Finalmente un dvd che fa giustizia di un grandissimo film trascurato
oltraggiosamente dagli ultimi anni di palinsesto televisivo. E che aggiunge
un'intervista molto significativa a Bertolucci, grande autore che l'Italia
ama così e così, gli tributa appena l'obolo della gloria mediatica ma
davanti a film drammaticamente personali, come questo
La luna o
The dreamers, fa orecchie da
mercante e rinuncia a capirlo.
Del resto, il bello dell'intervista a Bertolucci nel dvd non è tanto la sua
spiegazione del film, ma come egli salti sopra e al di là della spiegazione
per deviazioni sempre nuove (si mette a parlare di Barthes, Renoir,
Pasolini...). Il film è tutto in questo movimento: il difficile rapporto tra
Joe, quindicenne che scopre l'eroina, e la madre soprano dopo la morte del
pater familias, non vale tanto come quadretto edipico (pur tirato
fino ai margini dell'incesto) quanto come sfondo inattingibile di una serie
infinite di fughe. Non un tema da far preda di variazioni, ma una spinta
regressiva che è in sé vitale liberazione centrifuga. “Edipo è il teatro e
il teatro è Edipo” si diceva giustamente negli anni 70 – ma allora si
tratterà di prendere di petto il teatro, correre in mezzo al suo baraccone
artificioso (Verdi, il drammone cocteauiano...), tra i suggeritori e i
marchingegni meccanici di scenografia, come fa Joe quando va a vedere la
mamma cantare, per scoprirsi “cinema” nella misura in cui la macchina da
presa svolazza di palo in frasca senza un vero “teatrale” centro. Come nel
finale, in cui la frontalità del teatro trova un senso solo nella sua
complicazione cinematografica in una rete di sguardi aperta alle “n”
dimensioni.
E infatti Edipo coincide con il suo autoliquefarsi in mera contingenza:
l'incipit del film a questo proposito è chiarissimo. Sì, vediamo un padre
che ruba la madre al figlio il quale piange, ma la macchina da presa anziché
spazializzare il conflitto intorno ai personaggi si frange e frantuma in
mille direzione diverse, in aperture ininterrotte (l'aereo sopra le loro
teste, il gomitolo che si dipana per sbaglio, il pallone che rotola...)
altrove. Insomma, Edipo non vuol dire incarognirsi sul melodramma
padre-madre-figlio: Edipo coincide con la fuga da Edipo, con l'apertura
verso lo spazio. Per questo dicevamo che La luna è una fuga continua: da New
York a Roma alla pianura padana a Roma ancora... Ed è soprattutto la
macchina da presa a fuggire, a voltare la faccia al melodramma nel momento
in cui ci sbatte la testa, tessendo articolatissimi movimenti che prendono
in mezzo suggestioni frammentarie di senso o prive di centro o aventi un
centro (p. es. il punto di vista di un personaggio) che non ha serie
prerogative gerarchiche sul resto, ma fluisce insieme a tutto quanto. Ecco:
proprio questa fluidità rende lo stile di Bertolucci non un semplice mosaico
libero e “arty” di cose eterogenee, ma, in prima battuta e addosso ai nostri
stessi sensi, l'anima impalpabile della fuga. Un movimento senza corpo,
quale è la Voce (e la voce, qualunque psicanalista dilettante può dirlo, è
la voce della madre, il sogno del ventre materno ben vivo e sonante) – e
perciò tutto l'ambaradan di artificio teatrale va a finire nell'inquadratura
finale della madre soprano che canta a squarciagola verso la macchina da
presa, così come lo stile di Bertolucci si fa macinare e cancellare dal
proprio stesso fondamento che è il movimento, che sempre nei suoi film
finisce per crearsi una paradisiaca consistenza autonoma. Balla da solo, se
così si può dire, e incarna la totalità “mitica” (materna) a monte e a valle
(simultaneamente) della frammentazione visiva. La fuga dalla madre (da
Edipo) si riapparenta con la continua fuga “della” madre, e le due cose si
ricongiungono: in fondo il rapporto tra Joe e mamma Caterina è tutto qui.
Non c'è un'Origine a cui tornare (e dunque un Destino da cui non si possa
fuggire): la casa di Verdi, da cui tutta la vita e carriera della mamma di
Joe è cominciata (e diciamo pure che lì è nato anche il cinema di
Bertolucci), è da lei presentata solo come quel punto fermo in cui il
Maestro imbastiva le sue fughe in Egitto, o da Lady Macbeth, o verso
Rigoletto... Sempre, si fugge sempre, l'asfissia degli interni si ribalta
violentemente negli esterni, e ritorna il gioco alla Bataille già collaudato
in Ultimo tango per cui la
profondità (del sesso, del melodramma) si converte nella superficie di pure
concrezioni cinematografiche. L'incontro tra due irrecuperabili isterie,
quella di Joe e della madre, non sfocia nella pazzia ma va dritto al cuore
del problema: il caldo ventre materno ci schizza irrimediabilmente fuori,
sulla cangiante superficie del mondo, ed è proprio da lì (così come la
macchina da presa schizza verso il mondo per scoprirsi “voce materna” nella
sua esasperata fluidità) che possiamo contemplare, come avviene a più
riprese nel film, la luna...
DOLMEN
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