La marcescibilità del corpo-cinema, che attraversa stati successivi (dalla
sala porno alla videocassetta, dall'erezione al decadimento fisico e
psichico dei protagonisti) è il nucleo di un film da morgue,
negazione della vitalità indotta dal sesso, assolutamente disperato.
MAGNOLIA ne è la versione prosaica, la declinazione dettagliatamente
artefatta, il compendio magniloquente.
Lo scintillante Dvd di CECCHI GORI non risente degli anni e risveglia
l'interesse per un cineasta concentrato sulla morte e la deriva
esistenziale. BOOGIE NIGHTS è, però, voracemente vitale, perché espone i
corpi anche nella fase "desiderante", accumulativa, a differenza
del film successivo. è poi un
racconto d'interni, corridoi, stanze da letto in perenne mutazione: luogo
alternativo al Reale che evita di farsi catturare dalla macchina da presa
sempre in azione e scorre invece sulle strade di Bel Air, che mai vediamo.
Le ville di Los Angeles, le residenze dei re del porno, fungono da doppio di
scenografie hollywoodiane, versione in laterizio di un inganno di
cartapesta. La comune lì riunita si trascina da una forma di
dipendenza all'altra, in fuga dalla Storia e dal mondo, perché l'ossessione
dell'hard-core e del cinema in senso lato è l'atto di procrastinare,
elidere, cassare la morte.
Di riflesso occorre agire una compulsiva riproduzione rituale collettiva
dell'atto sessuale che rigenera, sganciato dal problemos
concreto della nascita dell'Altro da sé, che implicherebbe la ciclicità
della vita e infine la morte del copulatore-dio, onni(m)potente.
Un'Orgia Onirica si consuma fuori dal tempo, al punto che i mutamenti
socio-culturali vengono riflessi solo nell'arredo modernista in fase di
transizione verso il kitsch cromatico degli anni Ottanta.
Il linguaggio basso e corporeo, per sua natura eversivo, domina il film,
fissando le coordinate testuali per un racconto costruito sulla moltitudine
dei corpi attoriali e sulla esiguità dei nuclei tematici.
Il triviale come sovversione, peraltro, non si coniuga con l'idea-cardine
che le forze innovative, eversive vengano necessariamente dal basso, poiché
qui - ut dicebatur - si è sganciati da connotazioni sociologiche e storiche.
Perfettamente inseriti in quel Sistema (la legge di mercato) che credono di
combattere con la loro rivoluzione privata - privée - i protagonisti
scelgono di procedere verso la Fine, l'autonegazione, la morte mediatica o
reale.
Wahlberg è il simbolo fallico attorno al quale si raduna la nuova setta di
accoliti, che si ridefiniscono rispetto ad esso: chi ha il privilegio di una
vacua, esclusiva affettività (la Moore), chi vorrebbe sottomettervisi (P.S.Hoffman),
chi ne coglie il fattore moltiplicatore per il proprio fatturato (Reynolds),
chi semplicemente ne legge il riflesso ludico (Graham), sino al soggetto più
lontano, l'anonimo aiutoregista (Macy), omicida-suicida in quel caos
relazionale che, semplicemente, lo ha già sganciato e dimenticato.
Dirk Diggler (Wahlberg) entra per caso nel giro del porno americano anni
Settanta, da cameriere-gigolò a star, e si nasconde subito dietro il nome
d'arte.
Anderson lo segue quasi assumendone lo sguardo in soggettiva,
progressivamente scavato, percorrendo le stanze della sua villa con fluidità
impressionante, quasi si trovasse dentro una coscienza vuota, ma piena di
epidermiche connotazioni relative allo status sociale (che tale mai
potrà essere, poiché autoreferenziale, onanistico, chiuso): vestiti e auto
esposte solo in presenza degli altri adepti e incapaci di fargli fare il
salto, di gettarlo nel mondo.
Il regista poco più che ventottenne espone un'insapettata cultura visuale,
esuberante, eccessiva, ma straordinaria nel fissare un'epoca nella sua
fragile policromia: il production design è stupefacente, la fotografia
alterna colori saturi e bassa risoluzione, mettendo in contrasto l'era della
pellicola e la rivoluzione dell'era-video (l'uso del mascherino e del
nuovo formato).
Fluidi piani sequenza, sventagiate panoramiche, carrelli: tutto dentro un
ambiente domestico, esibiti con autorevole proprietà del linguaggio
filmico, hanno rivelato nel '98 un possibile nuovo grande autore.
La direzione corale del cast, che qui funziona meglio di mille altre
pellicole successive, distribuisce i pesi narrativi con sapienza, attenta a
ritornare sempre sul tracciato principale (Dirk Diggler). L'opzione è
l'iperbole dello stile, il modello è Altman con redenzione e meno tagli di
montaggio. Che aumentano però con lo spezzettamento dei percorsi
esistenziali, frantumati dalla consumabilità della videocassetta, un virus
che trascina nuovi personaggi-realtà dentro la Neverland costruita attorno a
Diggler.
Il percorso esplode centripetamente, esce dalla villa, lancia gente morta
nel limbo del riciclo all'interno della società reale.
La narrazione, ora concitata, accoglie diversi vettori, su cui va
disponendosi e diramandosi, sino ai capolinea di ogni personaggio impegnato
nel contrassegnare la ritirata, privata e condivisa, di un microcosmo
trasgressivo, ma che ha represso il Desiderio primario: il
riconoscimento in termini affettivi. I colori si stingono e la m.d.p. si
pianta, ora ferma, davanti alle facce degli sconfitti, tra divorzi,
affidamenti mancati, contratti di lavoro che saltano per colpa di un passato
compromettente: è la vendetta di quella società esterna, potentemente
entrata nel campo visivo del film. In trance interpretativa, gli attori
creano la magia degenerativa di una famiglia disgregata il cui centro
drammatico è l'identità perduta, tradita, riciclata, venduta.
Trovandosi, alla fine di tutto, di fronte al se stessi che erano (Graham
e Wahlberg nelle parallele scene in auto, non-luogo o spazio di transizione
da un nulla all'altro), abbandonano la pelle che si erano scelta, nel
tentativo di rientrare attraverso la precedente in ciò che ancora si possa
chiamare esistenza.
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