1.ONORE E MERITO
Dolmen Video,
Fondazione Prada, Biennale Cinema, oltre a Marco Muller
e Maria Roberta Novielli, sono riusciti nell'impresa di tradurre in
realtà ciò che spesso gli enti culturali promettono senza mantenere.
Come in occasione dei restauri di capolavori del passato, si ha la
piacevolissima sensazione che si sia compiuto un miracolo, in un settore
avvezzo a disperdere le risorse e poco sensibile a operazioni di alto
livello culturale e anche con buone possibilità di successo presso il
pubblico.
Tutto il nostro plauso, quindi, e il caldo suggerimento ai lettori:
andate e comprate, se ci è concessa l'espressione, perché è inutile
vivere da tarantiniani o kitaniani integralisti se non si è realmente visto
ciò che loro hanno visto e perché vivere in epoche affette da coazione a
ripetere ciclicamente la propria natura postmoderna, richiede la conoscenza
delle fonti delle citazioni.
A questo proposito, anche Francesco Melzi d’Eril, direttore generale
Dolmen, ha affermato che "il desiderio di raccogliere in un unico grande
progetto questi capolavori nasce anche dall’influenza che la cinematografia
giapponese, con le sue scelte stilistiche, narrative e tematiche sta
esercitando sulle produzioni occidentali. Il successo di queste opere,
apparentemente dimenticate, è oggi testimoniato, ad esempio, dal cinema di
Quentin Tarantino, che in Fukasaku trova uno dei suoi punti di riferimento
più saldi".
L'uscita e la presenza sul mercato del Dvd contenente LOTTA SENZA CODICE
D'ONORE, uno dei capolavori di Fukasaku Kinji, è quindi un evento di enorme
rilevanza, difficilmente confinabile al mero ambito della cinefilia colta:
dà, per così dire, il buon esempio a chi non comprende le potenzialità di un
mercato che ragiona anche sui tempi lunghi, laddove l'acquisto di un
dischetto riproducente il blockbuster del momento è destinato ad esaurirsi
nell'atto della ri-visione domestica e, perdonateci la crudeltà, della
veloce rivendita su Ebay.
Chi compra le opere di Kato Tai e Fukasaku può appartenere a qualunque
fascia generazionale; può essere lo spettatore-studioso attento e
puntiglioso o il teenager svezzatosi a colpi di manga e videogame (occhio
veloce, apprezzamento della cinesi visiva); può persino essere un semplice
amante della serialità cinetelevisiva, in ansia per le sorti dell'eroe
eternamente ritornante sullo schermo (pensiamo ad esempio alla serie LA
GIOCATRICE DELLA PEONIA SCARLATTA, di Kato).
Chi legge queste righe, insomma, deve rendere il giusto merito
all'operazione di ripresa di opere in Italia sconosciute, piacevolissime da
vedere e da analizzare. Il nostro augurio è che il miracolo si ripeta,
moltiplicando i titoli ed estendendo il raggio d'azione, con un supporto
promozionale, se possibile, ancora più forte ed esteso.
2.YAKUZA-EIGA
La storia dei film sulla yakuza giapponese si snoda, all'incirca,
attorno a tre momenti-chiave:
-
il periodo pre-anni '60, con le pellicole
tradizionali a loro volta derivate da generi più convenzionali quali il
chanbara (combattimenti con la spada) e il jidaigeki (film in
costume). In essi, il boss mafioso è circondato da un'aura di mito e
di rispetto che si riflette sullo stile, controllato, e sulla schematicità
del racconto, infarcito di topoi ricorrenti, spesso pretesto per scene
d'azione multiple.
Lealtà (giri) e sentimento personale (ninjo) sono in
equilibrio stabile
-
la cosiddetta "revisione", che ha come
esponenti principali Suzuki Seijun, Kato Tai e Fukasaku Kinji,
riguardante un lasso di tempo che comprende all'incirca i tre lustri tra la
fine degli anni '50 e il 1973/6.
