12.mo
far east film festival
recensioni
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> Dream Home di Pang Ho-cheung > The Bugs Detective di Sato Sakichi > Sophie's Revenge di Eva Jin > Fire of Conscience di Dante Lam |
Dream Home
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28/30 |
La negazione coatta del proprio sogno, la mutilazione inevitabile del desiderio e lo sbarramento di ogni possibilità di concretizzazione del proprio obiettivo, guastano gli umani propositi di Cheng Lai-sheung (Josie Ho) protagonista dell'attesissimo, violento e impietoso, Dream Home. Il film di Pang Ho-cheung, giovane e affermato regista di Hong Kong, ospite fisso del Far East Film Festival dal suo primo You shoot, I shoot (2001), è tutt'altro che un semplice e scontato slasher movie. La prerogativa dell'ultraviolenza, della violenza fine a se stessa spesso gratuita e grossolana, eccessiva e dozzinale nella sua rappresentazione, solitamente confacente alla produzione cinematografica di serie B, viene abilmente sublimata dall'eleganza estrema e inusuale in questi termini con cui il regista firma la pellicola e dalla validità del sottotesto chiaramente improntato su ragioni di denuncia sociale e politica. Cheng nasce e cresce in uno dei quartieri anonimi e sovraffollati di Hong Kong. Sin da bambina il suo sguardo, come quello della sua famiglia, agognante le straordinarie vedute di Victoria Bay, è costretto invece a rimanere schiavo dell'impotenza e delle ristrettezze economiche. I numerosi e volutamente disordinati flashback ci riportano direttamente agli anni Novanta, all'infanzia della nostra protagonista e agli abusivi e prepotenti interventi di riqualificazione immobiliare e ai mali sociali conseguenti, che tutta la comunità del posto è obbligata a subire. Spinta inizialmente da un forte senso di responsabilità nei confronti del padre malato e dalle tacite lamentele dei suoi familiari, Cheung comincia a darsi da fare e ad abbracciare più lavori contemporaneamente, con lo scopo di accumulare il necessario utile a comprare un costoso appartamento con vista sul porto, in un moderno complesso residenziale dei quartieri alti. Il suo desiderio, profondamente radicato e morbosamente covato, stridendo per evidenti incompatibilità con la struttura sociale da un lato e le scarse possibilità economiche dall'altro, si trasforma presto in disagio del non possesso, in vera e propria ossessione. La presenza e la reiterazione dell'elemento ossessivo vengono suggerite da Pang già nei titoli di testa, quando compaiono e si avvicendano profili di palazzi anonimi e opprimenti. Cheung, all'apparenza una tranquilla onesta e indefessa lavoratrice, nasconde in realtà una brutale vocazione assassina che la porterà a compiere, con indifferenza e anonima spietatezza, atroci delitti, sfogando la propria efferatezza sui residenti ed eventuali sfortunati visitatori del famoso palazzo da lei agognato. L'atmosfera sinistra, che abiterà l'intera pellicola, si stabilisce fin dai primi fotogrammi, che raccontano il terribile assassinio della guardia di sicurezza dell'elegante condominio. Gli omicidi, da lì in poi, proseguono ai piani superiori con crescente crudeltà e incontrollabile freddezza: la camera da presa non risparmia neanche i particolari della struggente agonia di una donna incinta; in assoluto la scena meno sopportabile dell'intero film. Il registro stilistico eccessivo, utilizzato da Pang Ho-cheung, e l'insistenza nella rappresentazione della violenza non sono però mero gioco visivo, puro diletto. La violenza, in questo caso senza limiti né censure (in realtà il film, a Hong Kong, non ha ancora raggiunto le sale poiché bloccato dalla censura) è una chiara metafora drammatica, quasi una catarsi necessaria. è anche l'approdo ultimo di una mente prima lucida e testarda ora malata, di un desiderio incancrenito ormai corrotto. è una vivida descrizione della psicopatia del soggetto frustrato: l'esplosione dell'aggressività di Cheung è direttamente legata all'impossibilità di concretizzare il rapporto con l'oggetto bramato; nasce come gratificazione immediata sostitutiva e per tanto si propone gelida, meccanica. La violenza di Cheung manca di rimorso, di qualsiasi minimo segno di empatia nei confronti delle vittime, è pura alienazione. è il risultato, appunto, di un sogno incubato e marcio. Ma la violenza, assolutamente realistica, non si limita al solo livello visivo,coinvolge in toto lo spettatore obbligandolo si, alla fruizione coatta di immagini raccapriccianti, ma