A) HOLLYWOOD, Bulgaria
BLACK DAHLIA è un universo costruito come catarsi, distanziamento e
soprattutto difesa dal reale volutamente occultato. Il corpo senza organi
della donna uccisa possiede un quantum di realtà così ostinato da impedirne
oggettive rappresentazioni, ma non la messa in scena, portata a compimento
attraverso effetti espressivi estranei (il colore) e uso di figure e topoi
familiari al genere di riferimento, il noir. Il film soffre di horror vacui
citazionistico (The Birds,
1963; Lolita, 1962; L'homme
qui
rit, 1928, Paul Leni; L'ange
noir, 1946, Roy William Neill)
e autoreferenzialità diffusa, impegnato a riempire, così, l'involucro
svuotato di Elizabeth Short.
Noi spettatori sostiamo chini sulla linea d'intersezione tra la scena della
visione e l'immaginazione del reale, immersi in una fisarmonica del senso
che sembra sfuggirci.
Il modello scelto è quello del nucleo tematico a sviluppo centrifugo: da
esso dipartono una scrittura frammentata e una composizione formale che è
spazio linguistico fantasmatico. Assistiamo così al definirsi di coscienze
scisse (quelle dello scrittore e del regista) attraverso una sorta di
duplicazione. Di fronte alla deflagrante esposizione del corpo sezionato
ed esibito come oggetto d'arte, Ellroy e D.P. partoriscono infatti il
proprio doppio: il Soggetto I agirà costretto dal senso di colpa di
chi non sostiene l'eccedenza dello sguardo e metterà in cantiere
un'impalcatura narrativa ed estetica che abbandona al suo destino Elizabeth
Short, dimenticando anche l'esistenza di una qualche logica dell'intreccio.
Il Soggetto II riuscirà, invece, a confrontarsi brevemente con quel dato o
immagine rimossi.
In fase 1, il regista si dedicherà a sovraesporre una tecnica registica
tanto più alta quanto più inutile, mentre lo scrittore salterà a piè pari il
cadavere di Betty, poiché incarna nella sua smembrata fisicità la madre
assassinata e si dedicherà a stratificarle sopra varie sepolture. L'erranza
centripeta viene declinata in un florilegio di testi e sottotesti, che se
erano originariamente ben organizzati (il libro), scoraggiano ogni tentativo
dello spettatore medio di ricondurli entro una qualche leggibilità.
In fase 2, De Palma si ritaglierà, invece, quadri ordinati di film nel film,
atti unici rapsodici dove, per interposta pietas, sarà in grado di
guardare dritto negli occhi della Dalia viva. Questa Liz ha occhi azzurri
che interrogano, sono loro a entrare nel nostro corpo, operando dissezioni a
ogni sguardo lanciato in macchina. Si suppone, difatti, che una voice-off,
De Palma stesso, la stia esaminando in un provino presto declinante verso la
deriva dell'outing sentimentale.
Altrove, ma sempre nell'universo blu di Wilmos Zsigmond, il dipartimento di
polizia di Los Angeles visiona il film lesbo attorno al quale la storia
svolta.
In esso la Short è già agnello sacrificale della Hollywood nascosta, fatta
di golden room, orge pedofile, Man Ray e Walt Disney.
La Dalia di De Palma-2 non ha i connotati randagi del libro di Ellroy e
nemmeno quelli del resto del film. Da puttana a provinciale inesperta e
sognatrice: questo è lo scarto convinto imposto dal regista, che, per chi
conosce la vicende del gennaio 1947 (si veda anche "ONE SIDE MAKES YOU
LARGER", in Kinematrix. N.d.R.), serve come tributo a una più onesta
ricostruzione del personaggio reale.
Anche Ellroy, in fase 2, sarà capace di lasciar decantare la propria
imbarazzante misoginia, consegnandoci una Elizabeth più ricca, meno univoca
ed equivoca.
In alcuni lampi del testo ribalta piuttosto nel doppio rappresentato da
Madeleine - Hillary Swank, per una volta, e fatalmente, sessuata - i tratti
scolpiti della prostituta d'altissimo bordo.
