Si potrebbe pensare che
il cinema d'impegno civile faccia uso d'immagini che non cercano una forma.
Si potrebbe altresì
controbattere che film come GARAGE OLIMPO (M. Bechis, 1999) o MISSING (C.Costa
Gavras, 1982) distillano il senso di una tragedia reale attraverso impianti
formali rigorosi e una rappresentazione dei corpi "pre-morti" (i torturati,
i reclusi nello stadio), che va ben oltre la mera e distaccata
"documentazione".
Se l'arte cinematografica è anche il tentativo di raccontare la natura
transeunte di (tutti i) corpi - in quanto tali sempre "mutanti" - non c'è
nulla di così cinematograficamente ricco di forma dell'avvicinamento fisico,
organico alla morte.
Tenere fuori campo i "corpses", i cadaveri, o farli apparire offuscati da
una nebbia quantomai opportuna, come accade in HOTEL RWANDA, non è tanto un
tradimento dell'aspetto documentaristico, quanto di quello prettamente
"estetico".
Dobbiamo peraltro riconoscere come non sia sempre possibile concedersi il
lusso di procedere all'interno di un'idea poetica ed estetica forte, se i
tempi di produzione sono compressi, o quando Hollywood tentenna davanti a un
tema "eretico" (il genocidio di un milione di africani, colpevoli di avere
un peso specifico inferiore a quello dell'ultimo "paria" nordamericano).
Eppure quei morti sono immagini fantasmatiche che chiedevano di tornare ad
occupare almeno lo spazio filmico, se non quello definito all'interno della
nostra coscienza.
H.R. non riesce, di conseguenza, ad alzarsi sopra il livello medio di una
solida e necessarissima opera di risveglio della più ampia coscienza civile
dell'Occidente, che ha prima occultato, poi archiviato qualcosa che poco
interessava in termini di eventuali "utili" post-intervento.
Divise fin dai tempi delle colonie belghe, le etnie Tutsi e Hutu tornarono a
scontrarsi nella primavera del 1994, a seguito dell'attentato nel quale
morirono i presidenti di Rwanda e Burundi. Ancora oggi pare difficile capire
quale delle due parti in gioco agisse con maggiore ferocia, anche se la
pellicola descrive solo gli orrori perpetrati dagli Hutu al potere, ai danni
dei Tutsi "più alti, più chiari di pelle e più belli", scelti tempo addietro
dai Belgi per costruire il nuovo stato su un'unica matrice razziale (al
punto da aver codificato un metodo scientifico per distinguerli con
precisione dagli "antagonisti").
Sta di fatto che all'inizio degli anni Novanta le leve politico-militari
erano saldamente in mano agli "scuri di pelle", colpevoli di una
ghettizzazione al contrario dell'altra etnia. Da quest'ultima partì,
nell'aprile del '94, la rivolta, che portò agli orrori solo in parte narrati
all'interno del film.
Paul Rusesabagina (Hutu) fu il direttore di uno dei maggiori hotel di Kigali
- il "Mille Collines" - e riuscì nell'impresa schindleriana di salvare la
moglie Tustsi, i figli e centinaia di altri "scarafaggi" asserragliati
nell'albergo, senza scorte e costantemente minacciati dai drappelli di
militari, privi di un vero e proprio leader o di una benché minima linea
strategica.
Su questa debolezza endemica puntò Rusesabagina - interpretato da un ottimo
Don Cheadle, nominato agli Oscar e visto di recente in THE ASSASSINATION OF
RICHARD NIXON - per corrompere gli ufficiali col denaro e le scorte
alcoliche dell'hotel. Ma dovette impegnare grandi forze anche per richiamare
l'attenzione degli europei (l'Onu latitava o, se c'era, aveva l'ordine di
non sparare, mentre gli Stati Uniti clintoniani non trovavano un valido
motivo per intervenire). La catena alberghiera proprietaria dell'hotel di
Kigali, nella persona del direttore - qui Jean Reno, riuscì a ritardare gli
assalti e a rimandare il momento della resa, che sembrò arrivare il giorno
del penoso ritiro dei caschi blu.
Tra desiderio di mantenere alto il decoro, il "nome" dell'albergo in mezzo
al degenerare di indicibili violenze (l'uso del machete per far strage di
bambini tutsi), e lucidi momenti di abbandono e scoramento ("se vi prendono,
buttatevi dal tetto dell'albergo!", intima Paul alla moglie), Rusesabagina
risulta essere, comunque, il centro, il perno sia della piccola comunità di
disperati a un passo dalla fine, sia del film stesso.
Cheadle trascina letteralmente i vari Nolte (generale Onu) e Phoenix
(reporter Usa), altrimenti impantanati in qualcosa di "alieno" e più grande
di loro, sino a coinvolgerli empaticamente nel suo folle progetto/sogno di
salvezza.
La semplicità del
"messaggio" e la mancanza di pretese del film di Terry George (sceneggiatore
di IN THE NAME OF THE FATHER), è, insomma, garanzia di facile comprensione e
conseguente sicuro successo ai botteghini di tutto il mondo, mentre a
proposito dei film citati all'inizio (GARAGE OLIMPO non ottenne i giusti
riconoscimenti ai tempi dell'uscita in sala, MISSING vinse almeno la Palma
d'oro a Cannes) non si può, purtroppo, dire altrettanto.
VOTO: 26/30
19/02/2006
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