ANALISI ESTESA DEL FILM

 

LA ROSA BIANCA

SOPHIE SCHOLL

di Marc Rothemund
Germania 2005
Con Julia Jentsch, Alexander Held

di Gabriele FRANCIONI
L’assoluta essenzialità, quasi la castità espressiva di questo bellissimo film, fa da contrappeso al controverso DER UNTERTANG (La Caduta), l’altro film-caso del cinema tedesco più recente.
Il pregio maggiore della pellicola sta proprio nell’opporre la regola del sacrificio di un gruppo di giovani antinazisti, divenuta qui anche ispirazione per un asciutto e limitatissimo decalogo di segni, al delirio manierista di Bruno Ganz/Hitler.
La linearità della ratio posta alla base di una scelta suicida, ma coerente e straordinariamente coraggiosa (chi mai avrebbe immaginato, addirittura, l’esistenza di una opposizione interna durante il nazionalsocialismo?), definisce il codice estetico del film, costruito come una rappresentazione teatrale illuminata dal bianco freddo di esterni e interni, entro i quali i protagonisti si muovono quasi entomologicamente sotto l’occhio vigile di una m.d.p. resnaisiana.
Ciò che emerge, è l’idea di una soggettività pronta ad annullarsi di fronte allo scopo finale di una speranza costruita sul continuo lavoro collaborativo, dove sempre il pensiero è rivolto fuori di se stessi (la contrazione emotiva della prima scena, quando la musica lascia il campo al silenzio della clandestinità e l’emozione cede il passo all’azione; le preoccupazioni di Sophie per la madre malata). Altrettanto nitidamente e seccamente, la regia rinuncia a disporre sul piano visivo un qualunque corteo di segni troppo riconoscibili, invadenti, lasciando che le cose semplicemente avvengano. L’impianto formale, cioè, non pensa a se stesso, ma a mettersi al servizio di una materia connotata da un’immane forza comunicativa intrinseca. Il regista si comporta come Sophie durante l’interrogatorio e usa i mezzi espressivi come un contrappunto fedele a quello stoicismo laico, immediatamente riflesso in un corteo di sottrazioni, compressioni temporali e scavi. Sovresponendo ossimoricamente l’essenzialità potente di una verità che va celata, Sophie (e il film), quanto più nascondono i dati e i dettagli del loro fare, tanto più ne parlano. Più cose vengono occultate con pudore, più noi riceviamo materia emotiva.
LA ROSA BIANCA è costruito attorno alla figura, in tutti sensi, della protagonista: gli eventi storici che la riguardarono e il mostrarsi come esile resistentissimo corpo diretto, come una lama d’acciaio, al cuore della follia hitleriana.
La visionarietà di una Jeanne D’Arc, e il fuoco di lei e degli Dei, vengono ribaltati nella lucida visione omnicomprensiva della realtà, comunista, egualitaria e umanistica, di una eroina moderna. Dal sacro al laico, dal calor bianco mistico alle temperature glaciali di un’etica del sacrificio silenzioso, senza spade.
La Scholl, e la splendida attrice protagonista, trattengono il respiro, ma con questo mai cancellano i segni, disposti fra le righe del testo filmico, di un’emozione fortissima.
Straordinario, in questo senso, il cambio di registro e l’impressionante metamorfosi di Sophie una volta confessata la propria appartenenza alla Rosa Bianca. Ma, attenzione: tutto avviene senza a-soli attoriali, senza gestualità alcuna, potendo qui sfruttare i piani ravvicinatissimi che non offre il teatro. Costruita con una mimica facciale d’inarrivabile ed emozionante potenza espressiva, la trasformazione di S.S. in martire della libertà (definizione alquanto pertinente, almeno in questo caso), è un capolavoro d’arte recitativa. L’attrice entra in una trance zen che non fa uso del corpo, ma solo delle vene ingrossate dalla piena del sangue che sale; gli occhi, la bocca, i muscoli del viso disegnano una dinamicissima geografia di micro-contrazioni e spasmi, andando verso la deriva di un pianto che non verrà mai.
L’Orso d’Oro vinto a Berlino è, vivaddio, qualcosa di più di un riconoscimento transitorio (si pensi a certe Coppe Volpi gettate al vento dei flash dei fotografi e già dimenticate), anche perché assegnato in patria.
Sophie si carica da questo momento in poi tutto il film sulle spalle, senza peraltro rubare spazio alla capacità comunicativa della messinscena algidamente e tragicamente scarna, sino alle tre scene finali (incontro coi genitori, abbraccio a tre e sigaretta del detenuto, ghigliottina solo intuita grazie al sonoro), perfettamente concepite e realizzate.

LA ROSA BIANCA

SOPHIE SCHOLL

di Marc Rothemund