festival delle cerase

28.ma edizione

 

Monterotondo, 13 maggio / 08 giugno 2013

 

recensioni

di Lilith Zulli

> la città ideale di Luigi Lo Cascio

> miele di Valeria Golino

> ritratto di mio padre di Maria Sole Tognazzi
>
viva la libertà
di Roberto Andò

 

viva la libertà
di Roberto Andò
Italia 2013, 94'

 

28/30

Enrico Olivieri - uno straordinario Toni Servillo - è il leader del maggior partito di opposizione italiano, un politico di professione che ama avere in mano il potere. Fortemente contestato all’interno del suo partito, a pochi giorni dalle elezioni e con sondaggi che lo danno in caduta libera, sparisce e si rifugia in Francia da un’amica di gioventù, lontano da giornalisti, compagni di partito e portaborse. Questo viaggio lo porterà anche a rivivere la sua vera passione, quella per il cinema e riassaporare la libertà, lontano dalle logiche di governo. Intanto, in Italia, il segretario di Enrico, per tranquillizzare gli animi, mette al suo posto il gemello Giovanni Ernani, filosofo e per lungo tempo ricoverato in clinica psichiatrica. Giovanni, nella sua follia, riesce a conquistare gli Italiani, ma si avvicina sempre di più il giorno del ritorno di Enrico.
Andò fa un ritratto realistico e sincero della situazione odie
rna della politica italiana, affrontando, in particolar modo, la questione attualissima del disagio dell’elettorato di sinistra che non si sente più rappresentato da un’opposizione passiva e inerme e che non riesce più ad identificarsi con le tante forze della sinistra italiana. Significative, a tal proposito, le parole di Angelo Pasquini all’incontro col pubblico del Festival delle Cerase di lunedì 13 aprile: “la crisi politica ha investito particolarmente la sinistra che ha sempre la parte più difficile perché l’elettorato di sinistra non si adegua alle logiche di mercato, è un elettorato critico, che non fa sconti”. “Non aspettarti nessuna risposta oltre la tua” recita nel film Giovanni Ernani, citando la famosa poesia di Bertold Brecht.

 

In Viva la libertà - tratto dal romanzo “Il Trono Vuoto” dello stesso regista - la nuova chiave di lettura del mondo sembra essere il cinema - un cinema serio e impegnato come’era nella lunga tradizione del cinema d’autore italiano - un luogo di riscatto da cui ripartire per liberarsi di quest’atrofia sociale e di questa ignoranza diffusa.
“Mi piaceva l’idea di proporre il cinema come luogo di forte contestazione,
- ha dichiarato Andò - visto che il cinema italiano, negli ultimi anni, è stato calpestato, messo sotto le scarpe, è stato marginalizzato”. E continua: “La sinistra italiana ha avuto nel suo immaginario il cinema come un luogo dove guardare per cambiare la realtà. Questo matto ce lo siamo inventati per dare una speranza a questo paese; ridare alla politica il suo slancio originario, cioè tenere insieme le persone. Abbiamo cercato di restituire sullo schermo la leggerezza e la complessità di quello che stiamo vivendo: il film è la ricostruzione di qualcosa che potrebbe avvenire. Ma, soprattutto, volevamo raccontare il mondo interiore di un uomo politico oggi”. E ancora: “Nella trasposizione dal romanzo alla sceneggiatura, devo molto a quanto mi ha detto Massimo Cacciari: egli sostiene che l’uomo politico cova sempre un estraneo in se stesso, un gemello con cui non vuole ricongiungersi. Ed è difficile distinguere l’ombra dal reale perché la politica a suo modo è finzione”. Idee su cui avevano già intensamente riflettuto gli intellettuali nostrani circa trenta, quarant’anni fa, dalla letteratura all’arte figurativa alla saggistica fino al cinema. Ne “La solitudine del satiro”, già nel 1974, Ennio Flaiano scriveva che “in questo paese che amo non esiste semplicemente la verità”, dando voce a quella coscienza italiana a cui è chiara la malattia politica che affligge l’Italia - il malcostume e l’accettazione indifferente di esso - nonostante il legame emotivo col territorio e con la propria gente.

