festival di cannes

66.ma edizione

 

Cannes, 15 / 26 maggio 2013

 

 

premessa

di Marco GROSOLI

Tra i vari segnali che emergono da questa sessantaseiesima edizione del Festival di Cannes, uno colpisce gli occhi in maniera particolare. Il mondo del cinema francese opta per “il catenaccio”, gioca in difesa, si chiude nel suo fortino. I film di produzione transalpina erano di fatto sette, più due che usufruivano di un largo apporto produttivo proveniente da quella nazione. A ciò si aggiunge l'impressionante “fare quadrato”, da parte della stampa nazionale, intorno a La vie d'Adèle di Kechiche, che ha seminato (soprattutto tra i connazionali) un entusiasmo tanto parossistico quanto fondamentalmente immotivato.

 

In Concorso

 

Oltre ai film recensiti, cosa rimane da segnalare? La sottovalutatissima e incompresa rivisitazione postcoloniale di Amleto (!) da parte di un Nicholas Winding Refn (Only God Forgives) sempre più amleticamente scisso tra azione e contemplazione (28/30).
L'arte del vivere in una Roma eternamente spaccata tra ascesi e sensualità ne La grande bellezza di Sorrentino (27/30); l'arguta e attualissima allegoria politica di Alex Van Warmerdam (Borgman) (28/30); uno dei migliori Miike Takashi degli ultimi anni (Wara no tate), uno dei più vigorosamente morali, spogliante il proprio travestimento poliziesco fino ad arrivare alla nudità del western (29/30); la meticolosa sospensione del tragico di Mohamat-Saleh Haroun (Grigris, 27/30).

 

QUINZAINE DES REALISATEURS

 

E le altre sezioni? Sorvoliamo sulla "Quinzaine des realisateurs", davvero deludente, se eccettuiamo Ugly di Anurag Kashyap (nome che ormai è una garanzia) e, dalla Corsica, il nervoso dramma “di classe” Les apaches (di Thierry de Peretti), ottimamente sostenuto da un affiatato gruppo di giovani attori. Niente sorprese “vere”, come del resto nelle altre sezioni, anche se è stata davvero graditissima la conferma di Johnnie To, il cui Blind Detective (30/lode) è una specie di Finestra sul cortile senza finestra, nemmeno oculare: un detective cieco aiuta una collega spasimante nella risoluzione di un paio di casi con uno strano metodo tra l'intuizione e la possessione sciamanica. Ritmo esorbitante, inventiva alle stelle: superlativo.

UN CERTAIN REGARD

Sguardo di sorvolo

 

Per quanto riguarda  "Un certain regard", chi scrive è rimasto deluso dai pur acclamatissimi Alain Guiraudie e Rithy Pahn. Il primo (L'inconnu du lac) firma un misterioso giallo omosessuale sospeso tra hard e fantasmaticità, in cui l'eleganza formale annega il personalissimo umorismo di cui il regista aveva dato prova in precedenza. Il secondo (L'image manquante, vincitore del premio principale) è una fine elaborazione retorica, soggettivamente filtrata, degli stermini cambogiani sotto Pol Pot, materia evidentemente troppo estrema per essere rappresentabile, e dunque allusa solo indirettamente, con un gioco di statuine che, per quanto suggestivo, pare assai meno convincente, dal punto di vista teorico, di quell'S21 che Pahn presentò, sempre a Cannes, dieci anni fa. E quanto più sconvolgenti i materiali di repertorio mostrati quest'anno fuori concorso (Le dernier des injustes) da quello che potremmo definire un omologo occidentale (nonché probabile punto di riferimento) del regista asiatico, Claude Lanzmann! In quasi quattro ore di proiezione, Lanzmann riprende in mano un'intervista del 1975 a Benjamin Murmelstein, ebreo chiamato a suo tempo a dirigere Terezin, la città che il Fuehrer “regalò” agli ebrei (ma di fatto una via di mezzo tra un ghetto e un'anticamera ai lager). Una figura non eccessivamente conosciuta ma di titanico spessore e di altrettanta ambiguità, e soprattutto di sconvolgente pragmatismo politico. Impossibile riassumere in poche parole questa fluviale, preziosissima testimonianza, che fa piazza pulita di schemi preconcetti e ci apre a una salutare complessità.

SITO UFFICIALE

 

66.mo festival di cannes
Cannes, 15 / 26 maggio 2013