spingendolo a riflettere sui motivi sociali e politici, alla base di tutto. Si leggono tra le righe i riferimenti alla crisi finanziaria del paese del 2007: allo sviluppo immobiliare ipertrofico, l'aumento dei prezzi e il blocco degli stipendi, con conseguente crisi del ceto medio-basso. D'altronde Pang non è nuovo alle tematiche sociali, affrontate sullo schermo sin dall'esordio, intervallate da black comedy (e anche Dream Home in alcune scene conserva lo spirito dell'umorismo macabro) e opere drammatiche. Costruito assieme a Yu Lik-wai, storico direttore della fotografia, e all'italiano Gabriele Roberto, che ne ha curato le musiche Dream Home, figlio di un cinema radicale e anche abbastanza inusuale nella cinematografia hongkonghese, risulta un film scrupolosamente costruito e tutt'altro che banale nel suo essere orrorifico. Nel suo genere: originale. Unico suggerimento (mosso dallo stesso Pang): vedere il film a stomaco rigorosamente vuoto. |
di Sato Sakichi Giappone 2010, 90'
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21/30 |
Aikawa Sho, attore nipponico duro e
imperturbabile protagonista di film polizieschi e d'azione destinati quasi
esclusivamente all'home video, per una curiosa e poco clemente legge del
contrappasso, interpreta stavolta uno stravagante detective, Yoshida
Yoshimi, dotato di un talento unico e impressionante: parlare con gli
insetti. |
di Eva Jin Cina/Corea del Sud 2009, 100'
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24/30 |
Eccentrico e colorato,
Sophie's Revenge, nuovo film
dell'effervescente ed eclettica Eva Jin, già vignettista e musicista pop,
inaugura garbatamente la dodicesima edizione del Far East Film Festival. |
di Dante Lam Hong Kong 2010, 106'
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26/30 |
Gli straordinari fotogrammi d'apertura di Fire of Conscience, intensi fermo immagine resi elegantemente originali grazie all'intervento della computer grafica e da una sapiente fotografia, anticipano e descrivono il senso di indeterminatezza e di umano turbamento che caratterizzerà le sorti e i pensieri dei personaggi in scena. Il limbo visivo raccontato nell'incipit della nuova pellicola di Dante Lam, reduce dal successo di The Beast Stalker (2008), costoso thriller high-concept, fa da sfondo all'intreccio di corruzione e morte, tra chiassosi inseguimenti e truci sparatorie, che vedrà impegnati agenti in borghese dalla dubbia moralità. Manfred (Leon Lai) è un poliziotto sciatto e all'apparenza indisponente, in lutto per la morte della moglie incinta e con una vendetta da compiere per castigarne gli assassini. Vive sulla sua auto e non ha più nulla da perdere. Rimane però fedele al suo ruolo e decide di indagare sull'omicidio di una prostituta e su una serie di incongruenze che l'evento porterà alla luce e che coinvolgeranno anche i suoi più intimi collaboratori. Nel dispendioso gioco di pedinamenti e intricate investigazioni, Manfred sarà affiancato da Kee, agente dall'aspetto elegante e composto, in realtà arrogantemente ambizioso e, come si vedrà, profondamente corrotto. La forzata cooperazione tra i due, individui antitetici per caratteristiche e scopi, diventerà dura lotta, una vera e propria caccia quando si scopriranno i misfatti di Kee. Il ritmo incalzante e sostenuto del film, decisamente adrenalinico, e la veloce struttura dell'azione (con accenni ai classici del genere) s'incastrano però, stridendo, con un intreccio stratificato e complesso forse non sempre facilmente intelligibile, a discapito di una piena e convincente riuscita. Ma l'intenzione di fondo di questo, comunque brillante, poliziesco/noir di Lam, scritto a quattro mani con Jack Ng, è in ogni caso meritevole di approfondimento. Evocando un'antica leggenda hongkonghese, che lo spirito delle feste tradizionali cinesi commemorano (come nel finale), secondo la quale per sconfiggere un'epidemia di peste si è dovuti ricorrere ad un drago di fuoco, gli autori accennano implicitamente al fuoco che risiede dentro ognuno di noi e che è impossibile da estinguere, alla pari dei nostri più infimi e corrotti pensieri. Non esiste più nell'uomo moderno, la cui coscienza è minata dall'indecidibilità etica, possibilità di discernere totalmente il Bene dal Male. Esiste solo, in ciascuno di noi, come Kee ricorda nell'ultima sequenza a Manfred, un'ambigua commistione per cui, rifiutando ogni scontato lieto fine, “i prossimi (a sbagliare o morire) potremmo essere noi...”. |
12.mo
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