All'esasperata stilizzazione pop, kitsch e iconoclasta del primo e alla
purezza priva d'ironia del secondo, che ha fatto parlare di "Ozu degli
yakuza eiga", Fukasaku contrappone un marchio documentaristico da reportage
televisivo al proprio lavoro, in linea con la coeva massmediatizzazione di
eventi tragici diffusi via etere (vengono in mente i telegiornali dal fronte
cambogiano e vietnamita). Jitsuroku yakuza eiga, film di mafia come
documenti reali, è la corretta definizione, suggerita da Maria Roberta
Novielli negli extra del Dvd della Dolmen Video e nel suo
fondamentale testo "Storia del Cinema Giapponese" (Venezia, Marsilio, 2001).
Nei film di tutti e tre i registi è messo in discussione, oltre ai codici di
stile, quello comportamentale: il sentimento personale comincia a prendere
il sopravvento sulle logiche di casta
-
la radicale "rivoluzione" degli anni '90
(Kitano, Miike): dopo un periodo buio di crisi delle case
produttrici e di silenzio creativo durato un ventennio, viene rimessa in
circolo tutta una serie di personaggi estremi, slegati ormai da un diretto
referente bellico, ma, proprio per questo, capaci di agire secondo i canoni
di una violenza "priva di giustificazione".
Il ninjo porta queste figure a ripensare la tragica contrapposizione
Tradizione - Tecnologia ammodernante quasi fosse un'angst interiore
lacerante, spinta sino alle mutazioni del corpo fisico, derivandone esiti
tra loro antitetici e incarnandosi ora nella purezza dell'eroe solitario e
cinico, ora nella condivisione collettiva di una coscienza generazionale
scissa (ci mettiamo AVALON, BATTLE ROYALE, HANA BI e ICHI THE KILLER).
La deriva del genere è completata da uno sperimentalismo sulfureo aperto ad
ogni soluzione e a tutti i formati possibili, in grado di influenzare autori
americani (Tarantino, naturalmente), capaci a loro volta di restituire i
segni della lezione, ma carichi di un'ironia tutta occidentale (KILL BILL)
è,
peraltro, l'intera area lontanorientale a rivedere i propri
codici visivi e narrativi a partire dai tardi anni '80 e a innescare
l'inevitabile effetto a catena di influenze incrociate e transnazionali. In
un cinema più genericamente d'azione (è evidente che siamo già fuori
dalla categoria strettamente nipponica degli yakuza-eiga), da John
Woo a Johnny To, Hong Kong, sino ai sudcoreani Kim Jae-Woon e Park Chan-Wook
e al vietnamita Tsui Hark, vengono messi in cortocircuito i codici visivi e
narrativi del genere.
Al centro è sempre l'implosione del singolo essere umano che rielabora in
maniera centripeta e autopunitiva il problemos di una qualche
guerra o smacco collettivo, nazionale. Guerra di Corea, Vietnam, Cambogia,
contrapposizione di Cina versus Hong Kong/Taiwan: il nemico,
nelle culture taoiste-buddhiste-confuciane, viene sempre tenuto fuori scena,
quasi non giudicato.
Rimane sul campo di battaglia, invece, solo il precipitato di quei
conflitti che, dopo il processo di decantazione generato dagli anni, è
sempre la Modernità, fardello insopportabile del testa-coda
Oriente/Occidente, ma comunque vincente e meritevole di rielaborazione,
seppur in ambito di lutto.
I "wild bunches" di To, i poliziotti di John Woo, i rinchiusi
vendicativi di Park e, ultimo arrivato, l'implacabile Sun-Woo di A
BITTERSWEET LIFE: una teoria di piccole isole morali in rappresentanza di
altrettanto piccole nazioni-isole/penisole, quali
Giappone-Corea-Vietnam-Taiwan-Hong Kong, oppresse dal gigantismo
anglo-americano o della stessa Cina.
Davide versus Golia con, in mezzo, apparati tecnologici a mo' di
reperto archeologico mutante.
Fucili e pistole vengono utilizzate come spade, a difesa dell'onore
irrimediabilmente leso e di eroi incapaci di redenzione.
3. IL FILM DI
FUKASAKU KINJI
LOTTA SENZA CODICE D'ONORE si apre significativamente su titoli di testa
rosso sangue, sovrapposti come un marchio ideogrammatico alle nature morte
in bianco e nero di immagini da cinegiornale della regione di Hiroshima,
anno 1945: il fungo prodotto dalla bomba, l'immediata distruzione, il
disfarsi di edifici, di corpi, di una societas.
