VIII FAR EAST FESTIVAL
21-29/04/2006

UDINE

di Taryn Nurchis

Incontro del 22 aprile 06 con Takashi Miike, in occasione della presentazione del volume a lui dedicato dal titolo "Anime Perdute. Il cinema di Takashi Miike", a cura di Dario Tomasi con Stefano Boni e Associazione neo(N)eiga, ed. Il Castoro/Museo del Cinema di Torino

T.M. - Nella vita il rapporto padre-figlio è molto importante; io non sono stato proprio un buon figlio per i miei genitori ma finalmente potrò andare da loro e dire “Guardate che in Italia hanno scritto un libro su di me!”. Sicuramente mia madre mi chiederà come mai in Italia, ma probabilmente questa è una cosa che non può capire se non vede i miei film, e io non glieli ho mai consigliati, anzi, proprio poco tempo fa, al telefono m’ha detto “Ah! Ho sentito che hai fatto un nuovo film…?” riferendosi ad Imprint, e io le ho detto “Chi… io? No no…”. Quando tornerò in Giappone porterò questo libro, lo leggerò, e penso che potrò imparare moltissime cose su me stesso; io però ho piccolo problema, con l’italiano parto da zero, quindi probabilmente per capirlo tutto ci vorranno parecchi anni, voi però cercate di vedere questo mio impegno come il segno di ringraziamento per averlo scritto.
In Giappone quando si muore i corpi vengono bruciati assieme alle cose considerate importanti, e quando toccherà a me, questo libro sarà sicuramente tra le cose che mi porterò dietro.

Una delle caratteristiche dei suoi film è il lato disturbante e violento. Lei però ironizza molto su questo aspetto: ieri alla presentazione di Imprint ha detto al pubblico di cercare di arrivare fino alla fine, prendendola come una sfida; e anche adesso dice che non lo consiglia a sua madre e ci scherza molto su. Inoltre ieri durante la proiezione del film sembrava piuttosto divertito sia dal feedback del pubblico sia dalla visione stessa del film. Come si pone dunque rispetto a queste caratteristiche che sono diventate gli stilemi della sua cinematografia?

T.M. - È sicuramente vero che molti pensano che io faccia film violenti per il gusto di farli, ma personalmente non la penso affatto così, anzi, io non faccio i film pensando a quello che potrà succedere al di là dello schermo ma semplicemente mi esprimo nel modo che mi viene più naturale; anche la violenza è istintiva quindi la metto in scena in quanto tale. Personalmente non penso che i miei film siano particolarmente violenti, anche se non mi permetterei mai di negare quello che dicono gli altri. In Imprint in particolare ci sono delle scene di tortura; secondo me sono delle cose che possono veramente succedere, quindi io non ho fatto altro che riprendere fatti che possono veramente esistere nella realtà. Dal mio punto di vista trovo anche che sia una questione di sincerità, mettere in scena in maniera trasparente quello che può veramente accadere.

Quest’anno l’abbiamo visto in un cameo nel film Hostel. Il film l’è piaciuto o lei l’avrebbe fatto in un modo differente?

T.M. - In Giappone non è ancora stato distribuito quindi non ho ancora visto la versione definitiva del film. Quando sono andato a Praga per le riprese il regista mi ha mostrato il girato e alcune scene ed ho avuto un po’ di dubbi sul film che ne sarebbe potuto venir fuori, ma allo stesso tempo, ho visto l’entusiasmo dell’autore e sono ansioso di vedere il film finito.

Al Far East si sono ospitati diversi suo film tra cui Ichi the killer e Imprint, ma anche un film un po’ diverso dai suoi soliti, che è Shangri-la. Può dire una parola anche su questo film?

