63.mo festival di cannes
Cannes, 12 / 23 maggio 2010

 

recensioni

 

di Marco GROSOLI

> I PREMI

> TOURNEE di Mathieu Amalric

> POETRY di Lee Chang-Dong

> rizHAO CHONGQING di Wang Xiaoshuai

> o ESTRANHO CASO... di Manoel de Oliveira

> Uncle BOONMEE... di A. Weerasethakul

> I WISH I KNEW di Jia Zhang-Ke

> UN HOMME QUI CRIE di Mahamat-Saleh Haroun

> DES HOMMES ET DES DIEUX di X. Beauvois

> HAHAHA di Hong Sang-Soo

> OUTRAGE di Takeshi Kitano

 

TOURNEE
di
Mathieu Amalric
Francia 2009, 111'

 

MIglior Regia 2010

26/30

Le aspettative erano pessime. Mathieu Amalric, giovane star transalpina di quelle che possono funzionare solo in patria e risultano irrimediabilmente antipatiche al 90% del resto del mondo, dirige e interpreta la storia di un ex produttore televisivo di successo (Joachim) che, dopo aver mollato tutto, porta un assurdo spettacolo di cabaret “rosa” di un gruppetto di tardone americane in giro per la Francia. E, come succede in questi casi, a un certo punto viene, per lui come per la più consapevole delle attempate ragazze (che è una specie di suo “specchio”, un suo doppione femminile che, a differenza di lui, ha il coraggio di essere se stessa fino in fondo), l’ora di fare i conti con le macerie della propria vita.

Il risultato, fortunatamente, non è poi così male. Affatto. Il momento-chiave è probabilmente quello dell’intervista alle “girls”: una di loro dice qualcosa come “è uno spettacolo di sole donne per sole donne”, ma subito dopo viene inquadrato lui, Amalric, l’uomo che, da dietro le quinte, decide tutto. E in effetti la cosa più interessante del film è proprio questo gioco a nascondino dell’attore e del protagonista: tanto acuto è il loro irrefrenabile narcisismo, tanto più si nascondono, si defilano, scappano, lasciano la ribalta alle ragazze affinché siano loro a rivelare Joachim/Amalric piuttosto che l’esibizione diretta di se stesso. Non a caso, quando Joachim ricompare dopo una lunga assenza improvvisata, rivolge alla ragazze un commosso discorsetto pronunciato al microfono del teatro in cui stanno provando – ma quando una di loro fa per raggiungerlo alla sua postazione, puff, Joachim è scomparso nel nulla mentre due inservienti trasportavano un vistoso dipinto davanti alla macchina da presa. Joachim/Amalric è onnipresente, eppure non si fa mai trovare.

E la messa in scena in qualche modo segue questo schema; lo sguardo di Amalric si tiene a una certa distanza dai propri oggetti, e lascia disperdere le traiettorie dei suoi personaggi (si tratta, come si può immaginare, di un microcosmo piuttosto caotico e loud) attraverso una specie di “disordine controllato” che si produce, scompaginandole, all’interno delle inquadrature, spesso fisse.

Tournée si salva anche come ritratto di ambiente, con tutti gli automatismi, le bugie, il vuoto, le opacità di un ambiente come quello del sottobosco spettacolare meno “glamour”. Che poi ci siano molti cliché del cinema “marginale”, tipo la famiglia disfunzionale o l’enfasi sugli spazietti “off” e desolati della provincia, non è così grave. L’importante è che questa marginalità venga non tanto demistificata e sputtanata per la finzione che è (l’ex collega che rimprovera a Joachim l’ipocrisia delle sue posizioni “alternative”), quanto abbracciata con tutte le sue contraddizioni. Ecco perché, allora, il “caos controllato” che emana da ogni inquadratura non ci respinge come “caos fittizio”, ma ci seduce perché è fatto della stessa pasta, ambigua e subdola, del personaggio di Joachim.

