64.mo festival di cannes
Cannes, 1 / 22 maggio 2011

 

recensioni

 

di Marco GROSOLI

> I PREMI

> THE TREE OF LIFE di Terrence Malick

> MIDNIGHT IN PARIS di Woody Allen

> ONCE UPON A TIME IN... di Nuri Bilge Ceylan

> SLEEPING BEAUTY di Julia Leigh

> L'APOLLONIDE di Bertrand Bonello

> THIS MUST BE THE PLACE di Paolo Sorrentino

> THE BEAVER di Jodie Foster

> RESTLESS di Gus Van Sant

> LE HAVRE di Aki Kaurismaki

> the hunter di Bakur Bakuradze

> poliss di Maiwenn

> THE DAY HE ARRIVES di Hong Sangsoo

> ARIRANG di Kim Ki-Duk

 

poliss
di
Maiwenn
Francia 2011, 127'

 

In Concorso

26/30

Un distretto di polizia parigino; per la precisione, la sua sezione per la protezione dei minori. Sembrerebbe la tagline di un serial televisivo. In effetti, è così: Poliss ricalca sfacciatamente ogni forma possibile del piccolo schermo, tanto a livello stilistico (primi piani, montaggio veloce) quanto narrativo: estrema frammentazione, coralità complessa dei personaggi, un conflitto che viene solo modulato e via via trascinato ma mai risolto (le due poliziotte amiche-nemiche), schiacciamento del tempo sul solo presente, alternanza rigida (qui, forse troppo) tra il privato dei personaggi e la loro azione professionale, brevi accenni lanciati a mo' di esca per storie che verranno sviluppate molto tempo dopo, parentesi in cui si tira il fiato e si rilascia la tensione (le lunghe scene dei colleghi in discoteca o dei bambini rom, ehm..., “liberati” che ballano sull'autobus), e quant'altro. Comprese le “novità” introdotte dalla fiction più smaliziata, recente e matura (e soprattutto americana), come l'allargamento dei limiti di “ciò che si può vedere”: qui, nientemeno che un aborto, con indugi sul feto, sulla sofferenza della ragazza eccetera.
Nulla di male, per carità. Anzi. Il disegno più ampio è chiaro: ogni anno, a Cannes, l'industria cinematografica francese fa passare un film sopra le due ore e di consistente impegno produttivo, che tenta di assorbire fertilmente gli apporti della nuova (o nuovissima) serialità televisiva. Era il caso di Racconto di natale di Desplechin, di Un profeta di Jacques Audiard... (i film di Kechiche sono un caso a parte). Mai la cosa fu così chiara e plateale come con questo Poliss, prodotto salutarmente privo di troppe pretese. La cosa migliore in tutto questo è che, dichiarandosi, l'operazione segna il proprio impercettibile distacco dalla televisione. E si dichiara eccome: la regista è anche attrice, nell'ovvio ruolo di una impacciata (anche perché viene da un milieu sociale del tutto diverso) fotografa incaricata di seguire la squadra. In altre parole: la differenza tra un film del genere e la televisione è nel fatto che il “testimone occulto” che lo spettatore è davanti al piccolo schermo, qui palesa senza più alcuna ritrosia la propria presenza sul terreno dell'azione. Non è più nascosto. La sua incongruità viene alla luce del sole: la regista/fotografa è qui un corpo estraneo che sa di esserlo, e si rivendica tale per amore, fino a mettersi con il più ruspante dei poliziotti. Che qualcosa strida, è chiaro. Ma tanto meglio così.
È nel medesimo senso che va ricercato “ciò che il film vorrebbe aggiungere al proprio materiale televisivo”. Se quest'ultimo è un tubo catodico/digerente che tutto fagocita e tutto neutralizza, il film finisce con una mossa spiazzante a sigillare il fatto che non è vero che il cerchio si chiude sempre: nel momento stesso in cui si chiude, il cerchio è sempre anche aperto. I conti tornano, e insieme non tornano.
Si lascia vedere, Poliss. Si ride (anche per cose di cattivo gusto, come accade davanti al televisore), ci si affeziona ai personaggi. Anche al netto di soluzioni un po' raffazzonate, come “grumi” narrativi autoconclusivi che cuciono insieme due-tre sequenze (davvero a mo' di singoli episodi), e che lasciano troppo in evidenza le “giunture” tra un grumo e l'altro... Ma non è, in realtà, troppo questione di “tecnica” retorica narrativa. È più questione di prendere un apparecchio televisivo, piazzarlo su un piedistallo in un museo, accenderlo, e scorgere, grazie a un sapiente gioco di luci in sala, il riflesso del nostro stesso sguardo che (incongruo) lo guarda.

the hunter
di Bakur Bakuradze
Russia 2011, 124'

 

Un Certain Regard

27/30

Piccolo, affascinante film russo, lontano dai cliché, e ipnotizzato dal lavoro manuale. La narrazione può essere (e in genere è) un modello di tempo. Okhotnik questo modello lo trascura completamente, e si affida invece a un altro modello di tempo: quello informato dai ritmi e dalle pratiche della macellazione, della caccia, del lavoro agricolo...

Due ex detenute arrivano in una fattoria, e cominciano a prendere servizio in essa. Il silenzioso e impassibile capofamiglia, a seguito di un lentissimo crescendo di sguardi, cenni ed allusioni che si fanno strada praticamente a gomitate nel mezzo delle quotidiane azioni lavorative, ha un flirt con una delle due, destinato ben presto a dileguarsi così come era arrivato.

Bakuradze marca stretto gli impegni quotidiani dei personaggi, li mostra da una distanza assai ravvicinata, ed evita con cura qualsiasi ripetitività. Ci fa risucchiare, così, da una temporalità severa, assorbita nella sorda ritualità di quei gesti. Su questo sfondo, l'attrazione tra i due si intravede appena; brilla di una luce opaca, faticosa, smodatamente pudica.