 

La questione dell’identità italiana è affrontata anche nella partitura musicale del film con l’utilizzo in vari momenti di una Ouverture di Verdi che rappresenta il melodramma italiano come luogo i cui si è costruita l’identità di molti personaggi tipici del teatro italiano.

Ci è piaciuto questo film e, soprattutto, ci ha affascinato il coraggio e l’onestà con cui Roberto Andò ne ha parlato: il coraggio di dichiarare la propria disillusione politica, lontana dalle patinature del government moderno; e l’onestà di riflettere lucidamente sulla necessità di un movimento politico serio, radicato nei problemi quotidiani della gente e rappresentativo del popolo. Ancora le parole del regista ci sembrano emblematiche: “Ricordo Berlinguer che aveva questo viso vissuto, segnato dal tempo, dalle rughe, era malinconico e non nascondeva mai la sua malinconia. Mentre nella politica di oggi mi colpisce molto il fatto di voler nascondere”.

Viva la libertà è uno dei pochi film che oggi, in Italia, si allontana dal filone della commedia romantica e della battuta facile e affronta il tema politico, partendo, originalmente, dal dramma interiore di un uomo: “Quello che ci interessava rappresentare - dice ancora Andò - era questo doppio movimento per cui il politico da un lato desidera il potere e dall’altro lo fugge. Oggi il potere politico provoca un sentimento di lieve angoscia perché è subordinato a logiche superiori, quelle delle banche, dei mercati. Proprio per questo, la dimissione, in politica, è un gesto di libertà, in nome della propria fragilità personale”.

E così questo film ci ha anche emozionato. Quando scopriamo la difficoltà umana di Enrico nel raffrontarsi con il suo ruolo politico prima e con la vita, l’amore, l’antica passione per il cinema poi. Quando scopriamo la sua tenera oscurità nell’affrontare il rapporto con Giovanni, il gemello esteticamente identico. E qui interviene anche la forza attoriale di Tony Servillo: “Non avrei fatto il film - dichiara Andò - se non ci fosse stato lui. Come dice il mio amico Francesco Rosi, è un “attore creativo”, cioè un attore che evoca una drammaturgia, non la subisce. E mi ha sempre colpito in lui questo volto così concreto e il suo sguardo che dà voce ai pensieri”. Servillo riesce a mantenere la recitazione sul filo del bluff - qui tema reiterato - lasciando talvolta il pubblico dubbioso sull’identità di Enrico e di Giovanni, con la sensazione che siano, in fondo, due modi di essere di una stessa persona.
 

Il tema del bluff, in effetti, è giocato su vari piani: dalla sostituzione di Enrico con Giovanni alla questione del bluff e della scorrettezza in politica: “Una parte delle nostre parole le ha travolte il nemico fino a renderle irriconoscibili. Che cosa è errato ora, falso, di quel che abbiamo detto?Qualcosa o tutto ? Su chi contiamo ancora? Siamo dei sopravvissuti, respinti via dalla corrente? Resteremo indietro, senza comprendere più nessuno e da nessuno compresi?” (Bertold Brecht, “A chi esita”). E infine, una battuta esemplare del film: “Cinema e politica non sono così lontani. Sono due mondi in cui il genio e il bluff coesistono”. Interessante la domanda di Franco Montini, direttore artistico del Festival: “nella politica di oggi c’è più genio o più bluff?”.
E, ancora forte e sincera la risposta di Andò: “credo che il bluff abbia a che fare con la legittimazione della politica”. Per dirla ancora una volta con Enrico Berlinguer: “I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune”.

la città ideale
di Luigi Lo Cascio
Italia 2012, 105'

 

24/30

“Di solito gli uomini cercano la vittoria, lei invece cerca la verità

da una battuta del film

 