LUNG BOONMEE RALUEK CHAT

di Apichatpong Weerasethakul

Tailandia 2010, 113'

 

Palma d'Oro 2010

30/Lode

L’incanto lo si coglie subito, bastano una, due inquadrature. Per il resto del film, non potendo attaccarsi alla trama (che c’è, ma anche quella si coglie subito, e si spacca frammentandosi in divagazioni, intuizioni, reincarnazioni, apparizioni e quant’altro), uno si chiede di che cosa sia fatto questo incanto che Apichatpong Weerasethakul da qualche anno a questa parte riesce misteriosamente a ricreare attraverso la pellicola. Tanto, e anche questo lo si capisce subito, il giocattolo non perde il suo irresistibile fascino nemmeno se lo si smonta.
In fondo, il regista tailandese fa la stessa cosa con il suo cinema: questo suo ultimo capolavoro è l’enunciazione più chiara, quasi didascalica, di ciò che il suo cinema è sempre stato – ma l’incanto non smette per questo di pulsare. Ogni inquadratura, col suo strano modo di fissare lungamente delle ampie porzioni di spazio (spesso foreste) di spiccata impressione geometrica, si attesta su un profilo di equilibrio graficamente perfetto, da cui “qualcosa” è sprigionato. Inutile chiedersi se questo “qualcosa” è nelle cose o nello sguardo che si posa su di esso: è il succo di tutte le metafore impiegate nel film, dal fotografo che, inseguendo lo scimmione con gli occhi rossi, diventa a propria volta uno scimmione dagli occhi rossi, alla principessa che anziché farsi penetrare dall’amato si fa penetrare dal pesce parlante che le fa vedere l’immagine di lei da giovane quando si specchia nell’acqua. Non è né di qua né di là: è spirito che si divide dallo spirito, e insieme l’irresistibile, terribile godimento di questa divisione senza fine. Il corpo non c’è, è solo un’illusione prospettica di questo sfogliarsi “dell”’immobilità “nell”’immobilità. È questo “sfogliarsi” che fa coesistere gli esseri viventi e i fantasmi. Ed è entrando in contatto con questo “sfogliarsi” , ovvero vedendo direttamente le vite passate di uomini, animali e piante, che lo zio Boonmee (titolare di una fattoria dove lavorano fra gli altri dei clandestini degli altri stati del sud est asiatico) può serenamente lasciarsi morire – ovvero abbandonare il proprio corpo. Un corpo che non c’è mai stato, perché (come il montaggio sa suggerire in maniera straordinaria) un velo squarciato lascia intravedere sempre e solo un altro velo. Non c’è un corpo, ma solo gli “incidenti” di un’ineffabile, sublime staticità. La vita è la polaroid degli squilibri del karma: squilibri che sono impossibili da redimere in una stabilità definitiva (è il nucleo politico del film), perché i nostri rapporti con gli altri esseri sono sempre “dispari” (come ancora Boonmee e i suoi operai, per non parlare delle immagini finali degli scontri in piazza visti alla televisione) – ma nondimeno proprio la condanna infernale a questo perpetuo squilibrio è anche la condanna al paradossale paradiso della separazione, del distacco, dell’alienazione contemplativa.

RIZHAO CHONGQING

di Wang Xiaoshuai

Cina 2010, 110'

 

In Concorso

24/30

Dopo anni passati a lavorare su una nave, un uomo torna sulla terraferma, e scopre che il figlio è morto. Gli ha sparato un poliziotto, in un supermercato, dove con un coltello ha provato prima a suicidarsi, e poi a tenere una ragazza in ostaggio dopo averne ferita un’altra. Ovviamente, parte della sua disperazione è dovuta all’assenza del padre – il quale, tuttavia, è deciso a farsi largo per scoprire la verità sull’incidente in ogni minimo dettaglio. Meno per vendetta che per riappropriarsi di un pezzo di vita che gli appartiene e che niente potrà più restituirgli.

È molto tempo che Wang ha perso la vena che poteva inizialmente far pensare a una carriera interessante. Rizhao Chongqing ne è la triste conferma. L’investigazione del protagonista è di una banalità sconcertante; le sue varie tappe si succedono in una progressione sfacciatamente prevedibile, scandita dal susseguirsi di tutta una serie di colloqui in inesorabile ordine progressivo di rilevanza drammatica (dal passante all’avventore ferito fino ad arrivare all’ex fidanzata del figlio e al poliziotto che l’ha ucciso). Questo per dare un’idea della legnosità della meccanica narrativa, la quale per giunta distribuisce le parentesi di lirismo melodrammatico esattamente là dove ce le si aspetta, cioè là dove l’indagine ha bisogno di una pausa salutare. E a nulla, o a poco, serve una macchina da presa che si fa capace di passare indifferentemente e con fluidità dall’aderenza fisica al protagonista a una ricognizione “documentaria” sugli scenari metropolitani che ospitano le vicende. Tantomeno giovano gli inutili echi antonioniani: ben prima che una gita al mare si concluda con uno della comitiva che scompare nel nulla (L’avventura), il padre inconsolabile tenta più volte di fare ingrandire un fotogramma del video della telecamera a circuito chiuso del supermercato in cui si è svolto il fattaccio, nella vana speranza di poterne ricavare il volto del figlio perduto…