Questa opacità, del resto, è direttamente alla base del subplot: in un lago delle vicinanze (infestato dalle incursioni di pescatori di frodo che danno la scossa alle acque per fare emergere i pesci morti), il figlio del protagonista cerca di vedere, sul fondo, la carcassa di un aereo precipitato in quelle acque, e il cui pilota è ora un eroe. Ma non vede niente, come appunto fa fatica a intravedersi, al di sotto delle fatiche di tutti i giorni, l'attrazione tra il padre e la nuova venuta.

Il bambino, ad ogni buon conto, la vede, e ci rimane male. Ma tutto, tutto, torna prima o poi ad essere sommerso dal ritmo sempre uguale delle “cose da fare”.

THE TREE OF LIFE

di Terrence Malick

Stati Uniti 2011, 138'

 

PALMA D'ORO

30/Lode

I fischi alla presentazione al 64° Festival di Cannes, in fondo, non sorprendono. È probabile che, nel 1968, 2001 Odissea nello spazio sarebbe stato fischiato.
Perché di questo si tratta. The Tree of Life adempie il voto kubrickiano di realizzare un film cosmico che sia anche vertiginosamente minimale (il massimo degli effetti speciali possibili che riguadagna la semplicità del plastico, o della cartapesta). Il film di Malick rende indiscernibili (nientemeno che) le origini dell'universo ricreate con effetti speciali sbalorditivi (ha fatto da consulente, guarda un po', il Douglas Trumbull di 2001), e un filmino di famiglia da cui traluce la storia più banale del mondo (dunque: la Storia del Mondo). Una famiglia con tre figli piccoli nel Texas degli anni Cinquanta. Un padre severo; un figlio che reagisce, e che cresce, e un altro più debole e meno capace di rispondere, che (ci viene detto all'inizio del film), a diciannove anni morirà. Ma ben prima della disgrazia, il padre avrà capito che la sua autorità è poco più che fumo negli occhi, e la corsa verso il successo che ha cercato di trasmettere ai figli come valore principale, non va da nessuna parte.
Il padre, qui, è il monolito nero. È lui che traccia la via dell'Evoluzione, salvo poi vederla accartocciare su se stessa e ritornare a quell'origine che ha miticamente abbandonato o fatto infrangere: l'unità primigenia dei due fratelli. E quest'origine non è “prima” della caduta, ma è qui ed ora, oggi, nel presente in cui il figlio grande, cresciuto ed affermato, ricorda una parabola paterna/famigliare che sembra sbriciolarsi in un secondo (anche se “dura” più di due ore), si sbriciola come continuamente si sbriciola l'universo, con espansioni e contrazioni letteralmente mimate da ogni taglio di montaggio, da ogni immagine, che per banale che sia (un'ombra sull'asfalto, una soffitta buia, uno schizzo d'acqua da una fontana, un bastone che traccia nell'erba una linea invisibile) sembra sempre la creazione del mondo svolgentesi sotto i nostri occhi in quello stesso momento, l'apertura dei sensi al mondo sempre come se fosse la prima volta. Ogni inquadratura è un'odissea nello spazio: la macchina da presa, per libertà di movimento e di angolazione rispetto a ciò che vede, dà l'impressione che i gradi in cui è possibile suddividere lo spazio siano ben più di 360. È il punto di vista di un bambino che comincia a camminare, se solo avesse la possibilità di muoversi dove vuole senza alcun limite e in qualunque direzione. Lo spazio più ordinario possibile come una meraviglia mai esaurita. Le primissime parole lette sullo schermo sono una citazione da Giobbe che ci chiede: dov'eri tu quando il mondo è stato creato? E la risposta rimane sempre identica: qui.
Il “taglio” miticamente operato dal padre/monolito corrisponde, ovviamente, all'avvento del linguaggio. Vanificare questo taglio, andare finalmente al di là di esso, non vuol dire spingersi verso un'immediatezza dei sensi che sarebbe “prima” il linguaggio, ma azzeccare quel punto di “sorgenza” del linguaggio in cui esso stesso si dà come sensibile, come un pezzo di mondo. Ecco perché Malick accompagna la sua straordinaria ricognizione sulla sempre rinnovata e sempre uguale flagranza della percezione con un uso (al solito) intensivo della voce over. Mai come stavolta la colonna audio è un finissimo tessuto di sussurri frammentari e smozzicati: un monologo interiore che assoceremmo, piuttosto che a un soggetto specifico (le voci appartengono a un po' tutti i personaggi, vivi e morti, adulti e bambini), a una sorta di coscienza cosmica.
Tuttavia, il film è lontanissimo da qualsiasi misticismo panteista. Se totalità c'è, è solo a prezzo di infinite scissioni, di shock percettivi che ci frastornano secondo dopo secondo. Malick ce lo dice dopo pochi minuti: è uno scontro senza posa, quello che oppone la Natura alla Grazia. La natura è un ciclo che si alimenta delle vane ambizioni di ogni essere vivente di prevalere su un altro. La grazia è fatta di rotture violente che vengono avallate e assunte fino a non sembrare più tali. Malick sta con la seconda.

the beaver

di Jodie Foster

Stati Uniti 2010, 91'

 

Fuori Concorso

28/30

Jodie Foster e Mel Gibson. Una strana coppia, non c'è che dire. La paladina democratica dei diritti civili e radicalismi vari, e il muscoloso eroe della Hollywood più fieramente reazionaria e repubblicana (giù giù fino, naturalmente, alla sua Passione di Cristo).

In questo film (diretto dalla prima), sono marito e moglie. Lei è una donna in carriera, lui un tempo lo fu ma ora è in preda alla depressione. La sua vita cambia quando spunta fuori una personalità immaginaria che lo libera catarticamente dal malessere: un pupazzo a forma di castoro infilato nel suo braccio sinistro. Questo “Mr. Beaver” si mette a parlare e a vivere praticamente in sua vece. E ha persino grandi idee, come quella di mettere in commercio, anziché un giocattolo, un kit per costruirselo.