è evidente sin dalle
interviste veneziane quanto lo scrittore debba ancora lavorare sulla figura
della madre, Geneva Hilliker, divorziata e uccisa dopo un rapporto sessuale
con partner occasionale. Ellroy è mille miglia lontano da quel "well
adjusted human being" che pretende di essere (ma la sua arte ne guadagna).
Inaspettati anche i segnali di confessione, da parte dello scrittore,
sul presunto assassino della Dalia.
Dopo aver negato alla mostra veneziana le ammissioni precedentemente
rilasciate sul ruolo del medico George Hodel, ecco Ellroy intento a
disseminare il testo di tracce e suggerimenti: un'insegna sulla quale sale
il dolly nella fondamentale scena del ritrovamento, dice "Holden" , mentre
il doppio psicopatico dell'imprenditore Emmett Lindscott ha il nome
di Georgie. "Come ha potuto mantenere rapporti con un simile folle?", chiede
a Lindscott Bucky Bleichert (che è Ellroy, mezzo tedesco e con padre malato,
come nell'autobiografico MY DARK PLACES), "Lo sai anche tu che non si può
resistere a un debole che implora il tuo aiuto.
è un legame speciale, come
quello con un fratellino un po' tocco".
Il passaggio, presente solo nel libro, serve peraltro a focalizzare bene
l'attenzione sugli sdoppiamenti cui si accennava.
Il
paradosso di BLACK DAHLIA è che Brian De Palma, ormai convinto della
necessità esclusiva di noir postmoderni alla FEMME FATALE, tutto
scarti narrativi, onirici à rebours e polisemia testuale, si sia
impegnato a produrne uno che più classico non si può, evidente frutto di
convergenze parallele tra regista e scrittore. Ellroy, autore da
odi et amo, pretende una Los Angeles anni '40 di cartapesta, qui
addirittura bulgara - cioè finta alla "n" - e collaboratori proni davanti a
un ego senza confini (passi Curtis Hanson, ma D.P. ...), per portare a
termine il suo testo infinito sull'America del subplot compulsivo:
Howard Hughes che tira sempre le fila coi suoi mormoni, i repubblicani ad
eseguire gli ordini, i Kennedy collusi con la mafia e poi traditori, etc etc
etc. Auguriamoci solo che cose come SEI PEZZI DA MILLE non arrivino mai
sullo schermo.
Il museo delle cere allestito per BLACK DAHLIA, retorico e indecrittabile, a
forza di riletture - Mostra del Cinema, sala, dvd - riesce peraltro a farsi
amare come un figlio perfettamente deforme, cioè Georgie nel finale,
ove De Palma ricicla l'ordalia ellroyana in un montaggio sincopato di flash
orrorifici che rimandano a PHANTOM OF THE OPERA. Il senso ultimo di B.D. è
rintracciabile, comunque, in un unico piano sequenza, che rende esplicita la
distanza tra cose e persone destinate a rimanere divise (distanza dal
cadavere di Short, dal testo di J. Ellroy, da Los Angeles), principio-base e
filosofia dell'intera operazione: la m.d.p. sale sopra un edificio in
mattoni vicino a Leimert Park, sorvolandolo, sino a inquadrare, da -appunto-
distanza siderale, un segno bianco sul prato in lontananza.
è quello che resta della
Dalia, ma non lo vedremo mai completamente.
è l'indicibile, l'irrappresentabile.
Il contorno di corvi hitchcockiani crea un sottofondo difficile da
dimenticare, mentre l'occhio del regista sceglie di evitare quella
scena e vola altrove, verso una delle tante scritture superflue di
Ellroy, inquadrando la prossima vittima di Lee Blanchard, Baxter Fitch.
L'intera sequenza, dopo una breve incursione dentro la stanza da letto
nell'edificio davanti al quale muore Betty, finisce dentro l'occhio
di Liz Short, che ci guarda, che osserva Blanchard e Bleichert, ma non si
lascia fissare in nessun modo. Il film vero è quello che lei
vede, il film su di lei è impossibile.
