gran teatro la fenice
 

concerto di capodanno 2014

Orchestra e Coro del Teatro La Fenice

Direttore: Diego Matheuz

Maestro del Coro: Claudio Marino Moretti

Soprano: Carmen Giannattasio
Tenore: Lawrence Brownlee


GT La Fenice, Venezia, 29/12/2013-01/01/2014

 

di Gabriele FRANCIONI

Collegamenti rapidi: scheda

 

30/Lode

 

Preludio: Rinascita.

Il 2014 inizia, di fatto, con il “Vivace” in 6/8 della seconda sezione del Primo Movimento della 7° Sinfonia di Ludwig Van Beethoven, grazie alla dinamicissima lettura di Diego Matheuz (36 minuti invece dei canonici 41/42). D’acchito saremmo portati a dire che il direttore d’orchestra, homo novus degli eventi di Capodanno, dopo l’ era-Gardiner, ha portato alle sue estreme conseguenze la tradizionale interpretazione della Settima come epitome del ballo, della danza, accelerandone i tempi durante uno sviluppo in cui non si notano fratture o discontinuità. L’ unica discontinuità sensibile è quella rispetto al (quasi) biennio verdiano appena trascorso e che trovò nel concerto di fine anno del 2012 un momento altissimo di celebrazione. Siamo qui lontanissimi, invece, dall’ idea di una scrittura musicale messa al servizio di un “testo”, di un libretto, di un significato o di un esplicito portato condiviso che non sia quello della musica assoluta.

L’intera concezione del Concerto di questo nuovo anno punta dritta al senso del movimento puro, rintracciato, appunto, nel corpo astratto danzante o in quello organizzato e collettivo di un esercito di corpi, di cui ascoltiamo eco dirette o indirette (il “Guillaume Tell”/“Ouverture” e la “Cavalleria rusticana”). Una celebrazione senza troppe parole, a-logica, da cogliere con l’intuizione dei sensi e in grado di far ripartire il secolo e il millennio dopo un difficile e sofferto periodo di gestazione, nell’augurio che ciò trascini via crisi e recessione. Dopo tutti gli anniversari e i tributi alla numerologia dei primi 13 anni, è il momento di lanciarsi in qualcosa di veramente Nuovo, questa volta, sì, immergendosi/ci nell’ esatta rievocazione dell’atmosfera culturale delle avanguardie storiche. Non omaggi, ma ripristino di un’urgenza di novità. La Fenice, dal canto suo, prosegue nelle proprie continue rinascite,  col progetto “Nuova musica alla Fenice”, le commissioni ai giovani autori, la definizione di una stagione lirica ricchissima (Henze,Stravinskij e Sciarrino, oltre a Mozart –“La Clemenza di Tito” e l’ormai classicissimo “Don Giovanni” di Michieletto- Verdi, Puccini e Rossini) e di quella sinfonica, in cui mai come questa volta scorre sangue nuovo: Liberovici, Part, Rota, Takemitsu, Carter, Cage, Feldman… 

Musica assoluta.

Al di là della ricorrenza dei 200 anni dalla composizione della Sinfonia beethoveniana (1813, opera n. 92, forse diretta dallo stesso autore nell’ aula magna dell’ Università di Vienna, dove vennero accolti i soldati austriaci e boemi feriti dopo la battaglia di Hanau), dobbiamo celebrare –e Matheuz lo fa con assoluta chiarezza interpretativa- la già annunciata qualità assoluta di questa composizione.

(a)  essa è libera da ogni dipendenza testuale (è una sinfonia, dopotutto);

(b)  la Settima rigetta qualunque tentativo di associare, ai movimenti e relative sottosezioni, immagini che, a seconda dei critici, ne sostanzierebbero il valore: scene nuziali, folklore contadino, quadri ecclesiastici, marce, festini, orge… Tranelli nei quali cadde persino un uomo di musica a tutto tondo come Schumann, solitamente critico musicale assai attento;

(c)  l’ opera 92, sebbene il suo senso più esplicito ricada in definitiva nella declinazione più generale del loro minimo comun denominatore, nega persino l’associazione con le varie forme (allemanda, minuetto, valzer) di danza su cui è in parte costruita.