Metafora palese, quest'ultima, della flessibilizzazione del settore economico, che sta mettendo in ginocchio il gigante americano. Il quale, come non ci fossero abbastanza ragioni di paralisi, si fa paralizzare ulteriormente dal fuoco contrapposto delle due maniere di massima di reagire. Da un lato, fare come se la crisi non ci fosse e continuare a testa bassa (e sfidando il ridicolo) ad abbracciare energicamente l'affermazione individuale e l'intero sistema che esso fonda – in altre parole, continuare a essere lo stesso di sempre delegando le proprie responsabilità a un soggetto immaginario come può essere il pupazzo di un castoro. Dall'altro, illudersi di poter affrontare la difficoltà a viso aperto e risolverla con una corretta comunicazione (come tenta inutilmente di fare la moglie interpretata dalla Foster), ovvero con un patto sociale finalmente privo di filtri.

Li avete riconosciuti? Già, sono proprio loro: repubblicani e democratici, qui appunto debitamente incarnati dai due attori protagonisti. The Beaver è uno stranissimo e interessantissimo ibrido tra l'hollywoodismo più schietto e il cinema indipendente con ambizioni intellettuali – duplicità, questa, che si riflette in quella dei due attori, e dunque in quella democratici vs. repubblicani. A questo titolo, il film è un tentativo propriamente utopico di mettersi davanti agli occhi la contraddizione alla base della vita pubblica statunitense, per poterne andare finalmente al di là. Infatti, se i due arrivano a un punto morto, i loro sforzi convergono comunque nel cercare di salvare il figlio, che affronta un'impasse uguale e contraria a quella del padre. E la soluzione, dolorosa per entrambi, sta nel lasciare le due impotenze (del padre e del figlio) l'una davanti all'altra, senza che il materno si intrometta a voler far per forza quadrare i conti. Tradotto al livello politico: l'America è quella repubblicana, è davvero il mito che crede di essere, e deve rendersi conto sia di esserlo sia di essere rotta per sempre – la pretesa dei democratici di trovare un'alternativa praticabile per la sua identità fa semplicemente il gioco della fazione più reazionaria, che trova così un'insperata occasione di poter nuovamente mostrare i muscoli come negli irrecuperabili bei tempi.

Il valore, inaspettatamente prezioso, di The Beaver, è che non offre soluzione. Ci butta in faccia la contraddizione e dice: sbrigatevela da soli. Se catarsi dev'essere, non crediate che ammonti a qualcosa di più della constatazione della propria impotenza. Nel dirci questo, ci getta addosso un qualcosa che non è né un film hollywoodiano (troppo spazio dato ai personaggi), ma nemmeno un prodotto “indipendente” (il ritmo è troppo veloce, o meglio troppo affannosamente accelerato, per non cercare di simulare quella “azione” che rimane invece sempre allo stadio di un “vorrei ma non posso” - o meglio, “non posso più”). Ed è il suo inestimabile pregio: attraverso questa indecidibilità, il film ci espone una falsa alternativa che è necessario superare se non si vuole rimanere soffocati.

LE HAVRE

di Aki Kaurismaki,

Finlandia/Francia/Germania 2010, 93'

 

In Concorso

30/30

Nel folgorante incipit del nuovo, stupendo film di Kaurismaki, un elegantissimo uomo munito di ventiquattrore si fa lustrare le scarpe per poi buttarsi sotto una macchina. Cosa separa lui dai due lustrascarpe a cui si rivolge? Semplice. I suoi sguardi sono diretti fuoricampo, mentre quelli degli altri due no. In tempi di crisi economica (il vero sfondo di Le Havre, molto più dell'omonima città di confine - come del resto di confine è ormai qualsiasi luogo ora che le nazioni di fatto non esistono più), vive chi sa ricucire, a prescindere dalla ricchezza di cui si dispone. E sono gli sguardi che ricuciono uno spazio, un tessuto, una comunità.

Dopo questa prima sequenza, infatti, l'anziano “sciuscià” protagonista mette in piedi un'improvvisata ma efficace rete di solidarietà, per aiutare un giovanissimo clandestino scappato da un container appena arrivato al porto. Per l'imbarco ci vogliono i soldi; per i soldi bisogna mettere in piedi un concerto; per mettere in piedi il concerto bisogna far riappacificare il cantante e la sua donna, quindi bisogna trovare la donna – e così via. La solidarietà non è questione di “persone” (come crede il povero Guediguian con il suo ultimo, volenteroso ma insensato, film), bensì di segni. È questione di geometria, di traiettorie innescate da oggetti ridotti alla propria nuda funzione (non è un caso se di cognome il protagonista fa Marx). In altre parole, è affare di messa in scena.

Da sempre questione di economia (ovvero di estrema parsimonia di risorse grafiche, linee e vettori “al minimo sindacale” da cui trarre la massima efficacia possibile), la regia scarna e minimale di Kaurismaki è il perfetto pendant di questa epopea degli umili che riescono a salvarsi solo grazie al loro diventare metteurs en scène, cioè solo grazie al costruire in prima persona un'intelaiatura spaziale le cui giunture sono gli sguardi dei personaggi raccordati tra loro.

I tratti distintivi dello stile kaurismakiano ci sono tutti: inflessibile aplomb di personaggi bloccati in uno spoglio gioco di diagonali, umorismo distaccato, ingombranti porzioni di buio che invadono trasversalmente inquadrature dai colori comunque accesi, musica enfatica tenuta a volume scandalosamente medio su momenti ugualmente neutri... Stavolta, però, si impone all'attenzione il geniale riutilizzo di uno di essi: il miracolo, inattesa chiave di volta ultramelodrammatica che si fa precisa indicazione politica: la solidarietà si attiva non si attiva a causa (e in vista) di un bisogno, ma solo come momento utopico, cioè solo come ingresso dei corpi nello spazio che lega tra loro i segni, e li qualifica. La solidarietà si attiva solo se si entra d'emblée in un altro spazio – quello dell'interdipendenza dei segni, cuciti insieme da accordi di sguardo e diagonali di inquadratura.