B) UN PEZZO DA DIECI: ELIZABETH SHORT COME OPERA D'ARTE NELLA CITtà
DEGLI ANGELI
Elizabeth Short è diventata una Diva la notte tra il 14 e il 15 gennaio
1947, quando George Hodel ne divise in due il corpo con scienza e, dopo
averlo lavato e ripulito, lo espose a mo' di body art sulla parete
orizzontale e verde di un "lotto vacante", secondo l'espressione del 'L.A.P.D.,
nelle vicinanze di Leimert Park, South Norton Avenue di Los Angeles: a tutti
gli effetti, lo spazio perverso sottratto a una mostra d'arte. Il cadavere
era stato posizionato in modo da essere rivolto verso la scritta "Hollywood"
che incombe sulla non-città californiana. Il taglio preciso da orecchio a
orecchio apriva la bocca in un sorriso da Circo Barnum (circo che sino a
quattro anni prima occupava proprio quel rettangolo ora invaso da
sterpaglie).
Le braccia aperte rivolte verso l'alto, il corpo tagliato all'altezza della
vita e fuori asse (un pezzo qua, l'altro distante una ventina di
centimetri), le gambe aperte verso "Hollywood": l'ultimo saluto della
non-attrice, ex-cameriera ed ex-telefonista Elizabeth Short da Medford,
Massachusets, era un chiaro monito a tutte le altre wannabees dello
showbiz, pieno di sottintesi sessuali e pronto per diventare l'icona-santino
di un'epoca morente e di una nuova, gelida era per la City of Angels.
L'immagine ritornerà migliaia di volte a tormentare il costipatissimo
immaginario collettivo americano, replicata e declinata in versioni più o
meno transeunti. Almeno in un caso, però, con esiti di puro orrore: il video
"Black Hole Sun" dei Soundgarden, subliminalmente malefico. "Black Dahlia"
fu soprannominata tale solo a dissezione avvenuta, dagli amici di Miami:
nulla di lei, in vita, aveva i caratteri della dark lady "rotten, rotten to
the heart" (come sussurrano Barbara Stanwick in DOUBLE IDEMNITY e Rebecca
Romijn in FEMME FATALE, assassine, dominatrici, attive), se non l'attitudine
ad una laziness scontrosa associata al vivere vampirescamente la
night-life losangelina e al rinchiudersi in black dresses molto sexy,
perfettamente associati a capelli ramati, a occhi chiarissimi
statisticamente rari e al sorriso artatamente sofisticato.
Il segnale lanciato dall'assassino - noi siamo con James Ellroy e, quindi,
per la tesi di Steve Hodel - non fermò la transumanza di stelline dalla
provincia americana, nonostante si fosse incarnato in quei due pezzi di
nuova carne artaudiana (cronenberghiana ?) assai perturbanti e invadesse
ogni centimetro quadrato dei cinque quotidiani locali.
La stampa e la polizia (leggiamo con cura "Severed" di John Gilmore) fecero
un gran casino attorno a quell'ex-corpo:
a)
corrompendo the evidence of the body poco dopo la scoperta;
b) coprendo prove certe, come le trascrizioni delle intercettazioni
telefoniche e ambientali del medico George Hodel, amico intimo di Man Ray,
Walt Disney e dei grandi produttori hollywoodiani.
Un freddo fanatico d'arte senza talento artistico, ma dotato di personalità
diverse, elevabili alla "n", e capace d'imporre photo-sessions pedofile alla
figlia pre-adolescente e di costringerla a simulazioni orgiastiche molto
simili al "momento Alice in Wonderland" in WHERE THE THRUTH LIES di Atom
Egoyan.
George Hodel era l'uomo intercettato mentre ipotizzava "suppose me having
murdered the Black Dahlia: they couldn't prove it, 'cause my secretary is
dead!" (a causa di una misteriosa overdose indotta, N.d.R.).