L’ unica lettura possibile e storicamente accettata è quella, icastica, del Wagner veneziano del 1882: “La 7° Sinfonia è l’apoteosi della danza” in senso lato.   

Legando tra loro i quattro movimenti in un flusso costante, Diego Matheuz sottolinea e rafforza ciò che Guido Barbieri illumina nel suo testo introduttivo: dimentichiamoci ciò che storicamente è stato aggiunto (o giustapposto) alla musica uscendo da quel medium e ricorrendo ad altri. Il ritmo e il metro –l’uso quasi compulsivo dei 6/8- si autogiustificano, non dovendo descrivere nulla se non se stessi. Sembra quasi la traduzione di un ideale neo-illuministico (neoclassico?) di arte che si scrolla di dosso speranze e valori etici traditi, come il Napoleone di quegli anni e di Hanau aveva tradito Beethoven. Al netto dell’ ultimo movimento della Nona e del ritorno dei grandi ideali (l’ “Inno alla gioia”, ovviamente), comunque diversi da quelli rappresentati dal primo bonapartismo, sembra quasi che il compositore tedesco, dopo la “Pastorale”, si sia concesso una pausa di riflessione da cui uscì con un’opera di chiarezza e sintesi atemporali, musicalmente matura e allo stesso tempo stringata come solitamente possono esserlo solo le opere giovanili.

Matheuz fa proprie tali chiarezza e sintesi atemporali, imponendo la legge del Movimento a un’orchestra, che, come vuole Barbieri (sulla scorta di Adorno), è essa stessa quel corpo-musica in cui la sinfonia si ritrova in forma di danza. Testa/mente, cuore/sentimenti e arti/movimento SONO essi stessi, senza bisogno di mediazioni di alcun tipo, i movimenti della sinfonia, quindi la sinfonia è un corpo in movimento. Ecco allora che l’apodittica affermazione wagneriana si sostanzia, diventando pura invenzione di critica musicale e non mera sottolineatura di un’ evidente qualità “ritmica”. Il corpo dell’individuo danzante, quindi, è ben lontano dal cercare una “sistemazione all’interno del corpo sociale”, per così dire, ma vive in esso felicemente, non essendo ancora entrato nella crisi (politica) dettata dall’arrivo del pieno Romanticismo. Se ogni movimento della Nona segnerà la lotta tra il singolo e la “società” per non annullarsi in essa, qui conta la nozione di movimento astratto, assoluto, quindi anche di corpo absolutus, di modo che l’ individuo “è” la società nel suo complesso. In movimento, in azione, in crescita. Apoliticamente.

La maestria di Matheuz, oltre a imporre all’orchestra la legge del movimento, sta anche nel farla suonare come un’ ensemble più grande rispetto alla strumentazione indicata da Beethoven: in particolare nel Vivace e nell’ Allegretto -che anche noi, come alla prima del 1813, avremmo voluto “bissato”- sembra quasi moltiplicare  flauti, oboi, clarinetti, corni francesi e trombe, legandoli però in una tessitura timbrica equilibrata, evitando anche di sfruttare i fortissimi a mo’ di ambiente sonoro pronto ad accogliere quelle marce o scene nuziali evocate nel passato dai critici. Gli archi,pochi e in assenza o quasi di una linea melodica insistita,vengono condotti con grazia verso territori di raccordo,salvo essere richiamati a una dinamica più risoluta nei momenti d’insieme.

Il direttore è molto attento nel seguire le indicazioni riguardanti la dinamica, molto varia a seconda dei diversi strumenti, ma riesce nella magia bianca di non creare sbilanciamenti sgraditi all’orecchio. Meraviglioso, in quest’ottica, il tocco di Matheuz nei passaggi dal “ff” al “piano” dell’ Allegretto.

