Introduzione
Film sulla memoria, sul senso del cinema, sul ruolo della donna, sul valore
della psicanalisi.
Opera anomala di finzione e allo stesso tempo atipico documentario, il primo
lungometraggio di Alina Marazzi è destinato a segnare la storia del cinema
italiano più di quanto ci si sia finora resi conto, nonostante la messe di
premi e riconoscimenti raccolti ai festival nazionali ed esteri,
l’attenzione crescente verso una pellicola presentata per la prima volta
addirittura tre anni fa a Locarno, la vitale vicenda produttiva e televisiva
che ne hanno garantito un’ottima esposizione “finale” e, infine, la seconda
vita che UN’ORA SOLA TI VORREI continua ad avere su Internet, grazie ad un
sito visitatissimo (www.unorasola.it), vera e propria zona franca in cui
molti bloggers sentono il bisogno di fare outing, riconoscendosi in una
vicenda pubblico-privata capace di toccare corde sensibilissime del nostro
essere.
Un luogo di psicanalisi virtuale collettiva, sede appropriata per la terapia
di gruppo, forse, di un’intera generazione (coloro che come Alina sono nati
tra metà e fine anni ’60) o più, mettendoci dentro anche i sessantenni di
oggi.
Ciascuno col proprio “vuoto”, la propria necessità di “dire” la perdita: che
sia quella concreta e fisica di una persona amata o quella della propria
autoconsapevolezza e ruolo nel mondo o più semplicemente della propria
libertà (di amare, di sentire, di avere incoscientemente vent’anni).
L’ora di durata del film è in realtà la monade di qualcosa d’infinito e
tragicamente indicibile, poiché rappresenta con meravigliosa e sofferta
eloquenza l’essenza del vivere in funzione della morte e il modo in cui la
società e la cultura successive ai due conflitti mondiali, con l’esplosione
della rappresentazione visiva del mondo (attraverso giornali, reportages,
narrazioni filmiche e gli stessi documentari), invece che servire a capire,
iper-rappresentandole, le radici del nostro “esserci” ANCHE per poi “non
esserci” e a convivere più o meno pacificamente con questa verità
ineludibile, hanno moltiplicato la Morte in atto, mettendola sempre sulla
scena.
Passare attraverso questa fondamentale “ora” è come capire il ruolo tragico
del cinema, massimamente coinvolto nella iper-rappresentazione mediatica cui
si accennava, che nel momento in cui seleziona le vite dei personaggi, siano
essi i “characters” o gli attori reali, 1) ne recide altrettante parti
vitali, momenti vissuti che si perdono nel “montaggio” e 2) prolunga
all’infinito la nostalgia, la vera malattia-del-ritorno-impossibile (in
vita, ovviamente), che la scomparsa di questi corpi/persone/attori generano
in chi guarda.
Per secoli, o ancor oggi in certe culture, il “taboo” non esisteva perché il
senso del nostro “esserci” non era legato ad altro che ad un flusso privo di
soluzioni di continuità, durante il quale nessuno passava, come singolo
essere vivente, davanti allo sguardo inquisitore di un registratore
d’immagini e sapeva di delegare la propria eventuale “ybris” d’immortalità
ad azioni oppure opere, invece che agli ormai democraticamente diffusi 15
minuti di warholiana e misera notorietà.
Nostos-algheia
Quanto è più struggente la nostos-algheia di una persona rappresentata in
foto in video piuttosto che in vaghi disegni, imprecise descrizioni grafiche
o addirittura mai descritta? Cosa proviamo di fronte ad un’immagine di
Mozart o Casanova, imprecisamente e vitalmente corrotta dall’interpretazione
del singolo (come vuole anche la genuinità dei racconti orali e base di ogni
fiaba)? Gioia, tenerezza, curiosità intellettuale. Come ci poniamo di fronte
alla bellezza parlante della Garbo o al garbo di Marcello in ogni luogo
reale o immaginato in cui Fellini lo accompagnava? Con straziante e dolorosa
rabbia, senso d’impotenza, mossi da un amore-odio verso quella pellicola
della quale non possiamo più fare a meno, ma che aumenta - per sua stessa
natura - la nostra sofferenza.
Quanti di noi/voi condividono il senso di morte veicolato dal mezzo cinema?