T.M. - Shangri-la è un film che mi piace molto; è un film molto diverso dagli altri film che ho fatto, non è per niente violento ed è un dramma sull’economia, o meglio sulla contrapposizione tra quelli che hanno i soldi e quelli che non ce li hanno. Io non amo fare film sempre dello stesso genere, preferisco magari fare una cosa e la volta dopo andare da un’altra parte, fare qualcosa di diverso, perché in questo modo penso che si possa fare di più. Ovvero, una volta che si va da un’altra parte e poi si ritorna, si va un po’ più lontano, e poi ancora un po’ più lontano, e così via. Quindi, nonostante molti dicano che questo non è un film alla Miike, io penso non solo che sia molto bello ma che sia anche stato fondamentale per il mio percorso registico.

Ci può dare qualche anticipazione sui suoi progetti futuri?

T.M. - Ho molti progetti che sto seguendo, ma ce n’è uno in particolare al quale tengo di più; è una cosa che ho in mente da molti anni ma che quando proponevo ad un produttore non veniva mai accolta; mi sentivo dire “Buona fortuna… sarebbe bello se riuscissi fare una cosa del genere…”. Per fortuna adesso ho trovato qualcuno che sembra darmi ascolto e quindi mi metterò d’impegno per fare realizzare finalmente questo film che sarà uno spaghetti western in Giappone. La generazione di mio padre amava lo spaghetti-western e io stesso, da piccolo ne ho visti e sono stato influenzato culturalmente dai personaggi e dagli eroi di questi film. A questo punto quindi vorrei provare ad ambientarne uno in Giappone e spero per l’anno prossimo di averlo finito.

Ho notato che lei utilizza sia musiche composte ad hoc, come nel caso del prologo del primo Dead or Alive, sia musiche di repertorio preesistenti come nel caso dei Black Sabbath che sentiamo nel prologo di Deadly out of rekka. Nel suo cinema, a livello espressivo, quale funzione ha la musica?

T.M. - Il musicista con cui collaboro da anni si chiama Endo Kogi ed è un musicista che io amo molto, al di là delle musiche che lui crea per i miei film, andiamo molto d’accordo. Le musiche originali quindi sono quasi sempre curate da lui. Io gli sottopongo una scena e lui partendo dalla scena compone la musica; molto volte mi è capitato addirittura di pensare che le sue musiche davano un significato ulteriore alle immagini. Per quanto riguarda invece le musiche non originali, mi capita spesso, sia con la musica straniera che con quella giapponese, di sentire una canzone, rimanerne colpito, e volerla tradurre in immagini. In base quindi ad una certa sensazione costruisco l’inquadratura. Si tratta perciò di un rapporto che va in due direzioni differenti: da un lato la musica nasce dall’immagine, dall’altro l’immagine nasce dalla musica.

Inizialmente il cinema di Miike mi è sembrato molto cupo, estremo, senza speranza. In seguito invece ho trovato questa etichetta inadeguata, stretta, in quanto il suo cinema è anche un cinema politico e soprattutto umanista, non solo in Shangri-la ma anche in Gozu o Ichi the killer

T.M. - Da quando faccio parte del mondo del cinema mi sono sempre chiesto se fosse giusto oppure no esprimere un punto di vista politico, o un certo messaggio, in un film; poiché io non sono un politico. Ancora adesso ho questo dubbio. Certo è che per fare un film bisogna scegliere un argomento, e su quell’argomento un regista ha un proprio punto di vista. Personalmente però penso che sia più bello se il significato di un film venga fuori spontaneamente, senza avere la coscienza di riferire un messaggio specifico. Questo non vuol dire che quando giro un film non penso mai a quello che voglio dire. Inizialmente decido di andare in una certa direzione ma poi, man mano che proseguo con le riprese me ne dimentico e lascio che sia il mio essere a prendere il sopravvento. Quindi alla fine, al termine della lavorazione, quando il film è completo, molto spesso non ricordo più quello che volevo dire…. è andato perduto, però, d’altra parte è venuto fuori qualcosa di nuovo che sicuramente fa parte di me.