Oltre Busseto, verso Sud.

Seconda parte del concerto. Rispetto al 2013, mancando ovviamente l’omaggio quasi esclusivo a Verdi, il programma risulta più equilibrato, arricchito da alcune perle strumentali e, nel complesso, più vario e speziato: percepiamo infatti un certo qual profumo di Sud d’ Italia, che fa capolino tra la citazione del sicilianissimo “Gattopardo” di Visconti/Lampedusa e il “Funiculì Funiculà” napoletano rivisitato da Rimskij-Korsakov. Per non dire della splendida Carmen Giannatasio da Solofra (Avellino), finalmente di nuovo alla Fenice dopo il concerto di riapertura del Gran Teatro, quasi dieci anni fa, che ha rivaleggiato con Lawrence Brownlee nel tentativo, riuscito, di conquistare i favori del pubblico. Anche l’americano di colore, noto soprattutto per impersonare di frequente l’ Almaviva rossiniano del Barbiere, ha comunque soddisfatto le attese e, a quanto ci è parso, dovrebbe aver riscosso un successo più chiaro presso il pubblico di turisti/appassionati non italiani presenti in sala.

Più potente e chiara la Giannatasio –esordiente nei ruoli per Norma e Tosca, mentre era stata già altre volte nei panni di Violetta Valery in Traviata (come per l’ apertura della stagione napoletana dello scorso anno)- più delicato e suadente Brownlee, all’ inizio impegnato a registrare la dinamica di una voce particolarissima. Occasione imperdibile, quella di ascoltare la soprano avellines, impegnata in una sorta di “allenamento veneziano” in previsione delle prossime opere previste in cartellone alla Fenice: Giannatasio sarà infatti Mimì nella BOHEME di Puccini tra aprile e maggio e Leonora nel TROVATORE di Verdi a settembre. Bellissimi i suoi cambi d’abito, appena un po’ meno la versione à la Gwen Stefani (o Jean Harlow) di una capigliatura molto glamour, diremmo “televisiva”: decisamente meglio la versione bruna della soprano, come da foto presenti sul sito ufficiale, scattate per Alberta Ferretti.

Per essere degli esordi, “Casta diva” e “Vissi d’arte” sono stati interpretati con agile sicurezza dalla stella della serata. L’altra stella è Diego Matheuz, sia chiaro, a suo agio anche nella sezione italiana del concerto, letta in modo meno gaudente e univoco rispetto al collega Gardiner. Dopo il richiamo di quest’ ultimo ad una presunta e aprioristica allegria filologica nel rivisitare il repertorio nostrano, il 29enne direttore venezuelano ha fatto bene a impegnarsi piuttosto nel sottolineare la varietà della tessitura strumentale messa al servizio del belcanto italico.

Più sicuro ed espressivo nei duetti finali, entrambi dalla “Traviata”, dove anche la Giannatasio ha dato prova di una rilassata padronanza del mezzo vocale, Brownlee era progressivamente cresciuto tra Donizetti (“Una furtiva lagrima”) e Leoncavallo (“Mattinata”):decisamente meglio la seconda, tanto per essere chiari.  E’ destino che il Verdi conclusivo –in questo caso anche “Amami Alfredo”, oltre ai canonici “Va’ Pensiero” e “Libiam ne’ lieti calici”- finisca per essere il territorio della sicurezza e della scioltezza vocale: non è questione d’ improvvisa ritrovata agilità, ma di smaltito stage fright da parte dei cantanti, considerata la vastissima platea televisiva che li ascolta (si parla di mondovisione, non “solo” dei 4/5 milioni di nostri connazionali sintonizzati su Rai 1).