Non era stato Pasolini a dire che “la morte compie un fulmineo montaggio
della nostra vita”? Ragionando di montage (e UN’ORA SOLA TI VORREI è tutto,
esclusivamente una meravigliosa ipertrofia del cutting, visivo e sonoro,
come raramente ci è capitato di vedere e sentire), P. sosteneva che esso
seleziona e coordina “ i momenti significativi (…) rendendo il presente
passato”, trasformandolo –come sottolinea Deleuze- da materia instabile,
incerta, in oggetto”chiaro, descrivibile
Il cinema, quindi, opera attraverso il montaggio non solo, o forse per
niente, un’eliminazione dei momenti “noiosi”, dei momenti morti della vita (Hitchcock),
che invece, rimanendo non rappresentati e privati, si sottraggono all’occhio
dell’altro e vivranno liberi: esso sceglie-seleziona-recide parti di vita
reali o di finzione e le ricompone come un Frankenstein affabulante e
assolutamente affascinante.
Non potremo mai più fare a meno del film di Alina Marazzi e lo rivedremo
all’infinito: ma la sensazione netta è che la straziante vicenda di Liseli,
la madre morta suicida in una clinica svizzera nel 1972, a soli 33 anni, non
resusciti, non restituisca, non rimetta in vita una persona che meritava
diverse attenzioni allora e non solamente oggi.
Intendiamoci: il film ci regala una regista meravigliosa che scavalca d’un
balzo quasi tutta la categoria artistica cui appartiene ed entra, insieme a
nomi come quello di Marco Bechis, nel novero ristrettissimo dei nostri poeti
del reale.
La libertà scelta nell’assemblare immagine e suono, ritagli di giornale o
fogli delle lettere materne riscoperte pochi anni fa insieme al “sound”
concreto di Benni Atria - un altro genio - o alla colonna sonora di un’epoca
(si va dalle “Fiabe Sonore” di “a mille ce n’è in un mondo fatato per
sognar” sino al rock americano), fa pensare al capolavoro.
La capacità di sintesi, pur immersi in una quantità di sollecitazioni
private e pubbliche infinita, è straordinaria e la compressione operata
(un’ora sola, appunto) ha del miracoloso, garantendone una fruizione diversa
da opere tipo HEIMAT, che mai ci commuoverà come ha fatto il film di Alina.
Anche il voice over della regista, che prende il sopravvento e determina una
totale immedesimazione nella figura della madre neo-parlante, è gestito in
maniera straordinaria e sottratto al rischio di bulimia verbale.
Liseli - Persona
Liseli-La-Persona, peraltro, rimane ancora una volta ipertroficamente
rappresentata e, in un certo senso, tradita.
Ancora una volta è la fragile donna giovane “incapace” (o resa tale) di
autorappresentarsi ed essere accettata per quello che veramente era e non
per quello che altri volevano fosse. Soprattutto il nonno, l’editore Ulrico
Hoepli pioniere dei “filmini” familiari sin dagli anni ‘20, che la voleva e
la filmava sempre e immancabilmente splendida e sorridente, anticipava col
montaggio cinematografico dei suoi curatissimi home movies il “montaggio”
che opererà su di lei anni dopo, re-cidendola dal mondo quando contribuirà a
segregarla nella clinica per malati mentali molto più gravi di Liseli. Ma
qui entriamo in un campo troppo privato e non ci permettiamo di avanzare
critiche o anche solo di fare osservazioni sul vissuto doloroso di una
famiglia.
Hoepli fu comunque il regista dell’esistenza della figlia, sino ad
occultarne i “pezzi di vita” che non gli piacevano o dovevano essere
nascosti alla vista della Milano alto-borghese degli anti-borghesi anni
Sessanta. Dice Alina del nonno: “(…) questa sua regia proponeva un’immagine
di apparente benessere, di serenità e felicità che nella realtà non
tornava”, o ancora “(…) per tutta la vita non ha fatto altro che filmare
quasta figlia prediletta, bellissima, però forse senza mai riuscire a
guardare oltre, a capirla veramente. Le immagini di mio nonno che la
mostrano felice e sorridente sono tutte false, costruite. Quell’idea di
benessere, di ricchezza, di spensieratezza: è solo una mistificazione, una
liturgia di autorappresentazione borghese”.
La regista, dopo aver lavorato su documentari d’impegno sociale e come
aiuto-regista di Giuseppe Bertolucci e Giuseppe Piccioni, incontra
casualmente il “film della vita” di Liseli, aprendo un armadio pieno di
pellicole, una sessantina:”(…) erano quasi tutti film in 16mm, girati con
una Bolex a molla che mio nonno mi ha regalato. I filmati più vecchi, quelli
in bianco e nero, risalgono al 1926, mio nonno li aveva realizzati con una
Pathé Baby e poi li aveva riversati su una pellicola a 16mm”.
