ANALISI ESTESA DEL FILM
DON CHISCIOTTE
di
Orson Welles |
![]() |
Alla frequente, estenuante domanda: “Quando terminerà questo film?”, Orson Welles avrebbe spesso risposto: “Il film terminerà quando girerò l’esplosione della bomba H, che distruggerà tutto e tutti, eccetto Don Quixote e Sancho Panza”. Nel corso degli anni il film sarebbe stato avvolto da una leggenda tale, da spingere Truffaut ad ipotizzare che Welles stesso ne sarebbe alla fine rimasto l’unico spettatore. Pellicola le cui riprese durarono anni, in 16 e 35 mm, probabilmente a seconda della disponibilità finanziaria, Don Quixote veniva girato da Welles coordinando le proprie pause fra un impegno e l’altro come attore, con quelle del cast, nel quale (oltre allo stesso Welles, voce narrante e interprete, nei panni di se stesso) figuravano la giovane Patty McCormack e il grande Akim Tamiroff, già ammirato in Arkadin – rapporto confidenziale e Il Processo. Senza dubbio l’opera più eterogenea del regista, il Quixote può essere considerato un film coerente soltanto nell’uso delle focali, cortissime, ancor più che ne L’Infernale Quinlan. La scelta di un obiettivo 18,5 mm per tutte le riprese del film, conferisce un carattere stilizzato e decisamente “grafico” alle figure di Don Quixote e Sancho Panza, ma allo stesso tempo sottolinea la presa di posizione intransigente e polemica dell’ormai disilluso Welles verso il cinema contemporaneo. Come osserva Truffaut nell’introduzione allo straordinario volume di Andrè Bazin dedicato al regista, lo spirito di contraddizione aveva avuto un ruolo decisivo nell’opera dell’autore fin da Citizen Kane. Sembra quasi che Welles, prima del suo esordio capolavoro, avesse guardato altri film (non solo Ombre Rosse di Ford, come vorrebbe la vulgata) non per ispirarvisi, quanto per fare l’esatto opposto. Così, in Don Quixote, il regista afferma di aver usato un obiettivo 18,5 mm, perché nessun’altro l’avrebbe mai fatto. Allo stesso modo, Welles contraddice persino se stesso: per la prima volta gira il film senza dècoupage, senza un filo narrativo, senza neppure una sinossi, come affermerà più volte. Improvvisazione vera e propria, piccoli incidenti, casualità. L’autore racconta nell’intervista rilasciata a Bazin, Chalres Bitsch e Jean Domarchi, come ogni mattina attori e tecnici si trovassero davanti all’albergo e partissero, inventando il film per strada. La scelta dell’improvvisazione avrebbe dovuto rievocare lo spirito di alcuni grandi pietre miliari del muto (Welles citerà Mack Sennet), e di conseguenza il film sarebbe dovuto rimanere quasi completamente privo di dialogo, con l’eccezione di un commento del regista. Nonostante la sincerità dello spirito avventuroso, proprio dello stesso Cervantes, è lecito pensare che improvvisazione, uso di mezzi e supporti di fortuna, e lunghezza delle riprese, dipendessero da un’oggettiva difficoltà finanziaria. Il Don Quixote è infatti un film autoprodotto, e la figura dell’anziano cavaliere, dalla pura nobiltà ma dalle scarse, arretrate risorse, non può non far pensare alla complessa condizione produttiva di Welles negli anni più difficili della sua carriera registica. Come dichiara l’autore, l’anacronismo di Don Quixote rispetto al suo tempo avrebbe perso oggigiorno ogni efficacia, data la poca consapevolezza per i contemporanei, delle differenze fra XVI e XIV secolo. Per questo, il film precipita i due personaggi nei tempi moderni, sovraccaricando esponenzialmente il carattere metanarrativo delle avventure di Cervantes. Se nel secondo volume dell’autore spagnolo, all’arrivo dei due eroi la gente avrebbe urlato “Guardate! Don Quixote e Sancho Panza! Abbiamo letto il libro su di loro”, durante le riprese del film l’effetto sarebbe stato amplificato dalla presenza della macchina da presa e da quella dello stesso personaggio/Welles. Con questa grande allegoria, Welles si conferma un cineasta poeta, suo malgrado, “esibizionista sul set, censore al montaggio”. Malinconicamente, il Don Quixote dimostra, quanto finanziatori di Hollywood (e spettatori di mezzo mondo) ammettano la “bella prosa”, quella di un Ford, di un Hawks o di un Hitchcock, ma assai più difficilmente la poesia pura, la fiaba allegorica. L’edizione di questo film, fra difficoltà, segmenti mancanti, recuperi, ri-doppiaggi e revisioni tecniche, ci offre un’opportunità preziosa di fruire del lavoro più libero, più anomalo, di uno dei più grandi registi di tutti i tempi. |
DON CHISCIOTTE di Orson Welles |