Insomma, un film che non ha mai molto ritegno a scegliere sempre la scorciatoia più facile - non da ultimo nel grossolano mélange di racconti in terza persona, video della telecamera a circuito chiuso e visualizzazione diretta (seppiata, naturalmente) a mo’ di flashback, cui si ricorre ogni volta che un dialogo con un testimone ricostruisce pedissequamente l’omicidio.

DES HOMMES ET DES DIEUX

di Xavier Beauvois

Francia 2010, 120'

 

Grand Prix 2010

17/30

Una piccola comunità di monaci cristiani vive nelle montagne algerine, aiutando la popolazione locale (non ultimo con un sostegno di tipo medico) negli anni Novanta. Ovvero, quando la nazione (sempre che ai francesi piaccia chiamarla così) vive la stretta dell’integralismo islamico. A un certo punto, arrivano gli integralisti, e tagliano teste a destra e a manca. Eppure, quando arrivano al convento, gli integralisti sanguinari vengono gentilmente rispediti da dove erano venuti con argomenti fermi e garbati del tipo “stiamo pregando, se non vi dispiace” oppure “non possiamo darvi le medicine perché non le abbiamo”.
I maligni sappiano che non c’è traccia della soluzione più verosimile, e cioè che se ne siano andati perché i preti gli hanno sganciato soldi, così come altri per esempio oggi fanno in Afghanistan. Ma il problema non è la verosimiglianza. Il problema è che qualsiasi scelta compiuta da questo film gronda ipocrisia ed ignavia da ogni piega. I terroristi si vedono all’inizio (quando se ne vanno nel modo accennato) e alla fine, ovvero dopo che tutto il film nel frattempo non è stato altro che un interrogarsi etico da parte dei preti sull’opportunità di andarsene o di restare lì, ovvero quando tornano per ammazzare tutti non prima di uno stucchevole pistolotto in voce over sul perché siano rimasti lì, e non prima di un’ancor più stucchevole impennata lirica coi monaci che piangono insieme ascoltando la morte del cigno di Tchaikovsky. Peraltro non l’unica occasione di pathos posticcio buttato là per camuffare l’inconsistenza del tutto.
La sceneggiatura è il resoconto ragionieristico di una tesi (si resta perché è giusto, costi quel che costi, la nostra vita è sacrificio). E già questo è male. Ancora peggio il fatto che sia impostata in modo da evitare totalmente i conflitti (gli integralisti sono di fatto assenti, e compaiono solo quando fa comodo alla tesi da esporre), e da sostituirli da un conflitto (restare o non restare – uno di quei conflitti che si sanno già dall’inizio come verranno risolti) totalmente funzionale alla mera esposizione di una tesi preconcetta. Che è sempre e solo quella: bisogna restare, perché il bene va portato avanti anche a costo del sacrificio.
Naturalmente non c’è nulla di male nella tesi in sé: il problema è il fatto che viene presentata come un assunto a priori a prescindere dalle circostanze, che vengono praticamente ignorate. A nulla vale la solita favoletta ipocrita di “quant’è bello il Corano originale senza le distorsioni del fanatismo”, pietosamente portata avanti dal film: Des hommes et des dieux è un film fanatico e razzista perché al di sopra di tutto mette il lusso (che solo l’Occidente può permettersi) di poter agire esclusivamente secondo ciò che prescrive la coscienza. Solo gli ingenui non riescono a vedere in questo una presupposizione di superiorità.

poetry

di Lee Chang-Dong

Corea del Sud 2010, 139'

 

