ANALISI ESTESA DEL FILM

UN ORA SOLA TI VORREI
di Alina Marazzi

Italia 2002

Con Liseli Marazzi Hoepli

di Gabriele FRANCIONI

Introduzione

Film sulla memoria, sul senso del cinema, sul ruolo della donna, sul valore della psicanalisi.
Opera anomala di finzione e allo stesso tempo atipico documentario, il primo lungometraggio di Alina Marazzi è destinato a segnare la storia del cinema italiano più di quanto ci si sia finora resi conto, nonostante la messe di premi e riconoscimenti raccolti ai festival nazionali ed esteri, l’attenzione crescente verso una pellicola presentata per la prima volta addirittura tre anni fa a Locarno, la vitale vicenda produttiva e televisiva che ne hanno garantito un’ottima esposizione “finale” e, infine, la seconda vita che UN’ORA SOLA TI VORREI continua ad avere su Internet, grazie ad un sito visitatissimo (www.unorasola.it), vera e propria zona franca in cui molti bloggers sentono il bisogno di fare outing, riconoscendosi in una vicenda pubblico-privata capace di toccare corde sensibilissime del nostro essere.
Un luogo di psicanalisi virtuale collettiva, sede appropriata per la terapia di gruppo, forse, di un’intera generazione (coloro che come Alina sono nati tra metà e fine anni ’60) o più, mettendoci dentro anche i sessantenni di oggi.
Ciascuno col proprio “vuoto”, la propria necessità di “dire” la perdita: che sia quella concreta e fisica di una persona amata o quella della propria autoconsapevolezza e ruolo nel mondo o più semplicemente della propria libertà (di amare, di sentire, di avere incoscientemente vent’anni).
L’ora di durata del film è in realtà la monade di qualcosa d’infinito e tragicamente indicibile, poiché rappresenta con meravigliosa e sofferta eloquenza l’essenza del vivere in funzione della morte e il modo in cui la società e la cultura successive ai due conflitti mondiali, con l’esplosione della rappresentazione visiva del mondo (attraverso giornali, reportages, narrazioni filmiche e gli stessi documentari), invece che servire a capire, iper-rappresentandole, le radici del nostro “esserci” ANCHE per poi “non esserci” e a convivere più o meno pacificamente con questa verità ineludibile, hanno moltiplicato la Morte in atto, mettendola sempre sulla scena.
Passare attraverso questa fondamentale “ora” è come capire il ruolo tragico del cinema, massimamente coinvolto nella iper-rappresentazione mediatica cui si accennava, che nel momento in cui seleziona le vite dei personaggi, siano essi i “characters” o gli attori reali, 1) ne recide altrettante parti vitali, momenti vissuti che si perdono nel “montaggio” e 2) prolunga all’infinito la nostalgia, la vera malattia-del-ritorno-impossibile (in vita, ovviamente), che la scomparsa di questi corpi/persone/attori generano in chi guarda.
Per secoli, o ancor oggi in certe culture, il “taboo” non esisteva perché il senso del nostro “esserci” non era legato ad altro che ad un flusso privo di soluzioni di continuità, durante il quale nessuno passava, come singolo essere vivente, davanti allo sguardo inquisitore di un registratore d’immagini e sapeva di delegare la propria eventuale “ybris” d’immortalità ad azioni oppure opere, invece che agli ormai democraticamente diffusi 15 minuti di warholiana e misera notorietà.

