Incontro del 22 aprile 06 con Takashi Miike, in occasione della
presentazione del volume a lui dedicato dal titolo "Anime Perdute. Il cinema
di Takashi Miike", a cura di Dario Tomasi con Stefano Boni e Associazione
neo(N)eiga, ed. Il Castoro/Museo del Cinema di Torino
 T.M. -
Nella vita il rapporto padre-figlio è molto importante; io non sono stato
proprio un buon figlio per i miei genitori ma finalmente potrò andare da
loro e dire “Guardate che in Italia hanno scritto un libro su di me!”.
Sicuramente mia madre mi chiederà come mai in Italia, ma probabilmente
questa è una cosa che non può capire se non vede i miei film, e io non
glieli ho mai consigliati, anzi, proprio poco tempo fa, al telefono m’ha
detto “Ah! Ho sentito che hai fatto un nuovo film…?” riferendosi ad
Imprint, e io le ho detto
“Chi… io? No no…”. Quando tornerò in Giappone porterò questo libro, lo
leggerò, e penso che potrò imparare moltissime cose su me stesso; io però ho
piccolo problema, con l’italiano parto da zero, quindi probabilmente per
capirlo tutto ci vorranno parecchi anni, voi però cercate di vedere questo
mio impegno come il segno di ringraziamento per averlo scritto.
In Giappone quando si muore i corpi vengono bruciati assieme alle cose
considerate importanti, e quando toccherà a me, questo libro sarà
sicuramente tra le cose che mi porterò dietro.
Una delle caratteristiche dei suoi film è il lato disturbante e violento.
Lei però ironizza molto su questo aspetto: ieri alla presentazione di
Imprint ha detto al
pubblico di cercare di arrivare fino alla fine, prendendola come una sfida;
e anche adesso dice che non lo consiglia a sua madre e ci scherza molto su.
Inoltre ieri durante la proiezione del film sembrava piuttosto divertito sia
dal feedback del pubblico sia dalla visione stessa del film. Come si pone
dunque rispetto a queste caratteristiche che sono diventate gli stilemi
della sua cinematografia?
T.M. - È sicuramente vero che molti pensano che io faccia film violenti per
il gusto di farli, ma personalmente non la penso affatto così, anzi, io non
faccio i film pensando a quello che potrà succedere al di là dello schermo
ma semplicemente mi esprimo nel modo che mi viene più naturale; anche la
violenza è istintiva quindi la metto in scena in quanto tale. Personalmente
non penso che i miei film siano particolarmente violenti, anche se non mi
permetterei mai di negare quello che dicono gli altri. In Imprint in
particolare ci sono delle scene di tortura; secondo me sono delle cose che
possono veramente succedere, quindi io non ho fatto altro che riprendere
fatti che possono veramente esistere nella realtà. Dal mio punto di vista
trovo anche che sia una questione di sincerità, mettere in scena in maniera
trasparente quello che può veramente accadere.
Quest’anno l’abbiamo visto in un cameo nel film
Hostel. Il film l’è piaciuto
o lei l’avrebbe fatto in un modo differente?
T.M. - In Giappone non è ancora stato distribuito quindi non ho ancora visto
la versione definitiva del film. Quando sono andato a Praga per le riprese
il regista mi ha mostrato il girato e alcune scene ed ho avuto un po’ di
dubbi sul film che ne sarebbe potuto venir fuori, ma allo stesso tempo, ho
visto l’entusiasmo dell’autore e sono ansioso di vedere il film finito.
Al Far East si sono ospitati diversi suo film tra cui
Ichi the killer e
Imprint, ma anche un film un
po’ diverso dai suoi soliti, che è
Shangri-la. Può dire una parola anche su questo film?