Se nessun uomo è un'isola, e chiunque vive solo in quanto variamente collegato a una molteplicità di esseri viventi, lo si deve al fatto che nemmeno i segni funzionano e significano in maniera autonoma, ma solo in rapporto gli uni con gli altri. Un mazzo di fiori diventa un mazzo di fiori solo quando, nel film, torna più volte in situazioni diverse.

Se il francesissimo protagonista riesce a spacciarsi per un parente albino del nerissimo ragazzino da aiutare, è perché non esistono differenze di classe o nazionalità o razza davanti all'universalità del nostro essere segni. Venendo da un paese che ha reagito alla crisi abbandonandosi alla xenofobia, Kaurismaki può permettersi senz'altro di girare in Francia e di dire tutto questo a un paese che sta, ahinoi, sprofondando nello stesso errore insieme a buona parte d'Europa.

L'APOLLONIDE

di Bertrand Bonello

Francia 2011, 125'

 

In Concorso

27/30

Non si sa ancora come prenderlo, Bertrand Bonello. Ma si è tentati, sempre più, di guardarlo con favore. In passato ci ha fatto vedere alcune cose pretenziose o noiose, spesso mescolate senza soluzione di continuità ad altre deliziose o folgoranti.

L'apollonide non è un film perfetto, ma affascina, seduce, intriga. Non è perfetto perché le ingenuità (la ormai risaputa e obbligata scena anacronistica in cui le ragazze ballano un pezzo rock di una settantina d'anni più tardi) e le cadute non mancano – particolarmente imperdonabile è il finale, con il suo impune paragone tra due condizioni francamente poco assimilabili: le prostitute sulle strade di oggi e quelle di un lussuoso bordello parigino di fine Ottocento.

In quest'ultimo, viene ambientato tutto il film. Non succede granché, ed eventi anche traumatici (come la morte del personaggio di Jasmine Trinca) scivolano via senza lasciare troppe tracce. Coppie che si fanno e si disfano, perversioni varie (solo suggerite), novizie che vengono gradualmente introdotte al mestiere... Ma uno di questi accadimenti non viene proprio digerito. Ritorna lungo tutto il film, come un trauma che non è possibile rimuovere e che dunque non può che ripresentarsi. Una delle ragazze, “l'ebrea”, sogna un incontro galante con un uomo che sfocia ben presto nel piccante spinto; incontrato quest'uomo, si lascia legare al letto da lui, ma questi la sfregia alla bocca. Da quel giorno è costretta ad abbandonare la professione, a diventare “La donna che ride” e a venire ossessionata da quella tragica notte. Che, nonostante tutto, continua ad eccitarla (o meglio, a esercitare un'irresistibile attrazione-repulsione) al solo pensiero.

L'eccesso, l'intensità insopportabile, viene solo corteggiata ed accuratamente evitata. Anche perché, appena la si tocca, ci si trasforma in maschere: è ciò che viene suggerito nel prologo, e confermato definitivamente nel ballo in costume conclusivo. Secondo un erotismo piuttosto tradizionalmente inteso, il momento clou viene corteggiato, sfiorato, evitato: ci si ferma un attimo prima, ci si focalizza su ciò che precede, si lascia evaporare il desiderio fino ad accontentarsi, in vece di esso, della strana fascinazione per l'atmosfera che Bonello è davvero bravo a farci respirare. Pur non essendo certo avaro di corpi e nudi attraenti, Bonello si concentra piuttosto sul suo sopraffino talento visivo, sulla luce dorata che ricopre le carni e gli oggetti, sugli smaglianti riflessi pittorici, sui lenti carrelli che scivolano sonnacchiosi su corpi e arredamento (qui è quasi la stessa cosa), su inquadrature ipnotizzate da sguardi pigri o situazioni contingenti mentre dialogo e azione si svolgono altrove.

Accumulando una marea di notazioni quasi sempre marginali, poco più che insignificanti, Bonello mette in piedi un romanzone sfatto, sfracellato, quasi liquido. Azzecca un'atmosfera fumosa, oppiacea, lasciva, ormai al di là di qualsiasi cupidigia, come colta a un passo dal sonno, e soprattutto dal sogno.

ONCE UPON A TIME IN ANATOLIA

di Nuri Bilge Ceylan

Turchia 2011, 157'

 

In Concorso

30/30

Dopo alcuni ottimi film, il turco Nuri Bilge Ceylan firma il suo primo capolavoro. A questo traguardo, ci arriva riassumendo e sintetizzando tutto il suo cinema in un'unica, geniale figura: la ricerca del cadavere.

Per quasi metà del film, infatti, seguiamo un gruppo di poliziotti che scorrazza in aperta campagna insieme a un reo confesso d'omicidio - il quale, però, ha non poche difficoltà a ricordarsi dove ha seppellito il corpo. Per l'altra metà seguiamo una laboriosa autopsia (che non vediamo, perché relegata all'adiacente fuoricampo), ma soprattutto i riflessi interiori sul dottore della squadra prodotti da quella ricerca, che lo ha visto fra l'altro confidente intimo del procuratore riguardo ad alcune sue traumatiche esperienze del passato. Il medico, a poco a poco, si rende conto e sente che non esistono morti che non ci riguardano. Uno schizzo di sangue che gli arriva in faccia durante l'autopsia segnala la continuità fisica tra noi viventi e coloro che non vivono più.

Questa continuità è data anzitutto dagli occhi: l'esperienza della visione garantisce fatalmente questo contatto; essa è anzi la soglia stessa, strutturalmente incerta e malferma, tra vivente e non vivente. Stan Brakhage aveva filmato un'autopsia, e ne aveva fatto uno dei film più rivelatori della storia della visione (più ancora che di quella del cinema): The Act of Seeing with One's Own Eyes. L'”atto del vedere con i propri occhi” (definizione etimologica dell'autopsia stessa) si riduce in ultima analisi a cercare e non poter trovare l'integrità della figura: il cadavere diventa il perfetto simbolo universale della nitidezza, della stabilità e dunque dell'identificabilità dell'immagine. Di qualsiasi immagine.

