Premessa

D'accordo: il verdetto della giuria presieduta da Nanni Moretti è
semplicemente demenziale. Tuttavia, la Palma d'Oro al film di Haneke non è
priva di una qualche perversa giustificazione.
Amour, infatti, funziona
quasi da polo attrattore nei confronti di tutti i lavori migliori visti
quest'anno a Cannes. Solo che ognuno di questi casi, chi più chi meno,
surclassa vistosamente il film dell'austriaco.
Haneke vs. Resnais (ET Ruiz)

Si prenda per esempio Vous n'avez encore rien vu, di Alain Resnais, la
pellicola più sconvolgente del festival. Se il film di Haneke racconta un
uomo che accompagna con crudele dolcezza la moglie malata fino alla morte,
tutto in un unico interno borghese che serve ad Haneke per costruire
faticosamente una continuità tra il dramma da camera teatrale e il cinema,
quello del francese si affida al mito opposto (Orfeo ed Euridice: lei che
chiama lui dall'aldilà) collocando il cinema nel “non poter mai morire” del
teatro, nel suo (del teatro, anche di quello più vistosamente antiquato)
perenne ripresentarsi dopo la propria morte. Dopotutto, il perno su cui gira
Vous n'avez encore rien vu è un regista teatrale che ritorna tra i vivi dopo
la (finta) morte - del resto, è ciò che avveniva qualche metro più in là,
sempre sulla Croisette, alla Quinzaine des réalisateurs, con
La noche de
enfrente, film postumo in cui Raul Ruiz ci dice che i morti piuttosto siamo
noi spettatori, costretti ad evocare un intrico di scritture che procede
benissimo per conto proprio.

Haneke vs. Garrone

Anche Reality di Matteo Garrone, a sorpresa, batte Haneke sul proprio
terreno. Ossessionato dalla colpa e dall'innocenza (rigorosamente
simultanee) dell'Occhio Che Tutto Vede, Haneke segue l'arte contemporanea e
i suoi stantii paradigmi fino là dove essi incontrano il reality show: in
fondo, il suo film non fa che spiare l'intimità dei personaggi sempre nello
stesso interno borghese, esponendoci all'ineludibilità del giudizio morale
(del “voto da casa”, praticamente). Garrone, invece, riesuma l'antica (e mai
morta) saggezza del cattolicesimo più sanguigno (il Fellini de
Il bidone e
Lo sceicco bianco è il riferimento diretto) per debellare e sciogliere
l'enigma teologico in cui da anni si avvoltola compiaciuto Haneke: l'Occhio
Che Tutto Vede, lo si elude cominciando a vedere in ogni punto della realtà
la manifestazione dell'Altissimo – quello che cattolicamente si definirebbe
il Prossimo quale incarnazione diretta del divino nel reietto. E solo
l'applicazione alla lettera dell'amore per il Prossimo sbaraglia l'eterna
macchina socio-mediatico-religiosa del Belpaese. È quest'ultima dialettica
che appunto insuffla una inattesa e sana tensione contraddittoria nel pur
istituzionalissimo, e financo conformista, film di Garrone.
Haneke vs. Bertolucci

Ma il film che meglio rappresenterebbe un'antitesi di questa resistibile
Palma d'Oro è Io e Te di Bernardo Bertolucci: di nuovo un rinchiudersi in un
interno da cui non si esce (quasi) mai (uno scantinato), però alla fine di
esso non c'è la morte, ma l'entrata nell'età adulta, ottenuta
paradossalmente esasperando il proprio “adolescenziale” narcisismo
solipsista fino a farselo risultare estraneo ai propri stessi occhi.
Sprofondare nel proprio sguardo fino a toccare quel nulla che esso è, scosso
giusto ogni tanto dalle vertigini della Bellezza che fluttuano nel vuoto –
quale antidoto migliore contro il compiaciuto scacco dello sguardo umano nei
confronti dell'Occhio Che Tutto Vede, in cui Haneke si crogiola
instancabilmente?
Cronenberg ET Carax