Non ha bisogno di presentazioni Luigi Lo Cascio, interprete emozionante e coinvolgente del meglio del cinema italiano di oggi, da I cento passi a La meglio gioventù a Buongiorno, notte!, Lo Cascio approda al 28° Festival delle Cerase nella molteplice veste di regista, sceneggiatore e attore. Saluta il pubblico del Cinema Mancini, stracolmo, e dialoga confidenzialmente con esso; racconta, con naturalezza, la sua nuova esperienza, la sua passione per il cinema, per il teatro, per la letteratura; confessa, di fronte a un ammiratore che sta facendo un video “mi vergogno, ho bisogno di un copione, di essere preparato” perché “la recitazione - spiega - non è una cosa che ha a che fare con la naturalezza”.

La città ideale, opera prima del Lo Cascio regista - già vincitore del Premio Vittorio De Sica e nominato nella cinquina dei David di Donatello come regista esordiente - “è un film ecologista”, ovvero un film con un piccolo budget; ecologista nel senso che sfrutta le piccole risorse economiche nel modo migliore - senza sprechi di fondi, diremmo - tanto che alla sceneggiatura ha collaborato la moglie del regista e molti interpreti nel film sono suoi parenti e amici, senza per questo intaccare la qualità dell’opera. Ecologista anche perché il protagonista, Michele Grassadonia, è un integerrimo risparmiatore di energia, un uomo dedito all’azzeramento dello spreco e dei consumi non indispensabili. Ecologista anche nell’aspirazione contenuta nel titolo, l’utopia di realizzare una città a misura d’uomo.

Il film è stato presentato alla Settimana della Critica a Venezia nel 2012 e nel catalogo della mostra è stato definito come una sorta di giallo morale. La trama è semplice e lineare; come ha dichiarato lo stesso Lo Cascio “il film è difficilmente classificabile, non ho scritto un film di genere. È una storia a carattere introspettivo e morale”. Michele Grassadonia soccorre un ferito lungo la strada e si ritrova, suo malgrado, coinvolto in un’indagine giudiziaria. Ambientazione kafkiana, certo, però qui sappiamo da subito che Michele è innocente.

Dopotutto, Luigi, da attore, aveva già lavorato a teatro sul grande autore ceco nel riadattamento del racconto “Nella terra”: “Kafka - racconta - è uno dei miei autori preferiti. Ci sono delle tracce involontarie della narrativa kafkiana perché è un autore che mi ha formato lo sguardo, soprattutto nelle forme di attenzione. Sicuramente c’è un riflesso de “Il processo” dove un uomo viene aspirato in una situazione giudiziaria che gli cambia la vita e, quindi, il tema del rapporto con la legge e quello del senso di colpa. Qui però sappiamo da subito che lui è innocente perché il tema è quello della verità. Nei suoi diari Kafka scrive: “dobbiamo costantemente produrre la verità dall’interno”. Ho, inoltre, ripreso dalla sua opera l’insistenza sulle attenzioni spasmodiche e cruciali”.

Nessuna indagine del sistema giudiziario italiano, quindi. Piuttosto un’indagine sulla verità e sulle sue mille sfaccettature. “Il tema - continua Lo Cascio - è quello delle diverse verità. Non si arriva al finale della storia, l’errore giudiziario non si è ancora compiuto o forse neanche si compirà. Il Pubblico Ministero dice “qua non siamo per comunicare”, è severo, ma non c’è accanimento verso Michele. La malizia che viene qui usata fa parte del gioco delle parti. La storia che Michele racconta non è verosimile, non è concreta e per questo viene considerata assurda e indimostrabile. Per scrivere questo film ho osservato processi, ho letto verbali di interrogazioni”.

C’è un bel lavoro di scrittura sulla parola e sull’enigmaticità della parola: la prima parola che viene pronunciata nel film è “temporale” - che per Michele, da ecologista estremo, significa raccolta dell’acqua piovana - con un riferimento alla pioggia e all’acqua che, in seguito nella storia, lo travolgeranno. “La parola non viene smarrita - spiega Luigi Lo Cascio al suo pubblico. Davanti al Pubblico Ministero, Michele offre una parola che è consegnata all’enigma e gli ritorna indietro come enigmatica. Il suo destino è legato alla sua parola”. 