Non si trova, questa integrità, perché l'immagine si sfalda ad ogni momento, sfuma, si perde in mille rivoli che non possiamo seguire senza perdere di vista la visione d'insieme. Lo sa bene, per esempio, Alexander Sokurov. E ora possiamo dire che lo sa benissimo anche Ceylan, perché compone qui una delicatissima sinfonia sul venir meno della nitidezza della figura. Riduce la sua palette cromatica alla luce dorata dei fari nel marrone/verde scuro della campagna notturna e, di giorno, a tonalità pochissimo invasive. Sceglie per le sue immagini linee dolci, soprattutto per quanto concerne il paesaggio. Adotta obbiettivi enormemente sensibili pronti a cogliere ogni minima vibrazione corporale o tremolio espressivo degli occhi, e che fanno del movimento qualcosa di grumoso che si stacca a fatica dallo sfondo. Racconta una storia che si sfuoca continuamente, tra esilaranti perle di pedanteria da parte di poliziotti e personale medico, lunghe disquisizioni (pressoché tarantiniane) sullo yogurt, e digressioni della macchina da presa (per esempio) su una mela che, dall'albero, cade, rotola giù e si fa trasportare dalle acque di un ruscello mentre udiamo in lontananza il dialogo che innerva l'azione principale. Ogni volta che ci viene data l'impressione di una chiusura narrativa, della conclusione di un ciclo di eventi (quando il cadavere viene ritrovato, o quando viene riportato alla centrale, o quando un sasso ricevuto in faccia dall'assassino chiarisce definitivamente le dinamiche fin lì assai ambigue del delitto), spunta fuori un residuo viscoso che il film si accinge da lì in poi ad esplorare. Così, il tempo non è mai finito - anzi, non finisce mai di finire, visto che al centro di qualunque istante c'è il lento liquefarsi di qualunque tipo di contorno, la propagazione viscosa e insinuante della dissipazione in ogni piega e sussulto del visibile. La morte è dappertutto, in ogni poro del vivente: in questo modo, lei stessa (la morte) si scioglie nell'impalpabile, soffuso legame che ci lega a tutto quanto esiste.

RESTLESS

di Gus Van Sant

Stati Uniti 2010, 91'

 

Un Certain Regard

27/30

Un film di sconfinata dolcezza, una soave riconciliazione con la morte che rincorre e afferra la magia, riservata esclusivamente all'adolescenza, di saper vivere i momenti pieni del presente insieme alla coscienza che se ne stanno andando per sempre.

Enoch è orfano: i genitori sono morti in un incidente stradale. Per esorcizzare il trauma (a distanza di anni, non è ancora minimamente capace di elaborare il lutto), si è messo a parlare con un amico immaginario (un kamikaze nipponico della seconda guerra mondiale che lo batte sempre a battaglia navale) e a frequentare funerali. Lì conosce Annabel, anche lei alla fine dell'adolescenza – ma pure al termine della vita, visto che ha un tumore al cervello.

Van Sant si concentra sul tenerissimo idillio che si crea tra i due, decisi ad assaporare ogni istante che resta ad Annabel. Segue compiaciuto i loro dialoghi stralunati, le loro dolcezze, e gli allestisce intorno un perfetto autunno dell'Oregon impaziente di diventare inverno. Nessun dramma: solo una serena accettazione.

In qualche modo, per Enoch e Annabel “crescere” significa (perversamente) venire a patti con la certezza che il proprio infantilismo non se ne andrà mai. Parimenti, i due sembrano ingaggiare un rapporto con la morte alternativo rispetto alla sepoltura, ovvero rispetto al tradizionale pensare il passato come qualcosa rispetto a cui il presente fissa una continuità tagliata su misura per potersene allontanare. Qui no: il presente “sente suo” il passato solo a seguito della certezza di aver vissuto il presente come qualcosa che si avvia a diventare passato. A queste condizioni, il passato davvero non passa mai: è sempre lì. Il “senza riposo” del titolo è dunque innanzitutto un “senza possibile sepoltura”. Ecco perché l'immagine ricorrente del film vede i personaggi sdraiati sull'asfalto tracciare “in diretta” la loro stessa sagoma. Il presente non deve che adagiarsi alla sua forma passata che è sempre/già lì con lui. Ecco perché non potrà essere Enoch ad accompagnare Annabel nel momento estremo, ma l'amico immaginario già morto. Anzi: non lui, ma la sua (bellissima) lettera d'addio in giapponese. I preziosismi stilistici “pop” sfoggiati da Van Sant inquadratura dopo inquadratura sono altrettante lettere d'addio, altrettanti cenni di saluto a una vita sul punto di diventare morta, ovvero di diventare immagine, manichino, carta da parati con una palette di colori mozzafiato.

THIS MUST BE THE PLACE

di Paolo Sorrentino

Italia/Francia 2011, 118'

 

In Concorso

27/30

Non sarebbe sbagliato considerare This must be the place quello che sembra: ovvero il “grimaldello” che ha permesso a Sorrentino di imporsi definitivamente sulla scena mondiale – con capitali internazionali e attori del calibro di Sean Penn, Francis McDormand e Harry Dean Stanton. Tuttavia, la chiave migliore per inquadrare un'opera come questa è un'altra: Sorrentino è ora un archistar. Il capitale multinazionale (ricordiamolo: questo film segna l'inedito impegno diretto e senza ulteriori mediazioni nella produzione, da parte di Banca Intesa San Paolo), ben sapendo che lo spreco è una forma di investimento da cui non ci si può sottrarre, affida milioni e milioni di euro a un autore (meglio: a un marchio autoriale) che sappia confezionare a dovere (e confermare) il messaggio alla base della civiltà globale e post-capitalista contemporanea: il mondo intero è diventato un campo di concentramento, è diventato nuda vita da sottomettere a forme organizzative sempre meno legittime e sempre più scollate da quello che dovrebbero rappresentare e organizzare. Lo spazio è fatalmente separato da chi lo utilizza, e non può dunque non essere affidato a chi “sa il fatto suo”: la star. Da cui, la conferma puntuale dello status quo.