Continuando nel gioco delle analogie (una delle molte cose che una selezione
pavida come quella di Cannes 2012 si fa colpevolmente scappare), davvero
impressionante quella che lega Holy Motors di Carax a
Cosmopolis di
Cronenberg. Non solo due splendidi viaggi in limousine in cui in qualche
misura è presente Juliette Binoche (letteralmente ed effettivamente nel film
del canadese, solo virtualmente in quello del francese, ex compagno
dell'attrice): in Cosmopolis risuona un'ossessiva domanda “Dove vanno a
finire, di notte, le limousine?”, a cui si preoccupa di rispondere
diligentemente il finale di Holy Motors, che ci mostra proprio quel luogo.
Entrambi sono cronache lucide e visionarie allo stesso tempo di come il
capitalismo, il cinema, la tecnologia (tre elementi assolutamente
inseparabili) non finiscano mai di morire. Come i vampiri (ecco perché
Pattinson in Cronenberg).

Wakamatsu ET Wakamatsu

A questa impossibilità potrebbe rispondere il magnifico Mishima di Koji
Wakamatsu, perfetto contraltare (“destrorso” come l'altro era “sinistrorso”)
di United Red Army, saggio magistrale sul “darsi la morte” non come semplice
autodistruzione suicida, ma come immagine dell'”indossare il negativo” quale
unica chance critica rispetto all'esistente quando ogni possibilità di
azione è svanita e rimane solo l'esercizio concreto di una discontinuità
vuota (definizione precisa, quest'ultima, peraltro, della pratica
dell'immagine di Wakamatsu).
U.S. ?

Per un altro verso, questa “non-morte” di capitalismo-tecnologia-cinema ha
un nome: globalizzazione. E questa sessantacinquesima edizione la illustra
con precisione finanche crudele, poiché a fronte di una presenza a stelle e
strisce folta ma nel complesso imbarazzante (ad eccezione dell'intelligente
indagine mitologica sul pres(id)ente USA da parte di Andrew Dominik, che ci
ricorda che il mito che oggi ci offusca gli occhi è il nodo stesso che
stringe insieme mito e cronaca), l'unico vero film americano era, alla
Quinzaine, bengalese: Gangs of Wasseypur di Anurag Kashyap, consapevolissima
applicazione dell'estetica New Hollywood (a cominciare dal nuovo patto
perverso e incandescente che il cinema deve/dovette stringere con la
televisione) nel contesto bollywoodiano. O magari, se vogliamo, cileno:
No di Pablo Larrain (sempre alla Quinzaine), un curioso e felice tentativo
soderberghiano di prendere una pièce di Antonio Skàrmeta sulla continuità
tra la dittatura di Pinochet e quella dell'ideologia postmoderna dello
Spettacolo e della Comunicazione, e iniettargli una dose “letale” di
naturalismo, e soprattutto virarla tutta in una grana video vintage molto
anni Ottanta (il film è ambientato nell'88, quando il Generale fu cacciato
da un plebiscito), per suggerirci che anche quell'ideologia, oggi, ha i
giorni contati ed appare irrimediabilmente vecchia.

Conclusioni
Insomma: non è che i bei film siano mancati, in questa Cannes 2012 (oltre a
quelli citati, quelli di Hong Sang-Soo, Im Sang-Soo, Ben Wheatley, Yusri
Nasrallah...). È che la selezione si è dimostrata davvero troppo pavida: si
è accontentata di ospitare autori in ascesa che, ahinoi, non hanno dato
affatto segni incoraggianti di conferma (i deludenti Cristian Mungiu e
Sergei Loznitsa), oltre che dosi abbondanti della solita zavorra (Loach,
Reygadas, Salles...) - togliendo spazio a scoperte che non sembrano essere
state nemmeno cercate. E il livello medio della kermesse (la sezione minore
Un Certain Regard in particolare) ne ha sofferto visibilmente... |