GRAN TEATRO LA FENICE

"Premio Venezia"

Leonora Armellini

25 novembre 2006

 

di Gabriele FRANCIONI


Gyorgy Liget Melodien
Wolfgang Amadeus Mozart Concerto per pianoforte e orchestra n.23 in la maggiore KV 488
Ludvig Van Beethoven Sinfonia n. 8, op. 93

Direttore: Zoltan Pesko
Pianoforte: Leonora Armellini
Orchestra del Teatro La Fenice

 


IL "Premio Venezia"


è singolare che in una promettentissima serata dedicata agli Amici della Fenice e al "venezianissimo" Zoltan Pesko, già direttore del Teatro dal 1975 al 1978 e presente molto spesso nelle sue successive stagioni musicali, risplenda di luce autenticamente propria una nuova, ancora piccola e inaspettata stella: quella di Leonora Armellini, vincitrice della XXII Edizione del "Premio Venezia" appena l'anno scorso, grazie al voto delle giurie presiedute da Roman Vlad. Il giovane talento pianistico nazionale ha solo quattordici (!) anni e ha già collezionato un'impressionante serie di premi partecipando, sin dall'età di sei anni, a tutti i più importanti concorsi nazionali di categoria, come la IX Rassegna Musicale Migliori Diplomati d'Italia nel 2005, e diventando prestissimo oggetto di attenzione da parte di un attento e variegato pubblico, che discute già dal lontano 1999 attorno alle qualità della ragazza.
Diplomata a dodici, possiamo dire che abbia accumulato già ora una notevole esperienza concertistica, fondamentale per elaborare un saldo rapporto col pubblico e una completa interazione con orchestra e direttore, di cui ha dato ampia dimostrazione nell'esecuzione di sabato scorso.

Esperienza garantitale anche dalla eco del "Premio Venezia", unanimemente ritenuto il più importante riconoscimento nazionale per giovani speranze del pianoforte, che prevede, oltre a somme in denaro a mo' di borse studio, la possibilità di esibirsi in diversi concerti sul nostro territorio.
La tranquillità dimostrata dalla Armellini nell'affrontare le indicibili profondità e difficoltà interpretative del KV 488 ha dell'incredibile e conferma la bontà del giudizio formulato, all'epoca, dai giurati del Premio (quelli dell'edizione 2006, conclusasi il 26 novembre con l'assegnazione dell'ambito riconoscimento a Vincenzo Maltempo, ventunenne beneventino diplomato al Conservatorio Santa Cecilia di Roma, giravano in stato di grazia tra platea e palchi, estasiati per la prova fornita dalla padovana).
L'auspicio è che l'occasione del concerto col vincitore dell'anno precedente si ripeta nel futuro e che, come pare sia nelle intenzioni della Sovrintendenza, alcuni pianisti di fama accompagnino i ragazzi durante il periodo del soggiorno veneziano, attraverso suggerimenti, stages e incontri di indubbia importanza per la loro formazione.


Leonora Armellini
 


PRIMO TEMPO


La serata ha dunque avuto il suo clou indiscutibile nella seconda sezione della prima parte, il Concerto n. 23 KV 488 di W.A. Mozart, che ha messo un po' in ombra il Beethoven dell'Ottava Sinfonia e lo splendido omaggio del direttore - da ungherese a ungherese - al Ligeti di Melodien (1971), accolto con favore da un pubblico preparatissimo, uso a consonanze e dissonanze, capace di cogliere il crescere melodico all'interno di una tipica struttura ligetiana apparentemente statica, che è foresta sonora entro la quale le linee si rincorrono e divincolano l'una dall'altra, restando peraltro nettamente legate a quel continuum armonico da cui traggono origine.
Una staticità che, come ha ben reso l'insieme orchestrale diretto da Pesko, non è altro che il frutto in evoluzione della "micropolifonia" su cui si basano molte opere del compositore ungherese, un inestricabile intreccio entro il quale ritmo, armonia e melodia tendono quasi a (con)fondersi, per poi aprirsi - eventualmente - ad una scrittura maggiormente chiara e scandita, fatta di trasparenze fugaci.
Zoltan Pesko sfrutta al massimo l'ensemble a disposizione, riuscendo a trattenere i vari settori dell'orchestra entro una sorta di tensione o impasse finalizzata a rendere al meglio la ricca e composita tessitura del colore musicale ligetiano.

