ANALISI ESTESA DEL FILM

THE BLACK DAHLIA
di Brian De Palma
USA 2006
Con Josh Hartnett e Scarlett Johansson

di Gabriele FRANCIONI

A) HOLLYWOOD, Bulgaria

BLACK DAHLIA è un universo costruito come catarsi, distanziamento e soprattutto difesa dal reale volutamente occultato. Il corpo senza organi della donna uccisa possiede un quantum di realtà così ostinato da impedirne oggettive rappresentazioni, ma non la messa in scena, portata a compimento attraverso effetti espressivi estranei (il colore) e uso di figure e topoi familiari al genere di riferimento, il noir. Il film soffre di horror vacui citazionistico (The Birds, 1963; Lolita, 1962; L'homme qui rit, 1928, Paul Leni; L'ange noir, 1946, Roy William Neill) e autoreferenzialità diffusa, impegnato a riempire, così, l'involucro svuotato di Elizabeth Short.
Noi spettatori sostiamo chini sulla linea d'intersezione tra la scena della visione e l'immaginazione del reale, immersi in una fisarmonica del senso che sembra sfuggirci.
Il modello scelto è quello del nucleo tematico a sviluppo centrifugo: da esso dipartono una scrittura frammentata e una composizione formale che è spazio linguistico fantasmatico. Assistiamo così al definirsi di coscienze scisse (quelle dello scrittore e del regista) attraverso una sorta di duplicazione. Di fronte alla deflagrante esposizione del corpo sezionato ed esibito come oggetto d'arte, Ellroy e D.P. partoriscono infatti il proprio doppio: il Soggetto I agirà costretto dal senso di colpa di chi non sostiene l'eccedenza dello sguardo e metterà in cantiere un'impalcatura narrativa ed estetica che abbandona al suo destino Elizabeth Short, dimenticando anche l'esistenza di una qualche logica dell'intreccio.
Il Soggetto II riuscirà, invece, a confrontarsi brevemente con quel dato o immagine rimossi.
In fase 1, il regista si dedicherà a sovraesporre una tecnica registica tanto più alta quanto più inutile, mentre lo scrittore salterà a piè pari il cadavere di Betty, poiché incarna nella sua smembrata fisicità la madre assassinata e si dedicherà a stratificarle sopra varie sepolture. L'erranza centripeta viene declinata in un florilegio di testi e sottotesti, che se erano originariamente ben organizzati (il libro), scoraggiano ogni tentativo dello spettatore medio di ricondurli entro una qualche leggibilità.
In fase 2, De Palma si ritaglierà, invece, quadri ordinati di film nel film, atti unici rapsodici dove, per interposta pietas, sarà in grado di guardare dritto negli occhi della Dalia viva. Questa Liz ha occhi azzurri che interrogano, sono loro a entrare nel nostro corpo, operando dissezioni a ogni sguardo lanciato in macchina. Si suppone, difatti, che una voice-off, De Palma stesso, la stia esaminando in un provino presto declinante verso la deriva dell'outing sentimentale.
Altrove, ma sempre nell'universo blu di Wilmos Zsigmond, il dipartimento di polizia di Los Angeles visiona il film lesbo attorno al quale la storia svolta.
In esso la Short è già agnello sacrificale della Hollywood nascosta, fatta di golden room, orge pedofile, Man Ray e Walt Disney.
La Dalia di De Palma-2 non ha i connotati randagi del libro di Ellroy e nemmeno quelli del resto del film. Da puttana a provinciale inesperta e sognatrice: questo è lo scarto convinto imposto dal regista, che, per chi conosce la vicende del gennaio 1947 (si veda anche "ONE SIDE MAKES YOU LARGER", in Kinematrix. N.d.R.), serve come tributo a una più onesta ricostruzione del personaggio reale.
Anche Ellroy, in fase 2, sarà capace di lasciar decantare la propria imbarazzante misoginia, consegnandoci una Elizabeth più ricca, meno univoca ed equivoca.
In alcuni lampi del testo ribalta piuttosto nel doppio rappresentato da Madeleine - Hillary Swank, per una volta, e fatalmente, sessuata - i tratti scolpiti della prostituta d'altissimo bordo. è evidente sin dalle interviste veneziane quanto lo scrittore debba ancora lavorare sulla figura della madre, Geneva Hilliker, divorziata e uccisa dopo un rapporto sessuale con partner occasionale. Ellroy è mille miglia lontano da quel "well adjusted human being" che pretende di essere (ma la sua arte ne guadagna). Inaspettati anche i segnali di confessione, da parte dello scrittore, sul presunto assassino della Dalia.
Dopo aver negato alla mostra veneziana le ammissioni precedentemente rilasciate sul ruolo del medico George Hodel, ecco Ellroy intento a disseminare il testo di tracce e suggerimenti: un'insegna sulla quale sale il dolly nella fondamentale scena del ritrovamento, dice "Holden" , mentre il doppio psicopatico dell'imprenditore Emmett Lindscott ha il nome di Georgie. "Come ha potuto mantenere rapporti con un simile folle?", chiede a Lindscott Bucky Bleichert (che è Ellroy, mezzo tedesco e con padre malato, come nell'autobiografico MY DARK PLACES), "Lo sai anche tu che non si può resistere a un debole che implora il tuo aiuto. è un legame speciale, come quello con un fratellino un po' tocco".
Il passaggio, presente solo nel libro, serve peraltro a focalizzare bene l'attenzione sugli sdoppiamenti cui si accennava.
 

