ANALISI ESTESA DEL FILM

IN THE CUT
di Jane Campion
USA 2003
Con Meg Ryan, Kevin Bacon

di Marco GROSOLI


Strano esempio di film oscuro con idee chiarissime, questo. Molte tracce ci vengono offerte su come interpretare questo ambizioso “anti-thriller” in cui un’insolita Meg Ryan timida professoressa conosce un poliziotto che indaga su un omicidio, se ne innamora e in seguito lo sospetta colpevole insieme a praticamente tutte le altre sue conoscenze maschili. Al limite della didascalia, volendo malignare: citazioni letterarie “in tema” lette sulla metropolitana, frequente ricorso al parallelismo con la vicenda del pluriomicida John Gacy (con tanto di pistolotto da bignami di psicologia “Gacy = vittima del desiderio”), e quant’altro. Mai come in questo film assistiamo a una quadratura così evidente di temi cari alla neozelandese (ad esempio si cita tre volte - una addirittura durante il climax narrativo appena prima del finale - “Gita al faro” della Woolf, il cui inimitabile monologo converge da sempre con le sconnesse emotività della sua mise en scene), ma la Campion è una grande regista e non si accontenta certo di un’ennesima escursione dentro la scissione (“in the cut” appunto) maschio-femmina, sempre problematica e mai riducibile allo schemino paradigmatico.
Ma è necessario sorvolare, perché il cuore del film è un altro. “Disarticolazione” è il termine chiave. La stessa protagonista, che raccoglie idee per la scrittura accatastando appunti disordinati, a inizio film è come affascinata da questa parola sentita a proposito dell’omicidio. Infatti, persiste in In the cut una instancabile frammentazione di tutti gli elementi del film, come fuggendo da qualsiasi punto fermo (come non pensare alla Kidman che all’inizio di Ritratto di Signora davanti alla statua esprimeva il suo terrore per la pietrificazione?). La luce diventa una misteriosa appendice del buio (grazie alla miracolosa fotografia di Dion Beebe), una lattiginosa e ingestibile sorgente del vedere. Le scissioni tra i personaggi (caratterizzati come spesso nei suoi film fino alle soglie del grottesco) prima si moltiplicano (lei che vuole apparire più fredda possibile e la sorella debole e emotiva, il poliziotto macho e quello criptogay) poi si sfumano (lei crolla emotivamente, i due poliziotti si dimostrano sempre più complici e uniti). Nessuna scena ha un centro visivo (grazie anche alla macchina a mano), imperversano i dettagli collegabili all’interiorità della protagonista (la maggior parte dei quali riguardano piccoli gesti del poliziotto - che apre una portiera, bussa alla porta, cambia marcia etc. - efficaci segnali della di lei fascinazione verso la sua “attiva” virilità) fino all’annegamento nel “flusso” (ancora la Woolf…). Neppure la fellatio che segna l’inizio della discesa di Meg nel buio urbano: pur alludendo inequivocabilmente, è vista come di striscio, inquadrata più volte e mai in modo netto e centrato. È un maelstrom passionale “in soggettiva” in cui alla fine il “whodunit” crolla di rilevanza - ma non se ne avvantaggia la “definizione psicologica” della protagonista. La quale anzi ne esce psicologicamente squartata: galleggia in superficie l’inconciliabilità delle sue affezioni più profonde, saggiamente irrisolta, che non trova mai uno sbocco minimamente definito (niente idillio amoroso come quello dei genitori che lei sogna in continuazione). Per questo l’immagine più bella del film ci sembra quella, quasi conclusiva, della professorina che alle prime luci del giorno fa l’autostop imbrattata di sangue.