Quanto hanno da imparare i pivellini che si arrampicano oggi, con troppo
ritardo, lungo le volute impervie del rapporto tra Cinema e Scrittura, che
siano Charlie Kaufman o chi fa i film tratti dalle sue sceneggiature (quasi
tutti, non tutti) o quella truffa che è The
Prestige di Nolan.
Difficile, in questo ambito, superare
Il
seme
della
follia, compendio eccellente
di temi classici di H. P. Lovecraft. Un detective incaricato di scoprire
dove sia finito Sutter Cane, scrittore horror di smisurato successo, scopre
invece un autentico vaso di Pandora, scopre di essere lui stesso all'interno
del libro e scoperchia l'inferno: realtà e illusione (leggi anche:
“mutazione”) collassano l'una sull'altra, sicché quando finirà in manicomio
ci starà per poco perché la fine del mondo incombe pressante, e lui si
troverà ad assistervi guardando se stesso sullo schermo di una sala
cinematografica.
E mentre si guarda sullo schermo ride: è l'indizio chiave, quello che
ci riporta pari pari al finale di La
cosa, capolavoro di John
Carpenter di una decina di anni prima. La mutazione è già da sempre in atto,
e non possiamo venirne a capo: l'immagine non è che il segno dell'indecidibilità
che essa stessa sia percorsa o meno, sottopelle, da quella forma primigenia
di mutazione che è la scrittura, in quanto ciò che marca una differenza
primaria rispetto all'esistente. Nell'uno e nell'altro film, la risata
finale è la pochissimo liberatoria esplosione dell'isteria che viene dal
sapere che non possiamo sapere: l'immagine è la forma angosciante del
sentirsi contemporaneamente fuori o dentro quella mutazione che è la
scrittura. Una condizione paralizzante quant'altre mai: già questa vertigine
cartesiana basta a essere più terrificante di qualsiasi horror.
Il densissimo spessore filosofico di quest'opera non viene come credono i
vari Charlie Kaufman più o meno presuntuosetti dalla “quantità” della
vertigine prodotta dall'intricarsi forsennato del gioco di specchi, ma al
contrario dalla semplicità disarmante dell'impalcatura visiva, che con la
chiarezza pulita delle sue linee e dei suoi vettori si richiama direttamente
alla gloriosa Hollywood che fu (negli anni 30-40 e un po' dopo). La
ragnatela di inquadrature e di sguardi, placidamente trasparente nella sua
tessitura, mettendo la propria invisibilità al servizio del trapasso
“indolore” tra questo mondo e quello di infernale irrealtà che è la
scrittura, situa nel normalissimo atto del vedere quanto di meno normale e
più destabilizzante ci sia. La nitidezza cristallina delle forme filmiche
classiche si ribalta nella più assoluta imprevedibilità. Anche le invenzioni
più sovrannaturali (una pagina di libro gigante che si squarcia lasciando
via libera all'inferno), anche nei molti casi in cui la “soglia” tra una
dimensione e l'altra viene enfatizzata visivamente, vengono disciolti in
un'intelaiatura ottica che trasforma il visibile in una rete mentale che
intrappola senza scampo. Anzi: ci avverte violentemente che la trappola per
eccellenza sono i nostri occhi, come in Essi
vivono dello stesso Carpenter in cui era necessario infilarsi un paio
di occhiali miracolosi per potersi accorgere di chi, nel mondo circostante,
fossero alieni travestiti da esseri umani e chi invece no.
Un teorema che si srotola davanti a noi, chiaro e netto, che cela dietro
all'apparente estrema percorribilità delle sue forme la più radicale delle
instabilità percettive e cognitive.
La Cecchi Gori ci offre con questa nuova edizione dvd, a fronte di una
qualità visiva accettabile ma poco più, una nutrita serie di contenuti
speciali, dalle interviste ai making of ai trailer e tanto altro
ancora, per far luce ulteriormente su un film tanto più enigmatico quanto
sembra invece chiaro e palmare.
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