RECENSIONE DVD ED EXTRA

LENINGRAD COWBOYS GO AMERICA
di Aki Kaurismaki
Finlandia 1989

Con Richard Boes e Duke Robillard

di Marco Grosoli


Quanto è cambiato Aki Kaurismaki. Fa un effetto strano rivedere oggi Leningrad cowboys go America: ci riporta al tempo in cui il regista finlandese in un qualche modo si appagava del suo minimalismo, senza che, come avverrà nella sua fase “matura”, questo minimalismo si lasciasse trasportare con naturalezza verso cose immensamente più grandi di lui (la Provvidenza in Nuvole in viagGIO, il cinema in Juha, la memoria/oblio come fondamento dell'essere in L'uomo senza passato, gli intrecci tragici tra Potere e Desiderio nell'ultimo Luci nel crepuscolo).
Leningrad cowboys go America fa dunque parte di questa fase forse acerba ma godibilissima in cui il linguaggio visivo striminzito fino all'osso di Kaurismaki serve pressoché esclusivamente ad inanellare una serie di gag (e la gag è una delle “frontiere” più tipiche a cui si rivolge il linguaggio una volta stirato verso il proprio limite). La trama è un pretesto (un ingessato gruppo delle steppe sovietiche va in America per fare fortuna, e finisce a suonare ai matrimoni in Messico), quello che conta è lo svagato, spensierato susseguirsi di gag, numeri musicali e (notevoli) parentesi contemplative sull zone più “off” del paesaggio americano. Insomma, un occhio fotografico non da poco si accompagna alla capacità di sapersi accontentare (con superiore padronanza, peraltro)dell'ABC del cinema senza tanti fronzoli – anche se poi fa capolino qualcosa di più: il personaggio dell'avido (anche se in fondo bonaccione) manager dei Leningrad Cowboys lascia trapelare le dinamiche dello sfruttamento economico, la cui visualizzazione nel cinema di Kaurismaki è sempre lo scheletro da cui deve prendere le mosse tutto ciò che valga la pena da essere filmato; una sorta di dato materiale di base la cui evidenza lo rende obbligatoriamente il punto di partenza fondamentale del filmabile.
Come il suo gruppo rifà il rock & roll con tutto lo straniamento apportato dai loro bizzarri costumi (scarpe a punta e ciuffo chilometrico) e dalla “nordicità” del loro pallore e della loro rigidità, Kaurismaki “rifà” Jim Jarmusch (che compare in un cameo) confezionando (sul suo stesso terreno) un calco del suo minimalismo discostandosene per maggior freddezza. Un road movie atipico, scandito da continue didascalie, che pascola tranquillo nell'orizzontalità e si infischia delle verticalità narrative, e che mette tranquillamente sullo stesso piano metropoli come New Orleans e il più sperduto paesino del Sud: d'altra parte, il cuore del meccanismo messo in atto è proprio far scontrare l'essenzialità (del linguaggio) con la stralunata estemporaneità degli alleggerimenti umoristici.

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