L'arte contemporanea lo sa da decenni, e prova a regolarsi di conseguenza. Sorrentino prova ancora a dare a tutto ciò la forma del cinema, ovvero del mito. Mito significa regolazione della (propria) storia rispetto a un'origine. E questa origine sono i campi di concentramento: per poterli superare e andare oltre, bisogna tornare a loro.

Bisogna, come fa l'attempata rockstar dark anni Ottanta Cheyenne, vendicarsi di chi rinchiuse nei campi i nostri padri impedendoci di crescere, e girare mezza America per riuscire a rinchiudere (nudi e tremanti) i responsabili nel campo di concentramento a cielo aperto che è nel frattempo diventato il mondo. Perché gli States, che siano Michigan o Utah o altro, sono di fatto indistinguibili dalla provincia di Latina (cfr. l'incompreso Sorrentino de L'amico di famiglia, 2006): ovunque  lo stesso non-luogo, la stessa sovrapposizione (non troppo dissimile dal campo) di determinazione e indeterminazione.

Ovunque lo stesso affiancamento informe di casette suburbane a perdita d'occhio e mostruosità architettoniche. Ovunque, la stessa invasione di oggetti risibilmente inadeguati o demodé, che espongono svergognatamente la differenza tra loro stessi e il posto che sono supposti occupare (il piedistallo cui li consegna sarcasticamente la macchina da presa di Sorrentino). Cheyenne alla moglie: “Perché il tuo architetto ha fatto scrivere un'enorme scritta 'Cucina' in cucina? Io lo so che quella è la cucina”. Siamo dunque dalle parti del pop, con la differenza che, essendo il pop diventato “il mondo”, le icone pop perdono la loro bidimensionalità, e assumono una loro volumetria, come qui il gigantesco e ingombrante “pistacchio più grande del mondo” che si erge monumentale nel bel mezzo del Midwest americano.

La regia di Sorrentino è tutta qui: un gioco di distanze e volumetrie nel bel mezzo di un florilegio di opere d'arte istantanee che, oggi, si chiama “mondo”. Oppure, se si vuole, una maniera fantasiosamente geometrica di misurare lo spazio tra un puntino e l'altro di un qualche Liechtenstein. Se si vuole, è anche un po' il gioco di David Byrne, che qui compare in veste di Artista a capo di una gigantesca installazione in cui cerca letteralmente il dominio assoluto sullo spazio; appena prima, lo abbiamo visto su un palco sotto a un pezzo di mondo letteralmente prelevato a mo' di “objet trouvé” (un giardino con sedie a sdraio e una donna che prende il sole) e schiaffato su una placca che va avanti e indietro nella parte alta del palco, sulle teste dei musicisti. Come a dire: io, artista, sono la star che si fregia dei pezzi di mondo in tre dimensioni fatti istantaneamente arte.

Sorrentino, però, prova ad andare oltre; prova a stare dalla parte di Cheyenne che rimprovera all'amico Byrne che no, lui di giocare a fare l'artista non se la sente più. Cheyenne è la spia che c'è dell'altro al di là dell'artista, dell'adeguarsi al gioco del mondo-fatto-arte. Pesantemente truccato (come molti eroi sorrentiniani), la sua stessa maschera testimonia che l'ossessione per il travestimento deriva dalla paura della Nuda Vita, dal terrore che sotto il trucco ci sia il nulla, quello stesso nulla che il mondo esibisce sciorinando la propria lampante inadeguatezza.

La meta, allora, sarà togliersi la maschera. Il finale ne è un esempio palese. Non avere più paura dell'apparenza, ma riuscire a vedere essa stessa come l'agognato superamento della discrepanza (eminentemente estetica, e che oggi invade il mondo) tra l'oggetto e il posto che occupa. Questo DEVE essere il posto: la distanza tra il posto e ciò che lo occupa non viene più esposta, ma finalmente vissuta, e fatta pelle.

Un punto d'arrivo importante, cui forse Sorrentino arriva con troppa programmaticità. Prende troppa rincorsa per superare dall'interno l'ideologia da “archistar”, fa troppo affidamento sul mito per liberarsi del mito, sicché non si è davvero sicuri che alla fine se ne sia liberato davvero. Nella sua visione, i campi di concentramento forse rimangono troppo all'origine del mondo contemporaneo per arrivare davvero al di là di loro. Finisce, in altre parole, per ribadirne la centralità.

Ma non possiamo imputargli di non aver fatto un miracolo. I miracoli accadono e basta, e possono chiamarsi, per esempio, Malick. Sorrentino rimane al di qua del miracolo, ma il quadro storico che dà della contemporaneità e delle condizioni che ne sono alla base è di straordinaria appropriatezza.

sleeping beauty

di Julia Leigh

Australia 2010, 104'

 

