Direttamente dalla grande retrospettiva sulla “Storia Segreta del Cinema
Giapponese” della Mostra di Venezia 2005, due episodi della serie
Il tatuaggio del drago. Il
regista, Makino Masahiro, è figlio di una sorta di patriarca del cinema
nipponico, ed è stato, nella sua lunga carriera, sbalorditivamente
prolifrico: 260 film diretti, più svariate sceneggiature, parti da attore e
altro. Il protagonista della serie è il mitico Takakura Ken (quello di Yakuza
di Pollack, tra le mille altre cose).
L'assaggio che ci offre la Dolmen con questi due dvd vanta, al di là di un
appetitoso montaggio sul cinema nipponico degli anni '60 e una breve scheda
di Makino, soprattutto (in L'inferno
è il destino dell'uomo) un imprescindibile inquadramento critico da
parte di Maria Roberta Novielli, tra i massimi esperti italiani di cinema
giapponese. Il tatuaggio del drago,
come molte delle serie cinematografiche tanto in voga negli anni 60 per
contrastare il nascente strapotere della TV (memorabile, per esempio, la
Peonia scarlatta di Kato
Tai), si impernia (per ingraziarsi un pubblico in gran parte giovane) sulla
difficoltà per gli eroi, marginali e spesso vagabondi in un mondo in preda
alla deriva morale, di mantenere l'”onore”, nella specifica connotazione
giapponese che lo vuole all'intersezione tra il dovere e i sentimenti
personali. Un conflitto, quello tra questi due poli, così
incontrovertibilmente melodrammatico da poter dar vita a un'infinita serie
di variazione nei vari cicli che, come questo, ne trattano. Ma un conflitto
ancora fertile e aperto al riscatto dell'eroe, prima che il geniale cinismo
dei film di Fukasaku degli anni 70 ne faccia senza scampo una questione di
istinti di sopravvivenza, meschinità, avidità e bassezze varie.
Il dovere di un leone, per
esempio, è la storia di due yakuza avversari divisi in tutto il possibile,
compresa una geisha “in comune”, fin dall'inizio buttati dai loro padroni su
schieramenti opposti, ma che alla fine si uniranno per vendicare il potere
corrotto che non è riuscito a corromperli fino a farsi scannare a vicenda.
L'inferno è il destino dell'uomo
racconta gli sforzi del medesimo protagonista per rifarsi una vita al di
fuori della malavita – e relativi fallimenti e riemersioni del passato. Il
primo amministra uno sviluppo drammatico tradizionale evitando il rischio di
“annacquatura”, grazie soprattutto a profondità di campo e cinemascope
convocati adeguatamente, e conducendo il film verso picchi di intensità
piuttosto azzeccati figurativamente (si pensi ai bellissimi jump cut sulla
camminata finale del protagonista). Insomma, un formalismo moderato ma
soddisfacente. Il secondo film forse è uno di quelli che Makino girava in
fretta (inevitabile del resto, ne ha fatti più di 260...), ma questo non è
per forza un difetto. Col senno di poi gli si riconosce infatti una certa
(magari involontaria) modernità, con quelle numerosi ellissi che fanno
passare anni in due secondi (senza nulla che li segnali) che fanno il paio
con digressioni comiche inaspettate, o divagazioni che si prendono
tranquillamente tutto il loro tempo. Tracce narrative che sembravano finire
lì a mezz'aria e invece tornano fuori quando uno non se l'aspetta; un ritmo
disteso e appoggiato sulla quotidianità ordinaria del ristorante della
matrigna cieca del protagonista, presso cui lavora senza rivelare a lei
l'identità (perché è appena uscito di galera e non lo vorrebbe intorno...),
una linea narrativa dinamicamente a zigzag. Alla fine, insomma, questa
relativa “mollezza” sottolinea molto bene, per contrasto, le vigorose
impennate melodrammatiche che emergono quando il passato riaffiora – anche
qui, la condotta figurativa è impeccabile.
Insomma, una bella occasione per scoprire un cinema sterminato e sommerso,
tanto uniforme quanto aperto alle più impensabili sfumature.
DOLMEN
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