Nostos-algheia

Quanto è più struggente la nostos-algheia di una persona rappresentata in foto in video piuttosto che in vaghi disegni, imprecise descrizioni grafiche o addirittura mai descritta? Cosa proviamo di fronte ad un’immagine di Mozart o Casanova, imprecisamente e vitalmente corrotta dall’interpretazione del singolo (come vuole anche la genuinità dei racconti orali e base di ogni fiaba)? Gioia, tenerezza, curiosità intellettuale. Come ci poniamo di fronte alla bellezza parlante della Garbo o al garbo di Marcello in ogni luogo reale o immaginato in cui Fellini lo accompagnava? Con straziante e dolorosa rabbia, senso d’impotenza, mossi da un amore-odio verso quella pellicola della quale non possiamo più fare a meno, ma che aumenta - per sua stessa natura - la nostra sofferenza.
Quanti di noi/voi condividono il senso di morte veicolato dal mezzo cinema? Non era stato Pasolini a dire che “la morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita”? Ragionando di montage (e UN’ORA SOLA TI VORREI è tutto, esclusivamente una meravigliosa ipertrofia del cutting, visivo e sonoro, come raramente ci è capitato di vedere e sentire), P. sosteneva che esso seleziona e coordina “ i momenti significativi (…) rendendo il presente passato”, trasformandolo –come sottolinea Deleuze- da materia instabile, incerta, in oggetto”chiaro, descrivibile
Il cinema, quindi, opera attraverso il montaggio non solo, o forse per niente, un’eliminazione dei momenti “noiosi”, dei momenti morti della vita (Hitchcock), che invece, rimanendo non rappresentati e privati, si sottraggono all’occhio dell’altro e vivranno liberi: esso sceglie-seleziona-recide parti di vita reali o di finzione e le ricompone come un Frankenstein affabulante e assolutamente affascinante.
Non potremo mai più fare a meno del film di Alina Marazzi e lo rivedremo all’infinito: ma la sensazione netta è che la straziante vicenda di Liseli, la madre morta suicida in una clinica svizzera nel 1972, a soli 33 anni, non resusciti, non restituisca, non rimetta in vita una persona che meritava diverse attenzioni allora e non solamente oggi.
Intendiamoci: il film ci regala una regista meravigliosa che scavalca d’un balzo quasi tutta la categoria artistica cui appartiene ed entra, insieme a nomi come quello di Marco Bechis, nel novero ristrettissimo dei nostri poeti del reale.
La libertà scelta nell’assemblare immagine e suono, ritagli di giornale o fogli delle lettere materne riscoperte pochi anni fa insieme al “sound” concreto di Benni Atria - un altro genio - o alla colonna sonora di un’epoca (si va dalle “Fiabe Sonore” di “a mille ce n’è in un mondo fatato per sognar” sino al rock americano), fa pensare al capolavoro.
La capacità di sintesi, pur immersi in una quantità di sollecitazioni private e pubbliche infinita, è straordinaria e la compressione operata (un’ora sola, appunto) ha del miracoloso, garantendone una fruizione diversa da opere tipo HEIMAT, che mai ci commuoverà come ha fatto il film di Alina. Anche il voice over della regista, che prende il sopravvento e determina una totale immedesimazione nella figura della madre neo-parlante, è gestito in maniera straordinaria e sottratto al rischio di bulimia verbale.
 