Il paradosso di BLACK DAHLIA è che Brian De Palma, ormai convinto della necessità esclusiva di noir postmoderni alla FEMME FATALE, tutto scarti narrativi, onirici à rebours e polisemia testuale, si sia impegnato a produrne uno che più classico non si può, evidente frutto di convergenze parallele tra regista e scrittore. Ellroy, autore da odi et amo, pretende una Los Angeles anni '40 di cartapesta, qui addirittura bulgara - cioè finta alla "n" - e collaboratori proni davanti a un ego senza confini (passi Curtis Hanson, ma D.P. ...), per portare a termine il suo testo infinito sull'America del subplot compulsivo: Howard Hughes che tira sempre le fila coi suoi mormoni, i repubblicani ad eseguire gli ordini, i Kennedy collusi con la mafia e poi traditori, etc etc etc. Auguriamoci solo che cose come SEI PEZZI DA MILLE non arrivino mai sullo schermo.
Il museo delle cere allestito per BLACK DAHLIA, retorico e indecrittabile, a forza di riletture - Mostra del Cinema, sala, dvd - riesce peraltro a farsi amare come un figlio perfettamente deforme, cioè Georgie nel finale, ove De Palma ricicla l'ordalia ellroyana in un montaggio sincopato di flash orrorifici che rimandano a PHANTOM OF THE OPERA. Il senso ultimo di B.D. è rintracciabile, comunque, in un unico piano sequenza, che rende esplicita la distanza tra cose e persone destinate a rimanere divise (distanza dal cadavere di Short, dal testo di J. Ellroy, da Los Angeles), principio-base e filosofia dell'intera operazione: la m.d.p. sale sopra un edificio in mattoni vicino a Leimert Park, sorvolandolo, sino a inquadrare, da -appunto- distanza siderale, un segno bianco sul prato in lontananza.
è quello che resta della Dalia, ma non lo vedremo mai completamente. è l'indicibile, l'irrappresentabile. Il contorno di corvi hitchcockiani crea un sottofondo difficile da dimenticare, mentre l'occhio del regista sceglie di evitare quella scena e vola altrove, verso una delle tante scritture superflue di Ellroy, inquadrando la prossima vittima di Lee Blanchard, Baxter Fitch. L'intera sequenza, dopo una breve incursione dentro la stanza da letto nell'edificio davanti al quale muore Betty, finisce dentro l'occhio di Liz Short, che ci guarda, che osserva Blanchard e Bleichert, ma non si lascia fissare in nessun modo. Il film vero è quello che lei vede, il film su di lei è impossibile.

