivo della pellicola anticipa ciò che sarà la futura opera orrorifica del Maestro. Iniziamo ad entrare in un girotondo di spettri, animati dal rancore e risoluti nel loro proposito di vendetta. Anche questa, come Yotsuya Kaidan, è una delle storie più popolari della letteratura giapponese sui fantasmi. Il racconto si svolge in due tempi: nella prima parte assistiamo all'onta che darà il via al destino karmico dei protagonisti della seconda, ambientata circa vent'anni dopo. Le colpe dei padri ricadranno sui figli e nulla potrà esser fatto per contrastare una sorte già segnata. Kaidan Kasane ga Fuchi, come spesso accade nelle opere del regista nipponico, parla della sofferenza dell'uomo e la rappresenta affidandosi a dolenti figure che difficilmente si dimenticano, incastrate loro malgrado in una spirale di violenza e disperazione.
 

Borei Kaibyo Yashiki

(Black Cat Mansion), 1958
Esiste in Giappone un filone horror abbastanza particolare per noi occidentali, quello del “Bakeneko” ovvero, detto in modo molto semplicistico, un demone-gatto dalle sembianze umane. Per la seconda tappa del suo viaggio tra i fantasmi, Nakagawa sceglie una storia di questo tipo, ambientandola in una casa stregata e impregnata di antichi rancori. L’inizio è abbastanza classico: avvolti da uno sfavillante bianco e nero, facciamo la conoscenza di uno dei protagonisti della vicenda, un medico che, solo nel suo studio e scosso da misteriosi rumori, comincia a ricordare l’avventura capitatagli poco tempo prima e, così facendo, entriamo nel racconto e in un primo flashback. Scopriamo che l’uomo aveva portato la moglie, gravemente malata, a “cambiare aria” in campagna, in una casa della famiglia della donna, ma abbandonata da anni. Inquietanti eventi porteranno a indagare sul passato della dimora ed un secondo flashback (nel flashback), questa volta a colori, ci svelerà le scaturigini del dolore e ci farà assistere alla parte più sperimentale
dell’opera.

L’idea di questa alternanza bianco e nero/colore non era affatto scontata per l’epoca e Nakagawa ha saputo sfruttare a suo favore una semplice restrizione di budget, che imponeva un uso limitato della pellicola a colori. Nel 1958 gli spettatori non erano ancora abituati al colore e ciò dava un’ulteriore dimensione fantastica a questa rappresentazione del passato operata dal regista. La sua genialità sta anche in questo: riuscire ad adattarsi al meglio (come i tutti i grandi, del resto) alle condizioni lavorative e non vedere eventuali “incidenti di percorso” come ostacoli, ma tirarne fuori la parte creativa.


Tokaido Yotsuya Kaidan

(The Ghost of Yotsuya), 1959
Con questo film Nakagawa si cimenta con una delle storie più famose della tradizione giapponese, vicenda che vanta ben 25 trasposizioni cinematografiche ed innumerevoli rappresentazioni teatrali, essendo un classico del teatro Kabuki. La triste avventura di Oiwa, uccisa e ingannata dall'uomo che amava, la sua immagine sfigurata e addolorata, il suo fantasma in cerca di vendetta, caratterizzeranno tutto l'horror nipponico.
C'è una frase che il regista era solito ripetere spesso: «Io non credo all'esistenza dei fantasmi. Ciò che più mi spaventa sono gli esseri umani». In queste parole possiamo cogliere la sua visione del mondo e la critica sociale che pervade le sue opere. Egli ha una spiccata passione per l'animo umano, che rappresenta anche nei suoi aspetti più negativi e spaventosi, portando avanti un personale percorso d'indagine nell'indole degli individui. In questo, come in altri dei suoi lungometraggi, troviamo una rappresentazione nerissima dell'umanità, un'umanità disperata e crudele, pronta a tutto pur di assecondare i propri desideri.
Nella seconda parte dell'opera viene fuori in tutto il suo splendore l'estro espressionista di Nakagawa, con l'introduzione di elementi formali nuovi, sperimentali e preludio a ciò che l'anno seguente diventerà una delle rappresentazioni più credibili e spaventose dell'inferno: Jigoku.

Jigoku (Hell), 1960
Uno dei film più rappresentativi e visivamente più coinvolgenti e sorprendenti della fase horror di Nakagawa (annoverante otto lungometraggi), assieme a Tokaido Yotsuya Kaidan, dell'anno precedente. Già dalla sequenza dei titoli di testa - coloratissima e straniante - capiamo che i 98 minuti che seguiranno segneranno per sempre la nostra esperienza di spettatori e, in un certo senso, anche la nostra visione del mondo. La storia è quella di Shiro, tranquillo studente universitario che, dopo una serata trascorsa in compagnia di un enigmatico e perverso compagno di studi, vede la propria vita sgretolarsi lentamente, in conseguenza di un incidente che segnerà in modo ineluttabile il suo destino. Da questo momento in poi assistiamo ad una serie di tragici eventi che punteggeranno la strada che condurrà all'apocalittico finale: oltre trenta minuti di viaggio nelle dannazioni dell'inferno. Nakagawa non prova pietà per i suoi protagonisti, egli è convinto che gli esseri umani possano mostrarsi capaci di grandi abiezioni e malvagità e l'inferno a cui sono condannati non è che l'inevitabile prosecuzione del cammino intrapreso in vita. Lo stile del regista è rivoluzionario e seminale ed influenzerà buona parte del cinema mondiale a venire.

 

 

future film festival xi edizione
Bologna, 27 Gennaio - 01 Febbraio 2009