Miglior Sceneggiatura 2010

28/30

Mija, anziana, vive in provincia da sola con il nipote (la madre lavora a Pusan). Fin dai primi istanti ci viene presentata come un po’ svampita, sulle nuvole, amante dei corsi di poesia e dei vestiti a fiori. Poetry comincia proprio così: con un vestito a fiori di dubbio gusto, che ricopre un corpo galleggiante (il suo), privo di vita. È un bambino a ritrovarlo, ed è un ritrovamento quieto, pacato, privo di traumi come tutto il film. Il quale si snoda quasi distrattamente tra ciò che precedette il fattaccio: i corsi di poesia, le faccende sbrigate a casa di un anziano facoltoso, e qualcosa di ben più grave - ovvero il suicidio di una ragazzina a causa degli stupri sistematici da parte di un gruppetto di coetanei, tra i quali suo nipote, e i tentativi dei genitori dei ragazzini di questa cricca di sistemare la cosa con meno conseguenze giudiziarie possibili. Proprio il flashback del suicidio della ragazzina (il cui cadavere viene visto da Mija poco dopo i titoli di testa) chiude il film, chiarendo finalmente dove esso volesse andare a parare: lei e Mija si sono suicidate nello stesso punto, sigillando una specie di transfert tra l’anziana e la giovane, accomunate da una medesima impotenza a far fronte agli eventi. Perché Mija l’ispirazione a poetare proprio non la trova, e ancor meno si dimostra efficiente nel tentare di salvare la vita del nipote. La sceneggiatura (che ha ottenuto la Palma d’Oro) dimostra una diabolica abilità nel far finta che questi piani evidentemente disparati (le faccende dall’anziano, la copertura del nipote, la poesia) possano convergere e risolversi a vicenda.
E invece niente. E invece non si sistema niente. L’unica poesia che Mija riuscirà a comporre riguarderà proprio questa incompiutezza: è un addio al mondo, a come sarebbe stato bello il mondo se solo Mija fosse riuscita a stabilire una qualche forma di contatto attivo con esso anziché rimanere irrimediabilmente sconnessa.
Ecco, è proprio questa sconnessione che riesce a far vedere Lee. Nulla di lacerante o di dissonante: al contrario, Lee esibisce una pacatezza e un “riposo” pressoché classici, ma trascura totalmente le esigenze di incanalare l’azione in modo da arruffianarsi lo spettatore. Piuttosto, egli ha la saggezza di organizzare la sua messa in scena in modo che il personaggio sia una sorta di centro grafico dell’inquadratura da scrutare da una certa distanza. Imperniandosi così tanto sul personaggio quanto sulla distanza rispetto ad esso, ne abbiamo un curioso effetto di passività (già presente in Secret Sunshine, il film precedente di Lee Chang-Dong), di distanziamento rispetto all’azione, la quale così può venirci esposta con mirabile fluidità ma anche con uno strisciante, stranissimo, ovattato senso di estraneità. Lee si prende il tempo di raccontarci le vicende nel minimo dettaglio, ma il loro coagularsi in una “storia” di impeccabile coerenza non assomiglia al compiacimento dell’esibire incorniciato sul muro un puzzle di tremila pezzi che ritrae un bouquet di fiori. Piuttosto, la compassata e analitica lentezza della regia di Lee, col suo soffermarsi su un personaggio che “fa” senza mai davvero “agire” (cioè trasformare uno stato di cose) suggerisce una strana contemplazione di ognuno dei tremila tasselli come fosse un fiore che trova in sé, e nella propria limitatezza, la propria bellezza.

UN HOMME QUI CRIE

di Mahamat-Saleh Haroun

 Francia/Belgio/Ciad 2010, 92'

 