In questo cortocircuito di eccesso di evidenza (il cut-up della Short
esposto come uno scatto di Man Ray o fotogramma di un noir estremo, o
noir-horror, come dirà Lynch di LOST HIGHWAYS, altra filiazione di questo
fiore nero) e di moltiplicazione di diaframmi in funzione di
occultamento, sta il cuore marcio, rotten to the heart, della città
dei missionari spagnoli.
Il problema, e con esso il rischio della vita, è venire a contatto con
questa astrazione urbana senza un centro (lo è forse Downtown ?): le Liz
Short, le Monroe, i messicani di Fante e quelli odierni, le Domino Harvey
sono come Pacman destinato a morire nel videogioco - la griglia urbana
squallidamente piatta - perché troppo lento per le truppe nemiche, che hanno
facce indicibili, identità inimmaginabili, coperture altissime. BLACK DAHLIA
dovrebbe raccontare tutto questo, ma già a fatica si fa decalcomania dentro
le pagine strette di un libro; a forza diventa pamphlet sociologico o carta
straccia per il gossip; impossibile, invece, che si incarni solo in
un film. O in un solo film.
Infatti, tra le alternative truths di questa macro-narrazione,
annotiamo che BLACK DAHLIA è stato già realizzato ed è MULHOLLAND DRIVE di
David Lynch con innesti da FALSE VERItà.
Per quanto divisa, comunque, Liz Short la martire salda due
epoche e due anime della città: il torso e la testa sono la
(in)coscienza di Marilyn (gli Anni Quaranta ebbri di vittoria bellica), il
1947 a un passo dalla guerra fredda; le gambe e il sesso offeso
sono Manson (Charlie, quello che disse "I don't need to murder people: I
just think it !"), un ponte con i Sixties di Bel Air e Sharon Tate. Un altro
assassinio simbolico. Un'altra quasi-attrice squartata.
Anche lì: ragazzine adolescenti in cerca di un guru, di una guida, figlie
delle classi altissime di Downtown o, come Liz, sciamanti dalla provincia
primordiale verso le Summers Of Love tracimanti sesso e autocoscienza. La
sintesi vivente o cyborg (quindi la ricongiunzione shelleyana di due pezzi,
precedentemente severed, di corpi frankensteiniani) , l'ineffabile
mutante Marilyn Manson, ha avuto l'intuizione geniale di condensare il
valore binario del Male losangelino in un'unica morphè totemica e ha
rilocato la dissoluzione del proprio soggetto in cinque minuti di
delirante grandezza (LOST HIGHWAYS, ancora).
è ormai chiaro che il
colpevole, villain e murderer, è la città stessa.
Nel momento in cui le identità delle vittime vanno verso una deriva di
inevitabile scissione, duplicazione al solo contatto con Los Angeles
(si veda il sogno ribaltato dell'arrivo glorioso di Diane
Selwyn-Bette all'aeroporto, in MULHOLLAND DRIVE) quasi costringendo il
soggetto a rincorrerle o autorincorrersi senza possedere gli strumenti
psichici o intellettuali per affrontare il processo, è impossibile e
insensato individuare altri soggetti "colpevoli" cui far risalire quel
singolo danno o problemos di partenza.
Certamente, per un George Hodel, migliaia di produttori e faccendieri
avranno intrecciato le loro esistenze già scisse, in quanto losangeline, con
quelle originariamente immacolate di infinite elizabethshort
desideranti "altro" dalla linearità unidimensionale della provincia ed
eventualmente avranno agito su di esse infinite varietà di violenze
psicologiche, materiali o fisiche: ma essi stessi sono vittime della città,
del suo essere irrimediabilmente il doppio di qualcosa di assai labile,
confutabile come il cinema. Il cinema è (il centro del)la città di L.A.; il
"reale-reale" di South Central, tenta disperatamente la rincorsa verso
questo ou-topos abitato da marchettari di sogni, che non
restituirà/comunicherà nessuna felicità, ma solo vuoto, dispersione, deriva.
All'arrivo dei "Movies" (i filmakers in fuga dalla buia Chicago), il Luogo,
il Topos fu violentato da chi non portò alcuna volontà di fondazione, ma che
eresse a cosa perenne ciò che ne era l'opposto: il cinema, naturalmente.
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