Il destino di Michele è anche legato alle sue scelte di vita, al trasferimento a Siena - la città ideale, appunto, il luogo perfetto in cui condurre una vita a impatto zero sull’ambiente - all’idea di andare via da Palermo. Dice la madre ad un certo punto nel film: “In fondo, cos’ha Siena più di Palermo?”. A proposito dell’ambientazione del film, Lo Cascio racconta: “Ho sempre pensato a Siena. All’inizio per una suggestione culturale, ovvero che a Siena si precipita in un’altra dimensione, ci si sente come nel Medioevo e nel Rinascimento con la piazza del Palio che è il centro del mondo, il luogo dove si svolge la vita della comunità. E poi c’è quest’idea di senosità, di città a misura d’uomo nel senso che è misurata dall’uomo”. 

E conclude il suo incontro col pubblico raccontando come si è svolta la sua duplice attività di attore e regista: “quando il regista è anche un attore, e la parte nel film è una parte che egli, per le caratteristiche del personaggio, può interpretare, il fatto che la faccia lui implica che il film diventi più personale. In effetti, recitarlo mi ha anche aiutato molto nella regia. Credo di essere stato inflessibile con me stesso. Sapevo già cosa volevo da ogni scena”.

ritratto di mio padre
 di Maria Sole Tognazzi
Italia 2013, 96'

 

26/30

Omaggio di una figlia regista al padre, il grande Ugo Tognazzi (Cremona, 23 marzo 1922 – Roma, 27 ottobre 1990). Ritratto di mio padre è un documentario del 2010 che Maria Sole Tognazzi dedica all’istrionico attore italiano. Un ritratto costruito attraverso ricordi, vecchi filmati in Super8, interviste ai compagni di lavoro; un vero e proprio documento di vita pubblica e di vita privata. Un titolo intimo, che sottolinea il punto di vista particolare di Maria Sole su Tognazzi. Un’intimità che ritroviamo nei racconti degli altri tre figli Ricky, Gianmarco e Thomas (il figlio avuto dall’attrice norvegese Margarete Robsahm). E, soprattutto nei filmati originali privati che ricostruiscono, davanti al grande pubblico, la vita della famiglia Tognazzi e del grande Ugo nella veste di padre, compagno e amico. Dall’amicizia con Raimondo Vianello - lo storico partner della fortunata esperienza televisiva - a quella con Paolo Villaggio, dalla passione culinaria fino ai tornei di tennis organizzati nel cosiddetto “Villaggio Tognazzi” a Torvaianica. Maria Sole ricostruisce l’immagine sia quotidiana che artistica del padre attraverso le testimonianze di Mario Monicelli, Pupi Avati, Valeria Golino, Paolo Villaggio, Michel Piccoli, Laura Morante.
Attraverso la memoria della vita di Ugo scorrono davanti ai nostri occhi quasi cinquant’anni di cinema italiano nonché la storia dell’avanspettacolo e della rivista prima nella Radio e poi nella Televisione (la RAI, nrd) - e oltre mezzo secolo di teatro italiano (con incursioni anche nelle grandi ribalte del teatro francese). Attore vitale e instancabile, uomo energico e appassionato - con una grande passione per le belle donne, oltretutto - Ugo Tognazzi è stato un simbolo della commedia all’italiana in quella sua particolare figura dell’ottimista: “L'ottimista - diceva - è un uomo che, senza una lira in tasca, ordina delle ostriche nella speranza di poterle pagare con la perla trovata”.

miele
di Valeria Golino
Italia 2013, 96'

 

28/30

“Il mio cuore solo non potrà mai scordare
chi la vita dette per un unico sguardo”

Anna Achmatova, “La Moglie di Lot”

 

