Gyorgy Liget Melodien
Wolfgang Amadeus Mozart Concerto per pianoforte e orchestra n.23 in
la maggiore KV 488
Ludvig Van Beethoven Sinfonia n. 8, op. 93
Direttore: Zoltan Pesko
Pianoforte: Leonora Armellini
Orchestra del Teatro La Fenice
IL "Premio Venezia"
è singolare che in una
promettentissima serata dedicata agli Amici della Fenice e al
"venezianissimo" Zoltan Pesko, già direttore del Teatro dal 1975 al 1978 e
presente molto spesso nelle sue successive stagioni musicali, risplenda di
luce autenticamente propria una nuova, ancora piccola e inaspettata stella:
quella di Leonora Armellini, vincitrice della XXII Edizione del "Premio
Venezia" appena l'anno scorso, grazie al voto delle giurie presiedute da Roman Vlad. Il giovane
talento pianistico nazionale ha solo quattordici (!) anni e ha già
collezionato un'impressionante serie di premi partecipando, sin dall'età
di sei anni, a tutti i più importanti concorsi nazionali di categoria, come
la IX Rassegna Musicale Migliori Diplomati d'Italia nel 2005, e diventando
prestissimo oggetto di attenzione da parte di un attento e variegato
pubblico, che discute già dal lontano 1999 attorno alle qualità della
ragazza.
Diplomata a dodici, possiamo dire che abbia accumulato già ora una notevole
esperienza concertistica, fondamentale per elaborare un saldo rapporto col
pubblico e una completa interazione con orchestra e direttore, di cui ha
dato ampia dimostrazione nell'esecuzione di sabato scorso.
Esperienza garantitale anche dalla eco del
"Premio Venezia", unanimemente
ritenuto il più importante riconoscimento nazionale per giovani speranze del
pianoforte, che prevede, oltre a somme in denaro a mo' di borse studio, la
possibilità di esibirsi in diversi concerti sul nostro territorio.
La tranquillità dimostrata dalla Armellini nell'affrontare le indicibili
profondità e difficoltà interpretative del KV 488 ha dell'incredibile e
conferma la bontà del giudizio formulato, all'epoca, dai giurati del Premio
(quelli dell'edizione 2006, conclusasi il 26 novembre con l'assegnazione
dell'ambito riconoscimento a Vincenzo Maltempo, ventunenne beneventino
diplomato al Conservatorio Santa Cecilia di Roma, giravano in stato di
grazia tra platea e palchi, estasiati per la prova fornita dalla padovana).
L'auspicio è che l'occasione del concerto col vincitore dell'anno
precedente si ripeta nel futuro e che, come pare sia nelle intenzioni della
Sovrintendenza, alcuni pianisti di fama accompagnino i ragazzi durante il
periodo del soggiorno veneziano, attraverso suggerimenti, stages e
incontri di indubbia importanza per la loro formazione.
Leonora Armellini
PRIMO TEMPO
La serata ha dunque avuto il suo clou indiscutibile nella seconda sezione
della prima parte, il Concerto n. 23 KV 488 di W.A. Mozart, che ha messo un
po' in ombra il Beethoven dell'Ottava Sinfonia e lo splendido omaggio del
direttore - da ungherese a ungherese - al Ligeti di Melodien (1971),
accolto con favore da un pubblico preparatissimo, uso a consonanze e
dissonanze, capace di cogliere il crescere melodico all'interno di una
tipica struttura ligetiana apparentemente statica, che è foresta sonora
entro la quale le linee si rincorrono e divincolano l'una dall'altra,
restando peraltro nettamente legate a quel continuum armonico da cui
traggono origine.
Una staticità che, come ha ben reso l'insieme orchestrale diretto da Pesko,
non è altro che il frutto in evoluzione della "micropolifonia" su cui si
basano molte opere del compositore ungherese, un inestricabile intreccio
entro il quale ritmo, armonia e melodia tendono quasi a (con)fondersi, per
poi aprirsi - eventualmente - ad una scrittura maggiormente chiara e
scandita, fatta di trasparenze fugaci.
Zoltan Pesko sfrutta al massimo l'ensemble a disposizione, riuscendo a
trattenere i vari settori dell'orchestra entro una sorta di tensione o
impasse finalizzata a rendere al meglio la ricca e composita tessitura del
colore musicale ligetiano.
Gyorgy Liget
L'impercettibile ma inesorabile crescendo di Melodien, di indicibile
bellezza, porta pochi "temi" - se così si può dire - a sviluppo, o si limita
a concedere l'illusione di una passeggera "evidenza" strumentale e
timbrica a singoli attori sonori (il meraviglioso trombone con la sordina), ma produce, in conclusione, infiniti frutti sul piano della definizione
di ciò che può regalare la caleidoscopica polifonia del compositore
recentemente scomparso.