Liseli - Persona

Liseli-La-Persona, peraltro, rimane ancora una volta ipertroficamente rappresentata e, in un certo senso, tradita.
Ancora una volta è la fragile donna giovane “incapace” (o resa tale) di autorappresentarsi ed essere accettata per quello che veramente era e non per quello che altri volevano fosse. Soprattutto il nonno, l’editore Ulrico Hoepli pioniere dei “filmini” familiari sin dagli anni ‘20, che la voleva e la filmava sempre e immancabilmente splendida e sorridente, anticipava col montaggio cinematografico dei suoi curatissimi home movies il “montaggio” che opererà su di lei anni dopo, re-cidendola dal mondo quando contribuirà a segregarla nella clinica per malati mentali molto più gravi di Liseli. Ma qui entriamo in un campo troppo privato e non ci permettiamo di avanzare critiche o anche solo di fare osservazioni sul vissuto doloroso di una famiglia.
Hoepli fu comunque il regista dell’esistenza della figlia, sino ad occultarne i “pezzi di vita” che non gli piacevano o dovevano essere nascosti alla vista della Milano alto-borghese degli anti-borghesi anni Sessanta. Dice Alina del nonno: “(…) questa sua regia proponeva un’immagine di apparente benessere, di serenità e felicità che nella realtà non tornava”, o ancora “(…) per tutta la vita non ha fatto altro che filmare quasta figlia prediletta, bellissima, però forse senza mai riuscire a guardare oltre, a capirla veramente. Le immagini di mio nonno che la mostrano felice e sorridente sono tutte false, costruite. Quell’idea di benessere, di ricchezza, di spensieratezza: è solo una mistificazione, una liturgia di autorappresentazione borghese”.
La regista, dopo aver lavorato su documentari d’impegno sociale e come aiuto-regista di Giuseppe Bertolucci e Giuseppe Piccioni, incontra casualmente il “film della vita” di Liseli, aprendo un armadio pieno di pellicole, una sessantina:”(…) erano quasi tutti film in 16mm, girati con una Bolex a molla che mio nonno mi ha regalato. I filmati più vecchi, quelli in bianco e nero, risalgono al 1926, mio nonno li aveva realizzati con una Pathé Baby e poi li aveva riversati su una pellicola a 16mm”.
Da lì il desiderio di un’amorevole ricostruzione e conoscenza della figura semisconosciuta di Liseli (occultata nel “lost footage” dell’imbarazzo familiare), ha fatto partire la vicenda appassionante, anche dal punto di vista produttivo e distributivo, di questo film.
Sul bellissimo sito si trovano tutti i particolari della storia di UN’ORA SOLA (a dicembre, poi, il tutto verrà arricchito da un DVD mai così desiderato) e, se non altro, il regalo più bello di Alina alla madre, oltre alla qualità artistica e alla passione profusa nell’operazione, sta nell’aver generato un interesse senza fine verso la sua vicenda.
I contatti sono frequentissimi, il desiderio della gente è proprio quello di tenere in vita Liseli, di darle sempre nuova linfa affabulando, parlandone e, in questo, sembra di essere più dalle parti dell’Almodovar di TODO SOBRE MI MADRE (vedi recensione nell’archivio di Kinematrix), dove il “chatting” delle piccole comunità femminili dei paesi pre-bellici era mosso da un istinto di conservazione di vita nella parola e solo in quella.
Non vogliamo dire che queste persone diano a Liseli più di quanto non faccia il film.
È' la stessa Alina a illuminarci a riguardo: “(…) Io e Ilaria Fraioli (responsabile del montaggio, n.d.r.) ci siamo comportate con quelle immagini e con quelle persone come se fossero dei personaggi di un film, per cui ne parlavamo come se stessimo montando un film di fiction. Era proprio come se fossero dei personaggi creati per lo schermo”.
In pratica, una cosa è il film; un’altra l’atto d’amore della Marazzi verso la madre; un’altra cosa ancora è Liseli.
Rimane il fatto che lei continua a sfuggire, più che a sfuggirci.
Per escludere ogni equivoco su ciò che andiamo dicendo: NESSUNO avrebbe potuto fare meglio e diversamente dal lavoro di Alina.
Ciò che sosteniamo è legato alla natura del mezzo cinematografico, che purtroppo (e Alina ne è perfettamente cosciente!) non restituisce vite e persone, ma, dicendola con Gianni Canova, fa sì che in questo caso, le immagini “(…) girate per conservare traccia e memoria di vite e di storie destinate a sparire nel flusso del tempo, trasmettano in realtà la struggente consapevolezza che alla fine tutto si perda comunque. Io, almeno, ne ho ricavato una sensazione di perdita”.
Amiamo tremendamente il film, c’ immedesimiamo dolorosamente in Alina, ma vorremmo avere qui tra noi Liseli ragazza trentatreenne per ridarle quello che l’insensibilità dei singoli e di un’epoca le hanno tolto.
Liseli vorrebbe poter liberamente vivere il suo disagio di “dover” ricoprire ruoli probabilmente impostile dal grado sociale e dal dover/voler essere madre.

Le altre Liseli

La sua vicenda, in questo senso, può realmente servire a far parlare altre donne, che hanno vissuto o vivono ancora oggi solo il “footage” scelto per loro da mariti, datori di lavoro e parenti.
Sessantenni, certo, ma anche ventenni dei Duemila. Donne vissute in un’epoca in cui è stata definitivamente uccisa quell’innocenza apparentemente recuperata alla fine della seconda guerra mondiale, quando, invece, il consumismo e lo stravolgimento dell’Italia ex-rurale e post-Resistenza portarono una cultura millenaria a ridursi alle squallide auto-rappresentazioni mediatiche dell’oggi.
Donne che hanno vissuto e vivono tragedie private irrappresentate (no footage, niente film), mentre attorno a loro scorreva e scorre una pornografia visiva che, come detto, è solo morte.
Ecco allora che, verificata l’impossibilità di far parlare Liseli-persona per quello che solo lei sapeva di essere, UN’ORA SOLA assolve pienamente ad un compito altrettanto importante: aiutare a parlare e far parlare, anche semplicemente sul sito, donne e di donne che non hanno una ribalta e vivono nascoste dietro una scrivania, cancellate dalla fatica di mille ore passate a stirare, vessate dal capufficio, letteralmente “fuori dal mondo”.

VOTO: 30/30 e lode
18/02/2006

UN ORA SOLA TI VORREI
di Alina Marazzi