Miele è il nome di servizio di Irene, sportiva ed emancipata trent’enne che fa la spola tra l’Italia e il Messico per acquistare un barbiturico che dia la “dolce morte” a chi non ha più la forza di combattere un male inesorabile. Il veleno diventa così un nettare zuccherino - un miele, appunto - perché allevia le sofferenze di chi non vorrebbe morire, ma sceglie di rinunciare ad una condizione passiva e dolorosa - “non è vita quella” dirà Irene in una scena. Una storia sull’eutanasia, certo; si parla della libertà di scelta tra la vita e la morte per i malati terminali, le gravose realtà domestiche e famigliari di chi affronta un male incurabile e l’idea della godibilità della vita. Ma c’è molto altro. Tratto dal romanzo “Vi perdono” del 2009 di Angela Del Fabbro, MIELE è, soprattutto, una storia sul senso di colpa, sulla compassione e sulla solitudine dell’anima.

Il film è stato presentato al recente Festival di Cannes, dove è stato insignito del Premio Giuria Ecumenica - una giuria, nominata ogni anno dalle associazioni cinematografiche cristiane Interfilm e Signis - che assegna il proprio premio a un film in concorso per le qualità artistiche e per i valori umani e spirituali. Viola Prestieri, produttrice insieme a Riccardo Scamarcio, ha dichiarato emozionata riguardo l’esperienza di Cannes: “Eravamo in apnea. Eravamo felici e lì, inconsapevolmente”.

E così dopo la grande ribalta della croisette, MIELE è approdato anche al 28° Festival delle Cerase: Jasmine Trinca, interprete del film, e Viola Prestieri hanno incontrato il pubblico e dialogato con Franco Montini il 3 giugno scorso presso il Cinema Mancini di Monterotondo. 

La Prestieri ha spiegato come si è arrivati a questo risultato: “all’inizio abbiamo fatto una società di produzione, poi Valeria ha letto il libro e se ne è innamorata. Avevamo anche pensato di farlo fare ad un regista famoso, ma alla fine io e Riccardo (Scamarcio, nrd) l’abbiamo spinta in questa cosa perché ci sembrava che questo tema e questa storia le appartenessero. All’inizio avevamo pensato al budget medio di un film italiano, poi abbiamo dovuto pensarlo con un budget più piccolo, ma anche grazie all’arrivo di finanziamenti pubblici, alla fine il film c’è”.

Attrice famosa e consapevole, Valeria Golino approda alla regia e lo fa in maniera sorprendente e coraggiosa, affrontando una storia dura e difficile. Un film lucido, dallo sguardo tenero, ma mai compiacente. Lo scorso novembre, durante le riprese del film, la Golino, in un incontro col pubblico al Festival Internazionale del Film di Roma - insieme alla collega regista Alice Rohrwacher - aveva schiettamente confessato: “A fare il regista ci si incattivisce perché è un lavoro meraviglioso, ma che ti mette di fronte ai tuoi limiti, alle tue inadeguatezze. Il mio senso di inadeguatezza a volte era maggiore del piacere che provavo nel fare la cosa. E poi, inizi ad avere un altro punto di vista sugli attori e su te stessa, capisci che ci si può innervosire, che gli attori possono anche essere un impedimento e che il risultato forse non sarà quello che tu volevi inizialmente, ma sarà filtrato dalla loro interpretazione. Per anni ho visto quello sguardo irritato dei registi, anche di quelli che mi hanno amato come attrice. Il mio rapporto con gli attori parte dall’amore, c’è un affetto, una gratitudine per quello che fanno, perché si espongono, perché li ho scelti, perché mi sento di poter dire loro anche che qualcosa non va bene. C’è libertà e tensione creativa per arrivare ad un risultato perché se un attore si sente amato, puoi anche maltrattarlo a tratti”.