B) UN PEZZO DA DIECI: ELIZABETH SHORT COME OPERA D'ARTE NELLA CIT DEGLI ANGELI

Elizabeth Short è diventata una Diva la notte tra il 14 e il 15 gennaio 1947, quando George Hodel ne divise in due il corpo con scienza e, dopo averlo lavato e ripulito, lo espose a mo' di body art sulla parete orizzontale e verde di un "lotto vacante", secondo l'espressione del 'L.A.P.D., nelle vicinanze di Leimert Park, South Norton Avenue di Los Angeles: a tutti gli effetti, lo spazio perverso sottratto a una mostra d'arte. Il cadavere era stato posizionato in modo da essere rivolto verso la scritta "Hollywood" che incombe sulla non-città californiana. Il taglio preciso da orecchio a orecchio apriva la bocca in un sorriso da Circo Barnum (circo che sino a quattro anni prima occupava proprio quel rettangolo ora invaso da sterpaglie).
Le braccia aperte rivolte verso l'alto, il corpo tagliato all'altezza della vita e fuori asse (un pezzo qua, l'altro distante una ventina di centimetri), le gambe aperte verso "Hollywood": l'ultimo saluto della non-attrice, ex-cameriera ed ex-telefonista Elizabeth Short da Medford, Massachusets, era un chiaro monito a tutte le altre wannabees dello showbiz, pieno di sottintesi sessuali e pronto per diventare l'icona-santino di un'epoca morente e di una nuova, gelida era per la City of Angels.
L'immagine ritornerà migliaia di volte a tormentare il costipatissimo immaginario collettivo americano, replicata e declinata in versioni più o meno transeunti. Almeno in un caso, però, con esiti di puro orrore: il video "Black Hole Sun" dei Soundgarden, subliminalmente malefico. "Black Dahlia" fu soprannominata tale solo a dissezione avvenuta, dagli amici di Miami: nulla di lei, in vita, aveva i caratteri della dark lady "rotten, rotten to the heart" (come sussurrano Barbara Stanwick in DOUBLE IDEMNITY e Rebecca Romijn in FEMME FATALE, assassine, dominatrici, attive), se non l'attitudine ad una laziness scontrosa associata al vivere vampirescamente la night-life losangelina e al rinchiudersi in black dresses molto sexy, perfettamente associati a capelli ramati, a occhi chiarissimi statisticamente rari e al sorriso artatamente sofisticato.
Il segnale lanciato dall'assassino - noi siamo con James Ellroy e, quindi, per la tesi di Steve Hodel - non fermò la transumanza di stelline dalla provincia americana, nonostante si fosse incarnato in quei due pezzi di nuova carne artaudiana (cronenberghiana ?) assai perturbanti e invadesse ogni centimetro quadrato dei cinque quotidiani locali.
La stampa e la polizia (leggiamo con cura "Severed" di John Gilmore) fecero un gran casino attorno a quell'ex-corpo:

a) corrompendo the evidence of the body poco dopo la scoperta;
b) coprendo prove certe, come le trascrizioni delle intercettazioni telefoniche e ambientali del medico George Hodel, amico intimo di Man Ray, Walt Disney e dei grandi produttori hollywoodiani.