Per chi, come noi, si trovava in platea, è quasi impossibile immaginare la tensione –mentale, muscolare, vocale- di chi sa di doversi immolare per primo di fronte (la Giannatasio, stavolta) a una mezza dozzina di telecamere fisse e steady-cam che tutto vedono, perdipiù con illuminazione quasi a giorno. Come anticipammo l’anno scorso, l’unico appunto riguarda questo aspetto della concezione dell’evento di fine anno: avendo a disposizione quattro repliche, si potrebbe pensare a riprendere anche il primo tempo solo orchestrale, del quale, poi, riproporre televisivamente alcuni estratti. Così facendo, oltre ad arricchire la proposta musicale, portandola ad almeno un’ora e tre quarti, si allenterebbe la tensione dei cantanti. Oppure, se proprio il palinsesto non lo consente, decidere almeno di tenere le luci basse nella prima parte, che invece viene utilizzata dall’ occhio delle telecamere per riprese di contorno (i festoni sul palcoscenico, le riprese basso-alto verso i palchi, il soffitto…).

E’ naturale che l’orchestra, quindi gli intermezzi strumentali (il coro della Fenice è un discorso a parte: sempre impeccabile!), risulti invece perfettamente a suo agio,una volta superato lo scoglio della prima parte: le perle cui accennavamo sono infatti la splendida sorpresa del valzer verdiano –“Valzer brillante”- rivisitato da Nino Rota per la colonna sonora del “Gattopardo”, arrangiato e trascritto finissimamente dalla versione originale, inedita nel 1962, per pianoforte e il “Funiculì, Funiculà” riorchestrato da Rimskij-Korsakov. Ribaltando lo schema Verdi/Rota, qui è il noto compositore che, come Richard Strauss prima di lui, assunse la canzone composta nel 1880 da Luigi Denza quasi fosse un antico tema folklorico locale e la incluse nella sua “Neapolitanskaya pesenka”. L’ arrangiamento apre il tema a una sorta di sviluppo raffinato e pieno di colori autunnali rispetto alla primavera danzante del ritornello partenopeo. Completa il trittico di meraviglie strumentali l’ “Intermezzo” dalla “Cavalleria rusticana” di Mascagni: irruzione inaspettata di organo,arpa e flauto, oltre agli archi, per una pausa meditativa prima del tripudio finale –precede infatti il Verdi conclusivo- che sembra suggerire, sommessamente, una modalità trattenuta per vivere correttamente il giubilo della festa. Quasi un monito, anche se brevissimo: se il senso di questo bel Concerto di Capodanno è la Musica Assoluta, la Sinfonia come corpo-danza libero che riparte verso un nuovo mondo o un mondo post-recessione, non dimentichiamoci che la Crisi è ancora viva e segna ancora indelebilmente lo Zeitgeist della metà degli Anni Dieci.

programma:
Prima parte

Ludwig van Beethoven

Sinfonia n.7 in la maggiore, Op. 92

Seconda parte

Gioachino Rossini
allegro vivace dall’Ouverture Guglielmo Tell
Giuseppe Verdi
- Nino Rota
Grande valzer brillante da Il Gattopardo
Vincenzo Bellini
Casta Diva da Norma
Gaetano Donizetti
Una furtiva lagrima da L’elisir d’amore
Nikolaj Rimskij-Korsakov
Canzone napoletana op. 63, da Funiculì funiculà di Luigi Denza
Giacomo Puccini
Vissi d’arte da Tosca
Ruggero Leoncavallo
Mattinata
Pietro Mascagni
Intermezzo da Cavalleria rusticana
Giuseppe Verdi
Amami, Alfredo da La traviata
Va’ pensiero sull’ali dorate da Nabucco
Libiam ne’ lieti calici da La traviata

Lawrence Brownlee - tenore
Carmen Giannattasio - soprano
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore
Diego Matheuz
Maestro del Coro
Claudio Marino Moretti
in coproduzione con Rai 1
con la collaborazione della Regione del Veneto e di Arte
con il contributo di Allianz

SITO UFFICIALE

 

TEATRO LA FENICE

CAPODANNO 2014