Potremmo riassumere così il senso del film: dall'affabulazione delle
donne-madri, intente ad arrangiarsi nella vita, dalla loro "creatività"
(fuori e dentro metafora), nascono la finzione, l'arte, il teatro. Per
Almodovar, l'immagine di un gruppo di donne che parlano simboleggia
l'origine della vita, ma suggerisce anche l'idea della necessità sociale di
fingere ( come la protagonista di CENTRAL DO BRASIL) e, dunque, della
narrazione.
Manuela, abbandonata dal marito che ha cambiato sesso, perde Esteban, il
figlio, investito mentre rincorre l'autografo di una diva del teatro (Huma/Marisa
Paredes) all'uscita di UN TRAM CHIAMATO DESIDERIO. Lei lo vede e, con lo
sguardo, battezza il sacrificio del giovane, che ambiva a farsi scrittore
per cogliere l'illuminazione dell'atto creativo (ne parlava con la madre,
Cecilia Roth, in una scena iniziale, mentre guardano in tv EVA CONTRO EVA).
Lei parte per Barcellona alla ricerca di Lola (il suo ex). Le capita,
invece, di lasciarsi trascinare dal CIRCOLO VITALE DELLE MORTI E DELLE
NASCITE, incontrando, di seguito: Agrado, travestito perennemente in amore;
Rosa, suora sieropositiva e incinta "di" Lola; Huma, che ogni giorno, nei
panni della Blanche di Tennessee Williams, copre le lampadine per impedire
la vista troppo netta di una realtà povera di sogno. Sembra la sinossi di
una delle pellicole punk degli esordi survoltati in stile PEPI, LUCI, BOM E
LE ALTRE. Ma siamo in altri territori… Manuela convince Agrado a recitare
con lei la pièce teatrale, procedendo di affabulazione in affabulazione. Non
c'è soluzione di continuità tra vita e teatro: quest'ultimo è finzione e
rivelazione della prima. Better than life, piuttosto che "bigger". E il film
entra ed esce dalle nostre stesse vite con la semplice verità di un cinema
(contemporaneo e già "classico"), che è palestra dell'anima e dialoga a
distanza con i capolavori degli anni '50 - il già citato ALL ABOUT EVE, del
1951, sul doppio arte/vita, con l'adorata Bette Davis e Anne Baxter - quasi
a voler costruire una grandiosa "telenovela" senza tempo, che attraversa
stili e concezioni. Siamo all'interno di un melodramma controllato, nel film
di un Fassbinder mediterraneo, che ha brevi momenti di commedia quando poche
battute descrivono l'improbabilità (subito metabolizzata) dei personaggi,
descritti come "persone credibili, più che come parodiche figure di un
teatro immaginario".
Il registro tragico è, invece, trattenuto fuori scena, grazie ad ellissi
narrative qui perfettamente giustificate dal fine. Le morti di Esteban,
Rosa, Lola sono "necessità" atte ad innescare il meccanismo del racconto.
Ogni figura lavora esclusivamente per il senso complessivo, a differenza di
altre "coralità" almodovariane. E il collante è Manuela. Lei CREA gli altri
personaggi dal nulla o dalla crisi in cui si trovano. Li trascina in un
altro DOVE fisico o interiore. La struttura del film le si organizza
intorno, trovando un punto di rilancio nella scena "circolare" del taxi alla
ricerca di Lola, nella Barcellona estrema battuta dai travestiti. Tutte
queste vite, non generano piani narrativi sdoppiati o un montaggio che le
rincorra in parallelo. C'è un corpo attoriale unico che va verso la meta, e
la cifra stilistica non può che aderire all'inesorabilità "semplice" di
questa epifania progressiva. Niente scene madri, ma piccoli grumi narrativi
di impalpabile forza.
Manuela, peraltro, non ci conduce solamente sul piano del doppio arte/vita.
Si pone a protezione di Esteban, di Rosa, del figlio di questa, di Agrado,
di Lola malata, della fidanzata di Huma, tossicodipendente. Difende il
gruppo, la neo-famiglia. "Dedico TODO SOBRE MI MADRE a tutte le persone, a
prescindere dal sesso, che aspirano alla maternità"; " (…) La famiglia che
predico è quella naturale, cioè POSSIBILE", oltre gli steccati dei contratti
sociali. In questa famiglia allargata, dai ruoli sdoppiati e attraversata da
ampie correnti di nuovo pensiero, ciascuno ha modo di reinventarsi.
Ecco il secondo messaggio, di primordiale e modernissima potenza eversiva:
la donna/madre, generatrice per definizione, lotta contro ogni tipo di morte
(fisica, psichica, sociale), creando o aiutando a creare/inventare qualcosa
di nuovo. Ci si incarna in nuovi corpi (il paziente che in sé accoglie il
cuore di Esteban, fatto rientrare anche lui nel ciclo vitale; i nuovi corpi
"transgender" di Lola e Agrado, secondo il quale abbiamo tutti diritto ad
"essere il nostro sogno", il semplice figlio in cui rinascerà Rosa ormai
morente). Ma ci si incarna anche in una nuova vita, come quella della stessa
protagonista una volta a Barcellona, o quella di Agrado, che lascia la
strada per il teatro. Assistiamo alle rigenerazioni, nascite e morti, che,
di per se stesse, sono sinonimo di vitalità, continuità del ciclo, estrema
creatività e maternità globale.
Come sempre in Almodovar, ambienti e décor sono essi stessi costruttori di
senso e in continua interazione con i personaggi. Il controllo di un
cromatismo denso e lineare al contempo, porta ad esiti più maturi rispetto
al passato. Qui i colori convivono e si distendono con naturalezza lungo il
"percorso psichico" di personaggi e vicende.
In definitiva, TUTTO SU MIA MADRE ci dice che ogni rapporto è possibile se
sicura è la forza del sentimento che lo spinge: ci si ama, protegge, aiuta
senza vincoli morali, ruoli, contratti. Madre è colei che crea,
inventa, racconta; madre è colei che si/ci reinventa e ricrea. Come
Gena Rowlands, Bette Davis, Romy Schneider, madri e mogli dolorosissime
anche nella vita reale, cui il film è appassionatamente dedicato.
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