Si dice che poco dopo l'esplosione, come ulteriore e sorprendente effetto
disgregativo nei confronti di un corpo sociale, madri e figli iniziassero a
vagare da soli tra i resti delle città bombardate, insensibili al richiamo
del legame di sangue.
Un anno dopo quell'evento (JINGI NAKI TATAKAI inizia nel 1946), la violenza
diventava sopravvivenza, fatto privato, sostituendosi alla guerra e il
Giappone veniva invaso al proprio interno da un popolo di isolati e
depredati.
La pellicola di Fukasaku Kinji (qui
la filmografia completa, N.d.W)
virando verso il colore e zoomando su una baraccopoli che è l'esatto opposto
dell'ordinata architettura di quel paese, mette poi in scena alcuni soldati
americani bercianti ("Come on, get in, you bitch!") metaforicamente intenti
a stuprare una giovane donna, coperti dalla polizia locale. Gli altri umani
posti ai margini, ormai senza la protezione dell'esercito, scelgono quella
alternativa, garantita dalla yakuza.
Altrove, un carcere accoglie momentaneamente e seleziona le nuove disperate
categorie sociali, definendosi come filtro tra la libertà del
cittadino giapponese sconfitto, quindi disonorato, e la clandestinità
rispettata della malavita ancorata alle regole della tradizione.
Fino a un certo punto, però: tra innovazione modernistica e velocizzata dei
rituali d'iniziazione alla famiglia ("La cerimonia è semplificata,
secondo i tempi...") e provenienza incerta dei nuovi affiliati (confluivano
nell'organizzazione segreta quei semplici diseredati e molti delinquenti
comuni), anche questa strada veniva percorsa col rischio di vedere inquinato
il codice d'onore di cui parla il titolo.
Non è un caso che il protagonista Shozo Hirono parta dalla galera per
riscattarsi (non è nessuno, non è un affiliato) ed entrare nella mafia
locale grazie al patto di sangue con un importante yakuza lì rinchiuso:
bellissima ed esplicativa la scena in cui una cella ripresa zenitalmente, e
non la tradizionale residenza giapponese, si mostra come nuova e aggiornata
sede per l'affiliazione.
La cerimonia, in un luogo simile, non viene invece semplificata secondo i
tempi.
Ciò che accade qui conterà, per lo sviluppo narrativo, più degli eventi
vissuti en plein air, una volta ottenuta la scarcerazione per
intercessione dei nuovi protettori.
è
come se Fukasaku ci avvertisse che un singolo o un'intera nazione debba,
possa ritornare a vedere la luce solo portandosi al grado zero dell'onore,
ma per risalire attraverso successive catarsi poste al termine di un
processo in cui è fondamentale la difesa e la rappresentazione del concetto
d'identità, di unicità, contro l'assunzione aprioristica di precetti
ritenuti validi solo perché vincenti, prodotti da quella parte di
mondo che in qualche modo ha prevalso.
LOTTA SENZA CODICE D'ONORE è la puntuale rappresenzatione dello scontro tra
la visione "critica" (Hirono e l'amico) e il nuovo modo d'agire suggerito
dalla modernizzazione (la yakuza di Hiroshima, dimentica dei precetti e
decaloghi del passato).
La messa in discussione delle figure dei Capi,
colpevoli a loro volta di rompere i patti e tramare all'interno stesso delle
famiglie, è un elemento eversivo di grande potenza e innovazione tanto
narrativa quanto visiva: la fissità di cui si diceva lascia spazio a una
regia più libera.
Maria Roberta Novielli, co-curatrice della Retrospettiva presentata alla 62°
Mostra del Cinema di Venezia, osserva correttamente nell'intervista inserita
all'interno degli extra: "(Fukasaku) rompe quella patina di romanticismo che
legava i vecchi codici intorno ai personaggi e li avvicinava ad una
condizione divina, piuttosto che umana".