T.M. - Shangri-la è un
film che mi piace molto; è un film molto diverso dagli altri film che ho
fatto, non è per niente violento ed è un dramma sull’economia, o meglio
sulla contrapposizione tra quelli che hanno i soldi e quelli che non ce li
hanno. Io non amo fare film sempre dello stesso genere, preferisco magari
fare una cosa e la volta dopo andare da un’altra parte, fare qualcosa di
diverso, perché in questo modo penso che si possa fare di più. Ovvero, una
volta che si va da un’altra parte e poi si ritorna, si va un po’ più
lontano, e poi ancora un po’ più lontano, e così via. Quindi, nonostante
molti dicano che questo non è un film alla Miike, io penso non solo che sia
molto bello ma che sia anche stato fondamentale per il mio percorso
registico.
Ci può dare qualche anticipazione sui suoi progetti futuri?
T.M. - Ho molti progetti che sto seguendo, ma ce n’è uno in particolare al
quale tengo di più; è una cosa che ho in mente da molti anni ma che quando
proponevo ad un produttore non veniva mai accolta; mi sentivo dire “Buona
fortuna… sarebbe bello se riuscissi fare una cosa del genere…”. Per fortuna
adesso ho trovato qualcuno che sembra darmi ascolto e quindi mi metterò
d’impegno per fare realizzare finalmente questo film che sarà uno spaghetti
western in Giappone. La generazione di mio padre amava lo spaghetti-western
e io stesso, da piccolo ne ho visti e sono stato influenzato culturalmente
dai personaggi e dagli eroi di questi film. A questo punto quindi vorrei
provare ad ambientarne uno in Giappone e spero per l’anno prossimo di averlo
finito.
Ho notato che lei utilizza sia musiche composte ad hoc, come nel caso del
prologo del primo Dead or Alive,
sia musiche di repertorio preesistenti come nel caso dei Black Sabbath che
sentiamo nel prologo di Deadly out
of rekka. Nel suo cinema, a livello espressivo, quale funzione ha la
musica?
T.M. - Il musicista con cui collaboro da anni si chiama Endo Kogi ed è un
musicista che io amo molto, al di là delle musiche che lui crea per i miei
film, andiamo molto d’accordo. Le musiche originali quindi sono quasi sempre
curate da lui. Io gli sottopongo una scena e lui partendo dalla scena
compone la musica; molto volte mi è capitato addirittura di pensare che le
sue musiche davano un significato ulteriore alle immagini. Per quanto
riguarda invece le musiche non originali, mi capita spesso, sia con la
musica straniera che con quella giapponese, di sentire una canzone,
rimanerne colpito, e volerla tradurre in immagini. In base quindi ad una
certa sensazione costruisco l’inquadratura. Si tratta perciò di un rapporto
che va in due direzioni differenti: da un lato la musica nasce
dall’immagine, dall’altro l’immagine nasce dalla musica.
Inizialmente il cinema di Miike mi è sembrato molto cupo, estremo, senza
speranza. In seguito invece ho trovato questa etichetta inadeguata, stretta,
in quanto il suo cinema è anche un cinema politico e soprattutto umanista,
non solo in Shangri-la ma
anche in Gozu o
Ichi the killer…
T.M. - Da quando faccio parte del mondo del cinema mi sono sempre chiesto se
fosse giusto oppure no esprimere un punto di vista politico, o un certo
messaggio, in un film; poiché io non sono un politico. Ancora adesso ho
questo dubbio. Certo è che per fare un film bisogna scegliere un argomento,
e su quell’argomento un regista ha un proprio punto di vista. Personalmente
però penso che sia più bello se il significato di un film venga fuori
spontaneamente, senza avere la coscienza di riferire un messaggio specifico.
Questo non vuol dire che quando giro un film non penso mai a quello che
voglio dire. Inizialmente decido di andare in una certa direzione ma poi,
man mano che proseguo con le riprese me ne dimentico e lascio che sia il mio
essere a prendere il sopravvento. Quindi alla fine, al termine della
lavorazione, quando il film è completo, molto spesso non ricordo più quello
che volevo dire…. è andato perduto, però, d’altra parte è venuto fuori
qualcosa di nuovo che sicuramente fa parte di me.