Da lì il desiderio di un’amorevole ricostruzione e conoscenza della figura
semisconosciuta di Liseli (occultata nel “lost footage” dell’imbarazzo
familiare), ha fatto partire la vicenda appassionante, anche dal punto di
vista produttivo e distributivo, di questo film.
Sul bellissimo sito si trovano tutti i particolari della storia di UN’ORA
SOLA (a dicembre, poi, il tutto verrà arricchito da un DVD mai così
desiderato) e, se non altro, il regalo più bello di Alina alla madre, oltre
alla qualità artistica e alla passione profusa nell’operazione, sta
nell’aver generato un interesse senza fine verso la sua vicenda.
I contatti sono frequentissimi, il desiderio della gente è proprio quello di
tenere in vita Liseli, di darle sempre nuova linfa affabulando, parlandone
e, in questo, sembra di essere più dalle parti dell’Almodovar di TODO SOBRE
MI MADRE (vedi recensione nell’archivio di Kinematrix), dove il “chatting”
delle piccole comunità femminili dei paesi pre-bellici era mosso da un
istinto di conservazione di vita nella parola e solo in quella.
Non vogliamo dire che queste persone diano a Liseli più di quanto non faccia
il film.
È' la stessa Alina a illuminarci a riguardo: “(…) Io e Ilaria Fraioli
(responsabile del montaggio, n.d.r.) ci siamo comportate con quelle immagini
e con quelle persone come se fossero dei personaggi di un film, per cui ne
parlavamo come se stessimo montando un film di fiction. Era proprio come se
fossero dei personaggi creati per lo schermo”.
In pratica, una cosa è il film; un’altra l’atto d’amore della Marazzi verso
la madre; un’altra cosa ancora è Liseli.
Rimane il fatto che lei continua a sfuggire, più che a sfuggirci.
Per escludere ogni equivoco su ciò che andiamo dicendo: NESSUNO avrebbe
potuto fare meglio e diversamente dal lavoro di Alina.
Ciò che sosteniamo è legato alla natura del mezzo cinematografico, che
purtroppo (e Alina ne è perfettamente cosciente!) non restituisce vite e
persone, ma, dicendola con Gianni Canova, fa sì che in questo caso, le
immagini “(…) girate per conservare traccia e memoria di vite e di storie
destinate a sparire nel flusso del tempo, trasmettano in realtà la
struggente consapevolezza che alla fine tutto si perda comunque. Io, almeno,
ne ho ricavato una sensazione di perdita”.
Amiamo tremendamente il film, c’ immedesimiamo dolorosamente in Alina, ma
vorremmo avere qui tra noi Liseli ragazza trentatreenne per ridarle quello
che l’insensibilità dei singoli e di un’epoca le hanno tolto.
Liseli vorrebbe poter liberamente vivere il suo disagio di “dover” ricoprire
ruoli probabilmente impostile dal grado sociale e dal dover/voler essere
madre.
Le altre Liseli
La sua vicenda, in questo senso, può realmente servire a far parlare altre
donne, che hanno vissuto o vivono ancora oggi solo il “footage” scelto per
loro da mariti, datori di lavoro e parenti.
Sessantenni, certo, ma anche ventenni dei Duemila. Donne vissute in un’epoca
in cui è stata definitivamente uccisa quell’innocenza apparentemente
recuperata alla fine della seconda guerra mondiale, quando, invece, il
consumismo e lo stravolgimento dell’Italia ex-rurale e post-Resistenza
portarono una cultura millenaria a ridursi alle squallide
auto-rappresentazioni mediatiche dell’oggi.
Donne che hanno vissuto e vivono tragedie private irrappresentate (no
footage, niente film), mentre attorno a loro scorreva e scorre una
pornografia visiva che, come detto, è solo morte.
Ecco allora che, verificata l’impossibilità di far parlare Liseli-persona
per quello che solo lei sapeva di essere, UN’ORA SOLA assolve pienamente ad
un compito altrettanto importante: aiutare a parlare e far parlare, anche
semplicemente sul sito, donne e di donne che non hanno una ribalta e vivono
nascoste dietro una scrivania, cancellate dalla fatica di mille ore passate
a stirare, vessate dal capufficio, letteralmente “fuori dal mondo”.
VOTO: 30/30 e lode
18/02/2006
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