festival di cannes

65.ma edizione

Cannes, 16 / 27 maggio 2012

 

dal festival

di Marco GROSOLI

Premessa


D'accordo: il verdetto della giuria presieduta da Nanni Moretti è semplicemente demenziale. Tuttavia, la Palma d'Oro al film di Haneke non è priva di una qualche perversa giustificazione. Amour, infatti, funziona quasi da polo attrattore nei confronti di tutti i lavori migliori visti quest'anno a Cannes. Solo che ognuno di questi casi, chi più chi meno, surclassa vistosamente il film dell'austriaco.

 

Haneke vs. Resnais (ET Ruiz)


Si prenda per esempio Vous n'avez encore rien vu, di Alain Resnais, la pellicola più sconvolgente del festival. Se il film di Haneke racconta un uomo che accompagna con crudele dolcezza la moglie malata fino alla morte, tutto in un unico interno borghese che serve ad Haneke per costruire faticosamente una continuità tra il dramma da camera teatrale e il cinema, quello del francese si affida al mito opposto (Orfeo ed Euridice: lei che chiama lui dall'aldilà) collocando il cinema nel “non poter mai morire” del teatro, nel suo (del teatro, anche di quello più vistosamente antiquato) perenne ripresentarsi dopo la propria morte. Dopotutto, il perno su cui gira Vous n'avez encore rien vu è un regista teatrale che ritorna tra i vivi dopo la (finta) morte - del resto, è ciò che avveniva qualche metro più in là, sempre sulla Croisette, alla Quinzaine des réalisateurs, con La noche de enfrente, film postumo in cui Raul Ruiz ci dice che i morti piuttosto siamo noi spettatori, costretti ad evocare un intrico di scritture che procede benissimo per conto proprio.
 


Haneke vs. Garrone


Anche Reality di Matteo Garrone, a sorpresa, batte Haneke sul proprio terreno. Ossessionato dalla colpa e dall'innocenza (rigorosamente simultanee) dell'Occhio Che Tutto Vede, Haneke segue l'arte contemporanea e i suoi stantii paradigmi fino là dove essi incontrano il reality show: in fondo, il suo film non fa che spiare l'intimità dei personaggi sempre nello stesso interno borghese, esponendoci all'ineludibilità del giudizio morale (del “voto da casa”, praticamente). Garrone, invece, riesuma l'antica (e mai morta) saggezza del cattolicesimo più sanguigno (il Fellini de Il bidone e Lo sceicco bianco è il riferimento diretto) per debellare e sciogliere l'enigma teologico in cui da anni si avvoltola compiaciuto Haneke: l'Occhio Che Tutto Vede, lo si elude cominciando a vedere in ogni punto della realtà la manifestazione dell'Altissimo – quello che cattolicamente si definirebbe il Prossimo quale incarnazione diretta del divino nel reietto. E solo l'applicazione alla lettera dell'amore per il Prossimo sbaraglia l'eterna macchina socio-mediatico-religiosa del Belpaese. È quest'ultima dialettica che appunto insuffla una inattesa e sana tensione contraddittoria nel pur istituzionalissimo, e financo conformista, film di Garrone.

Haneke vs. Bertolucci


Ma il film che meglio rappresenterebbe un'antitesi di questa resistibile Palma d'Oro è Io e Te di Bernardo Bertolucci: di nuovo un rinchiudersi in un interno da cui non si esce (quasi) mai (uno scantinato), però alla fine di esso non c'è la morte, ma l'entrata nell'età adulta, ottenuta paradossalmente esasperando il proprio “adolescenziale” narcisismo solipsista fino a farselo risultare estraneo ai propri stessi occhi. Sprofondare nel proprio sguardo fino a toccare quel nulla che esso è, scosso giusto ogni tanto dalle vertigini della Bellezza che fluttuano nel vuoto – quale antidoto migliore contro il compiaciuto scacco dello sguardo umano nei confronti dell'Occhio Che Tutto Vede, in cui Haneke si crogiola instancabilmente?