Anche il volume che abbiamo scritto, sia nel titolo che nell’immagine di
copertina, non rappresenta il lato più violento e più eclatante del cinema
di Miike ma quello più umanista e poetico. Del resto penso che la violenza
del suo cinema non stia tanto nel taglio della lingua in Ichi the killer,
quanto piuttosto nei lividi sui volti dei bambini di Shiuada…., il film che
amo di più tra quelli da lei girati. Vuole dirci qualcosa sul rapporto tra
violenza e bambini?
T.M. - Anche per me questo film è molto importante ed è uno tra quelli che
amo di più perché è la storia di un ragazzino della mia generazione nella
città dove sono nato; ed è quindi una storia molto personale, è proprio una
mia immagine. Con questo film mi sono reso conto che noi abbiamo il diritto
di ritrarre noi stessi e quindi da questo punto di vista sono molto contento
che anche tu lo apprezzi.
La violenza è molte cose, può essere la paura di venir feriti, o la passione
per la forza; ciascuno di questi aspetti può dar vita ad episodi di violenza
diversi. Personalmente mi piace inserire nel film non tanto gli elementi
principali quanto i personaggi o le storie secondari. Questo perché se c’è
un personaggio secondario che sappiamo il protagonista non incontrerà più,
quando il protagonista lo picchia, noi prendiamo le parti del personaggio
che viene picchiato, spronandolo a non demordere. In questo modo il
personaggio secondario assume importanza. Questa è una cosa che io posso
fare come regista, è una sorta di potere che io ho. In questo modo quando
due persone sul set si picchiano deve esserci tra loro una relazione di
estrema fiducia perché devono stare attenti a non farsi del male. In questo
senso anche la violenza diventa espressione di un sentimento molto forte che
unisce delle persone. Questo sentimento emerge solo durante le riprese però,
non durante la sceneggiatura, perché nella sceneggiatura non ci sono scene
di violenza. In Imprint ad esempio c’era solo scritto “una donna viene
torturata”, e da lì poi è venuto fuori tutto quello che si è visto.
Si è detto che Imprint può
essere letto come una denuncia della falsità dell’esportazione della
democrazia. La scelta del protagonista americano è stata fatta per motivi di
committenza, come pretesto per questa denuncia, oppure per un scelta sua?
T.M. - Nell’opera da cui è tratto il film il protagonista era giapponese,
però, essendo la produzione americana e visto che doveva essere parlato
tutto in inglese, ho pensato di scegliere, e anche la produzione mi ha
incitato a farlo, un protagonista americano che potesse anche parlare bene
l’inglese. Dal punto di vista politico si potrebbe vedere questa persona
come una persona che è stata espulsa dalla politica americana e quindi
viaggia da solo per il Giappone in cerca di nuovi valori. Con questo però
non voglio dire che se qualcuno viene espulso dall’America e arriva in
Giappone gli succedono tutte queste cose tremende…
I film di genere poliziesco e horror che vanno di moda soprattutto nel
mondo occidentale sono pieni di citazioni. Nei suoi film c’è un’estetica
della violenza che trascende la volgarità della violenza fine a se stessa,
ma soprattutto c’è una cosa completamente nuova: la mancanza di punti di
riferimento ad opere precedenti. Quali sono dunque dal punto di vista
registico e cinematografico i suoi modelli?
T.M. - Ho lavorato per molti anni come aiuto-regista. Ho lavorato come
assistente del regista Inoue Umetsugu che è anche lui qui quest’anno, ho
lavorato in moltissimi film televisivi, e da ogni esperienza ho imparato
delle cose. Ma non ho imparato come dev’essere un film; piuttosto, vedendo
che ciascun regista aveva un modo diverso per fare un film, ho capito che
non c’era una regola per fare film, ma che ciascuno deve trovare il proprio
modo di girare, in modo tale che il film sarà veramente unico; sarà un film
che nessuno può fare se non tu, e sarà anche l’unico tipo di film che tu
riesci a fare. Da questo punto di vista dunque tutti quelli con cui ho
lavorato alla regia mi hanno influenzato, ma non sono dei miei modelli,
perché non imito il loro modo di fare film, piuttosto ho adottato il loro
atteggiamento, il loro relazionarsi al fare un film.

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