In Concorso

24/30

Chi non ama Michael Haneke si astenga da questo film. Chi lo ama, entri in sala comunque con circospezione. Perché Sleeping Beauty, di fatto, non fa che prendere in blocco “quel” modello di cinema d'autore che si accontenta di rinsecchirsi su schemini psicanalitici facili facili, e lo trapianta in Australia.
O meglio: lo trapianta in quei due-tre luoghi che la giovanissima protagonista sceglie come ripetitivo set della propria vita, vissuta con assoluta indifferenza. La casa, il campus, l'ufficio, il bar, l'ambulatorio dove si sottopone a periodiche gastroscopie, la casa di uno strano amico tossicodipendente e privo di interessi sessuali come lei... E poi c'è quel villone lussuoso dove accetta (dietro lauto compenso) prima di servire ai tavoli nuda, e poi di giacere dormiente per molte ore, alla mercé di vecchiacci che comunque, per contratto, non la penetreranno.
“Unica regola: niente penetrazione”, rende subito chiaro la compita “maitresse”. E infatti, il film si mancare qualsiasi rilascio, qualsiasi catarsi: la protagonista non attraversa e non supera nulla, non c'è shock che la scuota da una passiva, totale indifferenza che si confonde con la vita, in virtù della quale pulire un tavolo o farsi scopare da uno sconosciuto (se non addirittura concedersi a lui in sposa) sono di fatto la stessa cosa. Non la scomparsa del suo unico affetto (l'amico nel quale, lontana dal sesso, rivedeva la propria abissale abulia), non la scoperta di quello che le fanno i “clienti” mentre lei dorme, la scuotono da questo stato larvale.
Una forma di vita imprigionata nel proprio programmatico distacco – come ingabbiato nel proprio programmatico distacco è il partito preso stilistico utilizzato: scene sovente di un'unica inquadratura, un totale da lontano che distribuisce corpi e movimenti con anestetica freddezza, quasi con solennità, comunque riducendo al minimo qualsiasi sussulto vitale. La macchina da presa stessa, in effetti, si muove solo di rado e impercettibilmente per allargare il campo visivo a ciò che sta ai lati, giusto quando serve, e senza mai rinunciare a un “design” dell'inquadratura controllatissimo.
Ma hai voglia a fare gastroscopie: “dentro” questo dispositivo gelidamente sgargiante, non c'è niente, se non il teorema ingenuamente psicanalitico sulla “pulsione di morte” (e soprattutto sul fatto che non c'è nulla al di là di essa) a cui questa illustrazione cinematografica non aggiunge nulla.

ARIRANG

di Kim Ki-Duk

Corea del Sud 2011, 100'

 

Premio Un Certain Regard (ex-aequo)

28/30

Per una dozzina d'anni, due film all'anno. Poi, più niente per tre anni. E nessuno sapeva perché. Quand'ecco che dal nulla, arriva Kim Ki-Duk stesso a spiegarcelo, con un film che nessuno, mai, avrebbe potuto prevedere. Una novantina minuti di digitale “cheap” in cui Kim, unico attore, recita stesso, e ci mostra la vita che ha fatto in questo periodo. Una capanna isolata in mezzo alle montagne, senza acqua corrente (ci si lava con la neve sciolta), con dentro una tenda per non avere freddo durante la notte. Kim si sdoppia (lui con i capelli lunghi e lui con i capelli raccolti, in campo-controcampo) e si autointerroga sul suo bizzarro romitaggio. E non si risparmia niente, a cominciare da insulti ad auto-crudeltà. Un autentico psicodramma, in cui il regista scoppia più volte a piangere, e intona spesso una nota canzone popolare sulle colline Arirang che si debbono, a Dio piacendo, superare.

Queste colline sono, di fatto, l'impasse in cui è caduto Kim quando, nel suo ultimo film Dream (2008) un attrice ha seriamente rischiato di morire impiccata in un incidente di scena. Dopo aver sfiorato la morte vera, è inutile corteggiarla ancora col melodramma. Kim sputa fuori tutto e, come nei suoi film, cerca disperatamente una catarsi sempre rinviata. Arriva persino a forgiare una pistola e recarsi col suo SUV nei luoghi della sua filmografia, per sparare simbolicamente alle proprie opere. Ma alla fine sono i film ad avere l'ultima parola, letteralmente.

Anche perché Kim stesso scopre di avere il proprio cinema cucito addosso: non gli resta allora che mostrarsi, uscire allo scoperto in primissima persona. L'impossibilità strutturale dell'espressione (che nel cinema di Kim sfocia regolarmente nel gesto mancato, inconsulto, violento, incompiuto, brutale) trova qui una logica risoluzione: se il “dentro” non può esaurirsi fino in fondo nel “fuori”, mostrare il “fuori”, la pelle addirittura, di colui che cerca invano di esprimersi dice già tutto quello che c'è da dire.

E questa “pelle”, ovvero il vissuto quotidiano di Kim, aderisce in maniera sorprendente all'essenza stessa del suo cinema. Anche perché viene filtrata da un montaggio che, come suo solito, “azzanna” seccamente i fenomeni nel loro punto di visibilità più fugace, tagliente, incisivo. Il suo uso bizzarro e non convenzionale degli oggetti ordinari (facilmente riscontrabile in ognuno dei suoi film) non è un vezzo artistoide: è un'autentica questione di sopravvivenza – memorabile, a questo riguardo, la caffettiera da lui costruita con materiali di fortuna. Né potrebbe considerarsi un vacuo compiacimento narcisista lo sdoppiarsi in molteplici alter ego: tra i due lati dello specchio la simmetria non è mai compiuta, lo squilibrio è strutturale e Kim sentirà sempre e comunque qualcuno che bussa alla porta durante la notte – salvo poi accorgersi, aperta la porta, che non c'è nessuno.

Rinchiudersi in un eremo non fa raggiungere la pace, ma prepara il campo alla rottura. Il suo film che più programmaticamente raccontava questo (Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera) è quello più vicino a Arirang. Non a caso Kim scoppia a piangere davanti alle immagini di quella pellicola, in cui lui stesso trascinava a mo' di espiazione una pesante pietra su per una montagna. E proprio sulla cima, poteva vedere il suo eremo dall'alto. Ecco: Arirang più che uno sforzo di introspezione è un tentativo doloroso di “vedersi dal di fuori”; un calvario (“La vita è sadismo e masochismo rivolti contro se stessi”, sostiene Ki-Duk) volto non all'espressione di se stessi, ma la constatazione che “se stessi” è un campo di battaglia, e nulla come la propria apparenza superficiale (la propria “pelle”) può recare traccia significativa di quella guerra che “si è”.

midnight in paris

di Woody Allen

Spagna/Stati Uniti 2010, 94'

 