Anche il volume che abbiamo scritto, sia nel titolo che nell’immagine di copertina, non rappresenta il lato più violento e più eclatante del cinema di Miike ma quello più umanista e poetico. Del resto penso che la violenza del suo cinema non stia tanto nel taglio della lingua in Ichi the killer, quanto piuttosto nei lividi sui volti dei bambini di Shiuada…., il film che amo di più tra quelli da lei girati. Vuole dirci qualcosa sul rapporto tra violenza e bambini?

T.M. - Anche per me questo film è molto importante ed è uno tra quelli che amo di più perché è la storia di un ragazzino della mia generazione nella città dove sono nato; ed è quindi una storia molto personale, è proprio una mia immagine. Con questo film mi sono reso conto che noi abbiamo il diritto di ritrarre noi stessi e quindi da questo punto di vista sono molto contento che anche tu lo apprezzi.
La violenza è molte cose, può essere la paura di venir feriti, o la passione per la forza; ciascuno di questi aspetti può dar vita ad episodi di violenza diversi. Personalmente mi piace inserire nel film non tanto gli elementi principali quanto i personaggi o le storie secondari. Questo perché se c’è un personaggio secondario che sappiamo il protagonista non incontrerà più, quando il protagonista lo picchia, noi prendiamo le parti del personaggio che viene picchiato, spronandolo a non demordere. In questo modo il personaggio secondario assume importanza. Questa è una cosa che io posso fare come regista, è una sorta di potere che io ho. In questo modo quando due persone sul set si picchiano deve esserci tra loro una relazione di estrema fiducia perché devono stare attenti a non farsi del male. In questo senso anche la violenza diventa espressione di un sentimento molto forte che unisce delle persone. Questo sentimento emerge solo durante le riprese però, non durante la sceneggiatura, perché nella sceneggiatura non ci sono scene di violenza. In Imprint ad esempio c’era solo scritto “una donna viene torturata”, e da lì poi è venuto fuori tutto quello che si è visto.

Si è detto che Imprint può essere letto come una denuncia della falsità dell’esportazione della democrazia. La scelta del protagonista americano è stata fatta per motivi di committenza, come pretesto per questa denuncia, oppure per un scelta sua?

T.M. - Nell’opera da cui è tratto il film il protagonista era giapponese, però, essendo la produzione americana e visto che doveva essere parlato tutto in inglese, ho pensato di scegliere, e anche la produzione mi ha incitato a farlo, un protagonista americano che potesse anche parlare bene l’inglese. Dal punto di vista politico si potrebbe vedere questa persona come una persona che è stata espulsa dalla politica americana e quindi viaggia da solo per il Giappone in cerca di nuovi valori. Con questo però non voglio dire che se qualcuno viene espulso dall’America e arriva in Giappone gli succedono tutte queste cose tremende…

I film di genere poliziesco e horror che vanno di moda soprattutto nel mondo occidentale sono pieni di citazioni. Nei suoi film c’è un’estetica della violenza che trascende la volgarità della violenza fine a se stessa, ma soprattutto c’è una cosa completamente nuova: la mancanza di punti di riferimento ad opere precedenti. Quali sono dunque dal punto di vista registico e cinematografico i suoi modelli?

T.M. - Ho lavorato per molti anni come aiuto-regista. Ho lavorato come assistente del regista Inoue Umetsugu che è anche lui qui quest’anno, ho lavorato in moltissimi film televisivi, e da ogni esperienza ho imparato delle cose. Ma non ho imparato come dev’essere un film; piuttosto, vedendo che ciascun regista aveva un modo diverso per fare un film, ho capito che non c’era una regola per fare film, ma che ciascuno deve trovare il proprio modo di girare, in modo tale che il film sarà veramente unico; sarà un film che nessuno può fare se non tu, e sarà anche l’unico tipo di film che tu riesci a fare. Da questo punto di vista dunque tutti quelli con cui ho lavorato alla regia mi hanno influenzato, ma non sono dei miei modelli, perché non imito il loro modo di fare film, piuttosto ho adottato il loro atteggiamento, il loro relazionarsi al fare un film.