 
Un freddo fanatico d'arte senza talento artistico, ma dotato di personalità diverse, elevabili alla "n", e capace d'imporre photo-sessions pedofile alla figlia pre-adolescente e di costringerla a simulazioni orgiastiche molto simili al "momento Alice in Wonderland" in WHERE THE THRUTH LIES di Atom Egoyan.
George Hodel era l'uomo intercettato mentre ipotizzava "suppose me having murdered the Black Dahlia: they couldn't prove it, 'cause my secretary is dead!" (a causa di una misteriosa overdose indotta, N.d.R.).
In questo cortocircuito di eccesso di evidenza (il cut-up della Short esposto come uno scatto di Man Ray o fotogramma di un noir estremo, o noir-horror, come dirà Lynch di LOST HIGHWAYS, altra filiazione di questo fiore nero) e di moltiplicazione di diaframmi in funzione di occultamento, sta il cuore marcio, rotten to the heart, della città dei missionari spagnoli.
Il problema, e con esso il rischio della vita, è venire a contatto con questa astrazione urbana senza un centro (lo è forse Downtown ?): le Liz Short, le Monroe, i messicani di Fante e quelli odierni, le Domino Harvey sono come Pacman destinato a morire nel videogioco - la griglia urbana squallidamente piatta - perché troppo lento per le truppe nemiche, che hanno facce indicibili, identità inimmaginabili, coperture altissime. BLACK DAHLIA dovrebbe raccontare tutto questo, ma già a fatica si fa decalcomania dentro le pagine strette di un libro; a forza diventa pamphlet sociologico o carta straccia per il gossip; impossibile, invece, che si incarni solo in un film. O in un solo film.
Infatti, tra le alternative truths di questa macro-narrazione, annotiamo che BLACK DAHLIA è stato già realizzato ed è MULHOLLAND DRIVE di David Lynch con innesti da FALSE VERI.  Per quanto divisa, comunque, Liz Short la martire salda due epoche e due anime della città: il torso e la testa sono la (in)coscienza di Marilyn (gli Anni Quaranta ebbri di vittoria bellica), il 1947 a un passo dalla guerra fredda; le gambe e il sesso offeso sono Manson (Charlie, quello che disse "I don't need to murder people: I just think it !"), un ponte con i Sixties di Bel Air e Sharon Tate. Un altro assassinio simbolico. Un'altra quasi-attrice squartata.
Anche lì: ragazzine adolescenti in cerca di un guru, di una guida, figlie delle classi altissime di Downtown o, come Liz, sciamanti dalla provincia primordiale verso le Summers Of Love tracimanti sesso e autocoscienza. La sintesi vivente o cyborg (quindi la ricongiunzione shelleyana di due pezzi, precedentemente severed, di corpi frankensteiniani) , l'ineffabile mutante Marilyn Manson, ha avuto l'intuizione geniale di condensare il valore binario del Male losangelino in un'unica morphè totemica e ha rilocato la dissoluzione del proprio soggetto in cinque minuti di delirante grandezza (LOST HIGHWAYS, ancora).
è ormai chiaro che il colpevole, villain e murderer, è la città stessa.
Nel momento in cui le identità delle vittime vanno verso una deriva di inevitabile scissione, duplicazione al solo contatto con Los Angeles (si veda il sogno ribaltato dell'arrivo glorioso di Diane Selwyn-Bette all'aeroporto, in MULHOLLAND DRIVE) quasi costringendo il soggetto a rincorrerle o autorincorrersi senza possedere gli strumenti psichici o intellettuali per affrontare il processo, è impossibile e insensato individuare altri soggetti "colpevoli" cui far risalire quel singolo danno o problemos di partenza.
Certamente, per un George Hodel, migliaia di produttori e faccendieri avranno intrecciato le loro esistenze già scisse, in quanto losangeline, con quelle originariamente immacolate di infinite elizabethshort desideranti "altro" dalla linearità unidimensionale della provincia ed eventualmente avranno agito su di esse infinite varietà di violenze psicologiche, materiali o fisiche: ma essi stessi sono vittime della città, del suo essere irrimediabilmente il doppio di qualcosa di assai labile, confutabile come il cinema. Il cinema è (il centro del)la città di L.A.; il "reale-reale" di South Central, tenta disperatamente la rincorsa verso questo ou-topos abitato da marchettari di sogni, che non restituirà/comunicherà nessuna felicità, ma solo vuoto, dispersione, deriva.
All'arrivo dei "Movies" (i filmakers in fuga dalla buia Chicago), il Luogo, il Topos fu violentato da chi non portò alcuna volontà di fondazione, ma che eresse a cosa perenne ciò che ne era l'opposto: il cinema, naturalmente.

THE BLACK DAHLIA
di Brian De Palma