"(Egli) utilizza il mondo degli yakuza, ma fa in modo che costoro siano
parafrasi dell'etnia dei sopravvissuti alla guerra, quasi che il loro
vivere ai confini della legge rappresenti una forma di disadattamento
sociale. Già nel titolo, LOTTA SENZA CODICE D'ONORE e LA TOMBA DELL'ONORE
(altro capitolo degli otto componenti la saga di JINGI NAKI TATAKAI),
offrono il senso di questa mancanza o vuoto che si crea intorno ai codici
morali degli esseri umani contemporanei".
L'incipit documentaristico, nudo e violento, mette in campo subito la
qualità precipua di Fukasaku: il cambiamento imposto dai tempi produce
un'estetica che aggiorna costantemente i propri codici, in parallelo alla
revisione dei codici morali, mettendo in atto alcune importanti innovazioni
stilistiche (uso esplicativo dello stop-motion, poi diventato un topos
tarantiniano; didascalie in serie; camera a mano in grande evidenza anche
negli interni; uso parossistico dello zoom, anch'esso ripreso dal regista
italoamericano etc.) grazie alle quali il genere yakuza si libera dello
schematismo che ne aveva decretato la crisi.
Non si può negare che sia stata la televisione ad accelerare i tempi del
cambiamento, sostituendo in qualche modo il teatro tradizionale nel ruolo di
riferimento visivo.
Significativo, al proposito, l'abbandono della netta contrapposizione tra la
fissità degli interni (cui era affidato principalmente il compito di
sviluppare la parte narrativa) e le scene d'azione en plein air, mutuate dai
chanbara.
Il regista gira interni assai cinetici, convulsi e drammatici - nel taglio
del dito, però, c'è spazio per l'ironia, come anche nel precedente braccio
mozzato, che tanto ha influenzato KILL BILL nella sequenza degli Ottanta
Pazzi - e riesce persino durante i dialoghi a conferire dinamismo al suo
stile di regia: lenti movimenti circolari e posizionamenti sghembi della
macchina da presa caratterizzano le scene di gioco e d'iniziazione.
Se Kato aveva già prodotto la sua rivoluzione abbandonando il trucco
espressionista, funzionale alla trasfigurazione del soggetto normale
verso l'eccezione, l'anonimo verso la perfezione, anche in senso di
bellezza fisica, ma poi aveva deposto la m.d.p. a terra, Fukasaku riparte da
qui, riprendendo la cinepresa in mano e spogliando ulteriormente la scena e
i personaggi, losers, emarginati, residuati bellici di un'umanità
senza centro e perennemente in movimento per le strade, nuovo habitat per i
diseredati.
Eppure il soldato Shozo, che attraversa catarsi successive, passando dalla
rissa iniziale alla galera, dal patto d'onore all'autopunizione fisica, sino
ad immergersi nelle dinamiche corrotte della famiglia Yamamori, foriere di
tradimenti e di una nuova detenzione, contrappone a tale degenerazione un
istintuale e primordiale desiderio di purezza, vissuto nel rapporto con il
nuovo fratello di sangue.
Il cinema di F. è seducente, mosso da un vitalismo esasperato cui ogni
elemento della regia è messo al servizio: dalle variazioni della messa a
fuoco (anche quattro in una sola scena), al cromatismo da documento-realtà,
al dettaglio mai gratuito.
Difficile liquidare gli yakuza eiga (e anche il genere pinku,
erotico, caro a Suzuki Seijun) con la supponenza di una critica radical-chic
mestamente attestata su posizioni di cecità verso l'innovazione cruda ed
eversiva che attraversato questi generi sino ad oggi, accusati di esprimere
un "cinismo senza limite" e di "dar voce agli oscuri risentimenti di
minoranze alienate".
Kinematrix tornerà, con un breve speciale, sull'argomento, convinti come
siamo - e anche Mishima Yukio lo era - che solo dall'annullamento
consapevole del regista nell'esercizio imposto dalla pratica dei generi,
sino ad una folle produzione di 20, 30 titoli in un decennio (Suzuki prima,
Miike oggi), il cinema possa trovare materia d'infinita autoriproduzione,
una volta liberatosi dalla nozione di "autore".
VOTO: 29/ 30
17/07/2006
www.emik.it
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