Strano esempio di film oscuro con idee chiarissime, questo. Molte tracce ci
vengono offerte su come interpretare questo ambizioso “anti-thriller” in cui
un’insolita Meg Ryan timida professoressa conosce un poliziotto che indaga
su un omicidio, se ne innamora e in seguito lo sospetta colpevole insieme a
praticamente tutte le altre sue conoscenze maschili. Al limite della
didascalia, volendo malignare: citazioni letterarie “in tema” lette sulla
metropolitana, frequente ricorso al parallelismo con la vicenda del
pluriomicida John Gacy (con tanto di pistolotto da bignami di psicologia
“Gacy = vittima del desiderio”), e quant’altro. Mai come in questo film
assistiamo a una quadratura così evidente di temi cari alla neozelandese (ad
esempio si cita tre volte - una addirittura durante il climax narrativo
appena prima del finale - “Gita al faro” della Woolf, il cui inimitabile
monologo converge da sempre con le sconnesse emotività della sua mise en
scene), ma la Campion è una grande regista e non si accontenta certo di
un’ennesima escursione dentro la scissione (“in the cut” appunto)
maschio-femmina, sempre problematica e mai riducibile allo schemino
paradigmatico.
Ma è necessario sorvolare, perché il cuore del film è un altro.
“Disarticolazione” è il termine chiave. La stessa protagonista, che
raccoglie idee per la scrittura accatastando appunti disordinati, a inizio
film è come affascinata da questa parola sentita a proposito dell’omicidio.
Infatti, persiste in In the cut una instancabile frammentazione di tutti gli
elementi del film, come fuggendo da qualsiasi punto fermo (come non pensare
alla Kidman che all’inizio di Ritratto di Signora davanti alla statua
esprimeva il suo terrore per la pietrificazione?). La luce diventa una
misteriosa appendice del buio (grazie alla miracolosa fotografia di Dion
Beebe), una lattiginosa e ingestibile sorgente del vedere. Le scissioni tra
i personaggi (caratterizzati come spesso nei suoi film fino alle soglie del
grottesco) prima si moltiplicano (lei che vuole apparire più fredda
possibile e la sorella debole e emotiva, il poliziotto macho e quello
criptogay) poi si sfumano (lei crolla emotivamente, i due poliziotti si
dimostrano sempre più complici e uniti). Nessuna scena ha un centro visivo
(grazie anche alla macchina a mano), imperversano i dettagli collegabili
all’interiorità della protagonista (la maggior parte dei quali riguardano
piccoli gesti del poliziotto - che apre una portiera, bussa alla porta,
cambia marcia etc. - efficaci segnali della di lei fascinazione verso la sua
“attiva” virilità) fino all’annegamento nel “flusso” (ancora la Woolf…).
Neppure la fellatio che segna l’inizio della discesa di Meg nel buio urbano:
pur alludendo inequivocabilmente, è vista come di striscio, inquadrata più
volte e mai in modo netto e centrato. È un maelstrom passionale “in
soggettiva” in cui alla fine il “whodunit” crolla di rilevanza - ma non se
ne avvantaggia la “definizione psicologica” della protagonista. La quale
anzi ne esce psicologicamente squartata: galleggia in superficie
l’inconciliabilità delle sue affezioni più profonde, saggiamente irrisolta,
che non trova mai uno sbocco minimamente definito (niente idillio amoroso
come quello dei genitori che lei sogna in continuazione). Per questo
l’immagine più bella del film ci sembra quella, quasi conclusiva, della
professorina che alle prime luci del giorno fa l’autostop imbrattata di
sangue.
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