Cronenberg ET Carax


Continuando nel gioco delle analogie (una delle molte cose che una selezione pavida come quella di Cannes 2012 si fa colpevolmente scappare), davvero impressionante quella che lega Holy Motors di Carax a Cosmopolis di Cronenberg. Non solo due splendidi viaggi in limousine in cui in qualche misura è presente Juliette Binoche (letteralmente ed effettivamente nel film del canadese, solo virtualmente in quello del francese, ex compagno dell'attrice): in Cosmopolis risuona un'ossessiva domanda “Dove vanno a finire, di notte, le limousine?”, a cui si preoccupa di rispondere diligentemente il finale di Holy Motors, che ci mostra proprio quel luogo. Entrambi sono cronache lucide e visionarie allo stesso tempo di come il capitalismo, il cinema, la tecnologia (tre elementi assolutamente inseparabili) non finiscano mai di morire. Come i vampiri (ecco perché Pattinson in Cronenberg).



Wakamatsu ET Wakamatsu


A questa impossibilità potrebbe rispondere il magnifico Mishima di Koji Wakamatsu, perfetto contraltare (“destrorso” come l'altro era “sinistrorso”) di United Red Army, saggio magistrale sul “darsi la morte” non come semplice autodistruzione suicida, ma come immagine dell'”indossare il negativo” quale unica chance critica rispetto all'esistente quando ogni possibilità di azione è svanita e rimane solo l'esercizio concreto di una discontinuità vuota (definizione precisa, quest'ultima, peraltro, della pratica dell'immagine di Wakamatsu).

U.S. ?


Per un altro verso, questa “non-morte” di capitalismo-tecnologia-cinema ha un nome: globalizzazione. E questa sessantacinquesima edizione la illustra con precisione finanche crudele, poiché a fronte di una presenza a stelle e strisce folta ma nel complesso imbarazzante (ad eccezione dell'intelligente indagine mitologica sul pres(id)ente USA da parte di Andrew Dominik, che ci ricorda che il mito che oggi ci offusca gli occhi è il nodo stesso che stringe insieme mito e cronaca), l'unico vero film americano era, alla Quinzaine, bengalese: Gangs of Wasseypur di Anurag Kashyap, consapevolissima applicazione dell'estetica New Hollywood (a cominciare dal nuovo patto perverso e incandescente che il cinema deve/dovette stringere con la televisione) nel contesto bollywoodiano. O magari, se vogliamo, cileno: No di Pablo Larrain (sempre alla Quinzaine), un curioso e felice tentativo soderberghiano di prendere una pièce di Antonio Skàrmeta sulla continuità tra la dittatura di Pinochet e quella dell'ideologia postmoderna dello Spettacolo e della Comunicazione, e iniettargli una dose “letale” di naturalismo, e soprattutto virarla tutta in una grana video vintage molto anni Ottanta (il film è ambientato nell'88, quando il Generale fu cacciato da un plebiscito), per suggerirci che anche quell'ideologia, oggi, ha i giorni contati ed appare irrimediabilmente vecchia.

 


 

Conclusioni
Insomma: non è che i bei film siano mancati, in questa Cannes 2012 (oltre a quelli citati, quelli di Hong Sang-Soo, Im Sang-Soo, Ben Wheatley, Yusri Nasrallah...). È che la selezione si è dimostrata davvero troppo pavida: si è accontentata di ospitare autori in ascesa che, ahinoi, non hanno dato affatto segni incoraggianti di conferma (i deludenti Cristian Mungiu e Sergei Loznitsa), oltre che dosi abbondanti della solita zavorra (Loach, Reygadas, Salles...) - togliendo spazio a scoperte che non sembrano essere state nemmeno cercate. E il livello medio della kermesse (la sezione minore Un Certain Regard in particolare) ne ha sofferto visibilmente...

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65. festival di cannes

Cannes, 16 / 27 maggio 2012