Dalla "unitemporalità" e "atematicità" di Ligeti, siamo poi ossimoricamente
sprofondati nelle vette del "Concerto n.23", che è tutto un susseguirsi e
moltiplicarsi di piani sonori, sui quali, mirabile, è andata a distendersi
la fresca arte della Armellini: dopo un impercettibile esitare iniziale e
trascurabili indizi di dinamica ancora in fase di definizione, la
giovanissima pianista si è completamente immersa nelle volute di un'architettura musicale che ha pochi eguali anche all'interno della
sterminata produzione del salisburghese.
Durante il primo movimento, lo stile già definito della Armellini
contribuisce a produrre una forte accentuazione della ritmica interna
disegnata da Mozart, seguita con precisione, e si caratterizza per l'imprevista cantabilità. L'orchestra segue l'interprete solo nelle cadenze
condivise, dedicandosi invece a disegnare linee di contrappunto ed evitando
in tal modo di costringere eccessivamente il solista entro la linea
melodica.
Notevolissima anche la nitidezza di tocco del secondo movimento, che questo
propriamente richiede, anche per la natura quasi bachiana della stesura
compositiva del pianoforte, che aumenterà sensibilmente nel terzo movimento.
Leonora Armellini, a suo agio nei meandri meditativi e sconfinati del Fa
diesis minore, entro i quali appronta una tavolozza timbrica e una ricchezza
dinamica ancora solo intraviste, si districa abilmente e definitivamente dai
brevissimi impacci d'inizio concerto e fa sì che neanche una nota si perda
durante l'esecuzione.
I continui richiami tra orchestra e solista non imbrigliano l'arte della
giovane ragazza, che sembra in alcuni tratti addirittura "liberarsi" dell'orchestra stessa, tali sono la profondità e l'intimità del brano, quasi
cercasse un territorio espressivo fatto di pura solitudine.
Diversamente, nel tumultuoso ma sempre nitidissimo terzo e conclusivo
movimento, in forma di "Allegro", strumento e ensemble collaborano
gioiosamente a creare un continuo rimbalzo di temi talmente serrato da far
sembrare in maggiore l'intera sezione.
La Armellini "espone" il suono del suo pianoforte, lo porta ad un livello di
assoluta evidenza e chiarezza, disegnando con precisione le parti più
impervie e i tratti cantabili e più raccolti: che si tratti di un talento
duttile e aperto a un potenzialmente vasto repertorio, poi, lo conferma la
scelta di un Mendelssohn assai toccante e raccolto per il richiestissimo e
dovuto bis finale.
Ludvig Van Beethoven
SECONDO TEMPO
Tornano sentori di XX secolo nella lettura dell'Ottava Sinfonia beethoveniana, quasi fosse rimasto in Pesko qualcosa di Ligeti o un semplice
sedimento interpretativo novecentista. Ecco allora la rigorosa scansione
delicatamente marziale del Secondo Movimento - affidata ai fiati - figlia
della passione del genio tedesco per gli esperimenti di Maelzel con il
metronomo, e il più generale approccio strutturalista, sintetico e
freddo all'apparato sinfonico nel suo complesso, da cui le ampie
sottolineature di micro e macrointervalli, responsabili della voluta, quasi
ostentata frammentazione del materiale sonoro.
L'iniziale "Allegro vivace e con brio" è perentorio nell'asserire con
forza tale natura cronometrica e anche simmetrica della composizione, per
via di un inizio e fine di movimento contraddistinti dalla stessa battuta,
ma il ticchettio e la regolarità che strutturano in celle spazialmente
contigue e fitte lo spazio sonoro, hanno il definitivo sopravvento nel
secondo tempo della sinfonia.
Zoltan Pesko procede nell'intento di confermare la meccanicità dell'insieme restituendo all'orchestra una qualità
muscolare che non potevamo
aver colto in precedenza, ma è chiaro che, nel complesso della serata, al
crescendo progressivo di forza e tono non corrisponde un aumento dell'impatto e della profondità sonori. Forse siamo ancora immersi nei perfetti
abissi mozartiani.
Ci risolleviamo, comunque, con la coda del lungo finale, pieno di luci
contrastate, che il tocco del direttore ungherese rende persino allegro, per
quanto concepito da Beethoven, come del resto l'intera Ottava, durante uno
dei suoi proverbiali momenti di crisi e depressione.
Wolfgang Amadeus Mozart
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