 

Gyorgy Liget

 

L'impercettibile ma inesorabile crescendo di Melodien, di indicibile bellezza, porta pochi "temi" - se così si può dire - a sviluppo, o si limita a concedere l'illusione di una passeggera "evidenza" strumentale e timbrica a singoli attori sonori (il meraviglioso trombone con la sordina), ma produce, in conclusione, infiniti frutti sul piano della definizione di ciò che può regalare la caleidoscopica polifonia del compositore recentemente scomparso.
Dalla "unitemporalità" e "atematicità" di Ligeti, siamo poi ossimoricamente sprofondati nelle vette del "Concerto n.23", che è tutto un susseguirsi e moltiplicarsi di piani sonori, sui quali, mirabile, è andata a distendersi la fresca arte della Armellini: dopo un impercettibile esitare iniziale e trascurabili indizi di dinamica ancora in fase di definizione, la giovanissima pianista si è completamente immersa nelle volute di un'architettura musicale che ha pochi eguali anche all'interno della sterminata produzione del salisburghese.
Durante il primo movimento, lo stile già definito della Armellini contribuisce a produrre una forte accentuazione della ritmica interna disegnata da Mozart, seguita con precisione, e si caratterizza per l'imprevista cantabilità. L'orchestra segue l'interprete solo nelle cadenze condivise, dedicandosi invece a disegnare linee di contrappunto ed evitando in tal modo di costringere eccessivamente il solista entro la linea melodica.
Notevolissima anche la nitidezza di tocco del secondo movimento, che questo propriamente richiede, anche per la natura quasi bachiana della stesura compositiva del pianoforte, che aumenterà sensibilmente nel terzo movimento.
Leonora Armellini, a suo agio nei meandri meditativi e sconfinati del Fa diesis minore, entro i quali appronta una tavolozza timbrica e una ricchezza dinamica ancora solo intraviste, si districa abilmente e definitivamente dai brevissimi impacci d'inizio concerto e fa sì che neanche una nota si perda durante l'esecuzione.

I continui richiami tra orchestra e solista non imbrigliano l'arte della giovane ragazza, che sembra in alcuni tratti addirittura "liberarsi" dell'orchestra stessa, tali sono la profondità e l'intimità del brano, quasi cercasse un territorio espressivo fatto di pura solitudine.
Diversamente, nel tumultuoso ma sempre nitidissimo terzo e conclusivo movimento, in forma di "Allegro", strumento e ensemble collaborano gioiosamente a creare un continuo rimbalzo di temi talmente serrato da far sembrare in maggiore l'intera sezione.
La Armellini "espone" il suono del suo pianoforte, lo porta ad un livello di assoluta evidenza e chiarezza, disegnando con precisione le parti più impervie e i tratti cantabili e più raccolti: che si tratti di un talento duttile e aperto a un potenzialmente vasto repertorio, poi, lo conferma la scelta di un Mendelssohn assai toccante e raccolto per il richiestissimo e dovuto bis finale.


Ludvig Van Beethoven

 

 

SECONDO TEMPO
 

Tornano sentori di XX secolo nella lettura dell'Ottava Sinfonia beethoveniana, quasi fosse rimasto in Pesko qualcosa di Ligeti o un semplice sedimento interpretativo novecentista. Ecco allora la rigorosa scansione delicatamente marziale del Secondo Movimento - affidata ai fiati - figlia della passione del genio tedesco per gli esperimenti di Maelzel con il metronomo, e il più generale approccio strutturalista, sintetico e freddo all'apparato sinfonico nel suo complesso, da cui le ampie sottolineature di micro e macrointervalli, responsabili della voluta, quasi ostentata frammentazione del materiale sonoro.
L'iniziale "Allegro vivace e con brio" è perentorio nell'asserire con forza tale natura cronometrica e anche simmetrica della composizione, per via di un inizio e fine di movimento contraddistinti dalla stessa battuta, ma il ticchettio e la regolarità che strutturano in celle spazialmente contigue e fitte lo spazio sonoro, hanno il definitivo sopravvento nel secondo tempo della sinfonia.
Zoltan Pesko procede nell'intento di confermare la meccanicità dell'insieme restituendo all'orchestra una qualità muscolare che non potevamo aver colto in precedenza, ma è chiaro che, nel complesso della serata, al crescendo progressivo di forza e tono non corrisponde un aumento dell'impatto e della profondità sonori. Forse siamo ancora immersi nei perfetti abissi mozartiani.
Ci risolleviamo, comunque, con la coda del lungo finale, pieno di luci contrastate, che il tocco del direttore ungherese rende persino allegro, per quanto concepito da Beethoven, come del resto l'intera Ottava, durante uno dei suoi proverbiali momenti di crisi e depressione.


Wolfgang Amadeus Mozart
 

DETTAGLI