Anche Jasmine Trinca, parlando dell’esperienza delle riprese con commozione ed empatia, ha speso parole  tenere su questo rapporto “sentimentale” tra regista e attrice: “L’incontro con Valeria regista mi ha sorpreso in una maniera che non mi aspettavo: è l’esperienza più intensa che ho avuto fin’ora nel mio lavoro. È come se io per lungo tempo mi fossi raccontata agli altri in un modo e, poi, Valeria ha, finalmente, capito che io non ero quella che volevo far credere a tutti. Nessuno mi aveva mai guardata così e, invece, cambia molto il modo in cui noi attori siamo visti. Il fatto che Valeria sia anche un’attrice ha fatto sì che lei sapeva molto bene come indirizzarmi: a volte mi diceva: “fammi quel sorrisetto là”, riferendosi al sorrisetto che di solito fa lei quando recita. Prima dell’incontro con Valeria, avrei fatto molte scene con i freni, invece qui sono riuscita a togliere il freno”. Un duplice lavoro, quello che la Trinca ha fatto sul suo corpo, sul modo di camminare, sulla gestualità: sgorgato dall’istintività, dalla naturalezza con cui è entrata nel personaggio - “uno di quegli incontri rari che si fanno coi personaggi che ti rimangono incollati. Provavamo a raccontare una storia, così semplice di vita, ma così piena di sostanza” ha raccontato - e, contemporaneamente, costruito sul processo di crescita interiore di Miele nello svolgimento della storia. “La Miele che vediamo all’inizio del film - ha spiegato ancora l’attrice - non è quella che vediamo alla fine, ad esempio nel caso del ragazzo. Io la configuro come una sorta di macchina, il cui meccanismo ad un certo punto si rompe. Miele ha questo modo di bruciare la vita, di bruciare i rapporti: le storie d’amore e le amicizie che ha non sono mai realmente profondi, reali. L’incontro con Grimaldi inceppa questa macchina perché la sua solitudine incontra la solitudine di Grimaldi, la vedo anche come una storia sentimentale. È come se il processo di Miele diventa un processo di umanizzazione.” E ha aggiunto: “In questo film, per me era proibito portare sullo schermo la mia vera identità, il mio vero dolore: era un modo di rispettare quello che stavo facendo. Il dolore della vita, che tutti prima o poi conosciamo, te lo porti comunque dietro anche nella gestualità, in particolare nel modo di piangere”.

La Golino affronta il tema della solitudine e della vita che si rigenera - si umanizza, appunto - con vari strumenti narrativi. Innanzitutto, il tema dell’acqua e del riflesso: il film è pieno di superfici acquose, superfici riflesse, ombre che alludono al ciclo della vita e della morte, alla dimensione femminea, all’uterino e, al contempo, conducono ad un processo di rigenerazione ed espiazione del senso di colpa; spesso, vediamo Miele che nuota, esasperatamente, dopo aver assistito un “paziente” come se attraverso l’acqua potessimo cogliere i mille riflessi della sua anima e del suo dolore. E poi, lo strumento cinematografico per eccellenza: l’inquadratura. Bellissimi gli scorci dal basso o dall’alto, angolatissimi, come nella ripresa di Miele nella sua stanza al Motel messicano, ripresa dal basso, dall’esterno e dietro il vetro: come in un quadro di Edward Hopper, sembra che la Golino voglia mostrarci il senso di solitudine che pervade amaramente la ragazza. Uno sguardo molteplice, quello della macchina da presa, che racconta la storia, spesso, con occhio innocente e, a volte, curioso e piccante; comunque, mai giudicante; piuttosto di riflessione sul dolore. “L’argomento - ha spiegato la regista - è un tabù più per le istituzioni e la politica che per le persone, spesso costrette a vivere questi dilemmi. Il film riflette su scelte eticamente sensibili, che colpiscono i nostri giudizi e pregiudizi intimi, anche quando ci proponiamo come politicamente corretti.
MIELE non è contro qualcosa, non vuole essere provocatorio, si addentra nei dubbi strazianti, non prende posizioni definitive e non ha certezze”. Dice ad un certo punto nel film, l’Ingegner Grimaldi - un prezioso Carlo Cecchi - rivolgendosi a Miele: “Ma se la malattia è invisibile, cos’è: un capriccio, un’eresia?”. Il dubbio rimane aperto e la sfida alla regia di Valeria Golino è vinta.

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Monterotondo 13 maggio / 08 giugno 2013