Fuori Concorso

25/30

A che gioco sta giocando, Allen ce lo dice subito: i primi cinque minuti sono, sfacciatamente, cartoline alla “saluti da Parigi”, e di quelle più banali. Non un luogo comune ci viene risparmiato: né la torre Eiffel, né Montmartre... Del resto, è ciò che negli ultimi anni Allen si diverte a fare nelle sue trasferte europee (la prossima, pare, sarà Roma). Che il suo immaginario sia trito fino alla nausea, Allen lo sa. Che sia ormai un regista di irrecuperabile mediocrità, Allen lo sa. E se si salva (e si salva) è perché lo riconosce apertamente, perché enuncia in modo sempre più plateale i suoi limiti: i comodi limiti di chi può permettersi di girare un film all'anno ripetendosi senza posa.
Subito dopo le cartoline, per il protagonista arriva la certezza: è innamorato di un fantasma. Più che della futura moglie (americana doc a Parigi per trovare i genitori, a propria volta in viaggio d'affari), è innamorato della Parigi degli anni Venti, dove avrebbe potuto diventare quel romanziere brillante che sa di non poter essere, perché non può sfuggire dal suo destino elettivo di sceneggiatore hollywoodiano artigianalmente abile e strapagato, ma impersonale. Ebbene, un sortilegio lo fa accedere proprio a quella Golden Age di quasi un secolo fa: vi incontra personalità (spassosamente fatte rivivere per lo schermo) del calibro di Hemingway, Scott Fitzgerald, Gertrude Stein, Picasso, Dalì... Solo per capire, come da copione (da lui stesso scritto) che non c'è Golden Age che non sogni di una Golden Age ulteriormente anteriore, all'infinito... e così, si adatta alla sua vera vocazione, al suo vero destino: quello di antiquario – come in fondo ha sempre saputo.
Gli ultimi film di Allen, e Midnight in Paris in particolare, non sono che questo: la riconciliazione con la propria insindacabile mediocrità. Lui stesso pseudo-romanziere costretto a rimanere a vita sceneggiatore (lo si vede da come rattoppa alla meglio le impasse dei suoi meccanicissimi script ricorrendo a facili easy ways out come le battute o il soprannaturale), Allen riconosce ed ammette che lui non sarà mai nel museo delle cere in cui campeggiano Hemingway, Scott Fitzgerald, Gertrude Stein, Picasso, Dalì... Lui no: lui ha cominciato la carriera direttamente come monumento di se stesso, ma ha capito che non era cosa, e che al massimo poteva, da dietro la macchina da presa, raccontare la sua impasse e soprattutto testimoniare (come scopre qui il protagonista) che il presente non esiste, che ogni istante annaspa a ritroso verso il passato e che allora tanto vale continuare a filmare pièce leggere leggere e con i personaggi che districano i propri rapporti con ovvia logicità, pièce che potevano essere concepite e messe in scena 150 anni fa.
Ne vale la pena? Lui dice di sì, che è sempre meglio mettersi in gioco spiattellando i propri limiti, piuttosto che aderire al Tea Party repubblicano come i genitori della futura moglie, o rimanere ingabbiati nel passato come l'amante interpretata da Marion Cotillard, o (soprattutto) esibire la propria saccente pedanteria al sicuro da ogni pericolo di perdere la faccia, come l'amico che accompagna la giovane coppia in giro per musei. Tutti i torti, non ce li ha. Contento lui.

THE DAY HE ARRIVES

di Hong Sangsoo

Corea del Sud 2011, 79'

 

Un Certain Regard

27/30

Com'è noto, Hong Sangsoo ha costruito un'intera carriera sulla differenza e sulla ripetizione, ovvero sull'iterazione indefessa di un gruppetto sempre uguale di temi e forme, ogni volta in maniera lievemente diversa. Tutto ciò, questa volta, è il soggetto stesso del film: un giovane regista che (almeno per il momento) ha abbandonato la regia per l'insegnamento in provincia, torna a Seoul, dove si imbatte, lungo tre giorni consecutivi, in una serie di personaggi e situazioni ogni giorno sempre uguali (un'aspirante attrice che lo invita invano a bere qualcosa, una bevuta in un bar...), in seguito ai quali tornerà esattamente al punto di partenza: una donna abbandonata meschinamente dopo una notte di sesso. Cambiano solo la donna, e il punto di vista della macchina da presa: prima era dal lato della donna, adesso fuori dalla porta, a fianco del protagonista.

Ecco: con questa sua nuova fatica in un algido bianco e nero (e col solito minimalismo fatto di lunghe inquadrature statiche e traiettorie pulitissime solo saltuariamente aggiustate da zoom e brevi semipanoramiche), Hong sembra essersi voluto dedicare a variazioni puramente registiche: ad esempio, la sua solita scena di bevute tra conoscenti in un locale viene interrotta per due volte dall'inserto della cameriera che sta arrivando dalla strada, ma non la terza (perché ormai la cameriera a quel punto è già “intima” del protagonista).

Il gioco è talmente scoperto che viene enunciato da uno dei personaggi: le coincidenze sono tali solo quando diventano ricorrenti: prima che ricorrano, le singole occorrenze letteralmente non esistono, emergono solo retroattivamente quando e se vengono ripetute. Nel finale, Hong si spinge fino a far incontrare al suo protagonista (nell'ultimo pianosequenza) degli incontri ancora “neutri”, singolari, celibi, ancora in attesa di attivarsi virtualmente attraverso la ripetizione in qualche futuro. L'ultimissima immagine, però, vede il protagonista venire fotografato da una passante: The day he arrives è, in ultima analisi un ritratto, l'ennesimo ritratto di un maschio meschino ed egocentrico (il “tipo” prediletto da Hong), letteralmente bloccato nella propria immagine, nei propri difetti da cui non riesce a smuoversi di un millimetro.

Forse, a pensarci bene, di qualche millimetro sì: tutto il senso del film sta appunto nella riproposizione di uno schema ormai vecchio quanto la carriera stessa di Hong, per sottoporlo a brevi sussulti puramente visuali, per suggerirci che una chance di uscire dal circolo infernale della ripetizione (quella cui è condannato Don Giovanni passando di donna in donna) c'è, anche se possiamo coglierla solo confusamente, come una brezza indeterminata che ci soffia sugli occhi.

SITO UFFICIALE

 

64.mo festival di cannes
Cannes, 11 / 22 maggio 2011