Premio della Giuria 2010

28/30

Quattro anni fa, portando a Venezia Daratt, Mahamat-Saleh Haroun si era segnalato tra i migliori di quella competizione. Si trattava di una storia semplice (un giovane uomo va lontano a vendicare il padre) ma che riuscivamo a capire davvero soltanto alla fine, a giochi fatti. Prima, restavamo in balia di una sorta di sospensione; anche dal punto di vista registico, ci si concentrava sul dato immediato della situazione (i suoi personaggi, i suoi luoghi) senza che davvero nulla di tutto questo trovasse qualcosa come uno “sviluppo”. E il pathos ne guadagnava grandemente.
Con questo nuovo Un homme qui crie, Haroun ripropone in buona parte questo schema. Dal punto di vista narrativo, abbiamo quasi un rovesciamento dell’asse padre-figlio del film precedente. Protagonista è Adam, ex campione di nuoto sessantenne ora impiegato in un hotel nel Ciad. Con l’arrivo della nuova direzione cinese, deve lasciare il posto al figlio Abdel, e la prende malissimo: la piscina era tutto per lui, la sua vita stessa. Nel frattempo, dalla radio arrivano notizie della guerra civile che sta devastando la nazione tutt’intorno. Il capo del quartiere intima ad Adam di versare l’obolo per rafforzare la repressione dei ribelli. Ma Adam, un po’ perchè non ha i soldi e un po’ per debolezza e desiderio (inconfessabile e inconfessato) di riprendere la vecchia vita, gli cede il figlio, che dunque viene forzato ad andare al fronte. In seguito se ne pente, tenta di rimediare, ma è troppo tardi.
La risoluzione sarà dunque propriamente tragica: le azioni dei personaggi hanno conseguenze la cui fatalità negativa oltrepassa loro e le loro intenzioni. Nel finale, in due splendide scene in riva al fiume, si assiste dunque al “rilascio” del pathos trattenuto lungo tutto il film. Perché prima di quel momento, la regia si concentra soprattutto su Adam. Non nel senso che “sviluppa un personaggio”, ma nel senso che lo mostra semplicemente “consistere”, camminare, fissare il vuoto. Lo mostra insomma nella propria impotenza, in preda alla contraddizione che lo attanaglia e che lo trova incapace di fare scelte adeguate. Ci si limita in effetti a seguirlo mentre “macera” nella propria impasse. Haroun gira aderendo a un ideale di asciuttissima essenzialità. Trattiene solo i dati essenziali dell’azione, fino a renderla scheletrica e quasi inumana, in modo da rendere l’impressione che l’azione non sia vissuta e agita dai personaggi, ma che “fluttui” sempre da qualche altra parte, a prescindere da essi. In effetti, questo è letteralmente il caso della Guerra civile, che sentiamo solo alla radio, e che percepiamo inevitabilmente solo in lontananza.
Ma poi la guerra arriva. E Adam paga fino in fondo la sua presunzione di poterne stare fuori. Come dice la citazione sul cartello finale, “non possiamo illuderci di essere spettatori, perché una cosa è un uomo che grida, un'altra cosa un orso che balla”. Il che ci dice anche che non possiamo relegare quella guerra a quel luogo. Perché l’illuderci vanamente di poter stare in un’oasi, in una “piscina” di lusso al riparo dai conflitti, ci colpisce tutti.

O ESTRANHO CASO DE ANGELICA

di Manoel de Oliveira

Portogallo 2010, 94'

 

Un Certain Regard

30/Lode

Angelica non è un film di de Oliveira come tutti gli altri. È un progetto risalente addirittura agli anni Cinquanta, di cui il lusitano autorizzò ormai svariati anni fa in Francia la pubblicazione di una sorta di sceneggiatura. E l’ha autorizzata perché, all’epoca, ormai il progetto era morto e sepolto.

Il progetto di Angelica, però, è risorto. E non poteva essere altrimenti, perché Angelica parla non solo della resurrezione, ma soprattutto del cinema come resurrezione. Isaac è un fotografo chiamato al capezzale di una giovane sposa appena morta. Quando guarda nell’obbiettivo, Angelica rivive, e gli sorride. Quando stampa le foto, Isaac vede che in esse Angelica non se ne sta immobile con gli occhi chiusi, ma li apre e gli sorride. Isaac scopre allora il cinema: fotografia in movimento.

Il cinema è anche trovare la bellezza nei soggetti più triviali e ordinari del mondo di tutti i giorni; negli anni Venti alcuni visionari chiamavano tutto ciò “fotogenia”, il che è anche il nome del negozio di un fotografo che compare nella primissima inquadratura del film. Per questo, Isaac appena scoperto il cinema va sul balcone, prende il binocolo e vede dei normalissimi contadini sulla riva opposta del fiume Douro che zappano la terra: non c’è pezza, deve correre a fotografarli. E corre a fotografarli.

Perché col cinema, non è più questione di soggetti più o meno degni di essere arte. È questione della dialettica barocca radicalizzata all’estremo: la stasi e il movimento. Ogni inquadratura di Manoel de Oliveira è questo: da una parte congela il visibile nello splendore della sua perfezione pittorica. Dall’altro, è proprio da questa fissità che schizza via imprevedibile il movimento. Il cinema di de Oliveira è ossessionato da questa diade (di nuovo: barocca). E Isaac è talmente ossessionato dal movimento sprigionato miracolosamente dall’immobilità mortuaria (il cinema, appunto), che sogna Angelica tutte le notti, sogna di volare con il suo spirito sopra al Douro, nella direzione opposta rispetto al fiume. Perché lo scorrere del tempo, e il suo arresto, sono inestricabilmente legati. Il movimento si dibatte dalla staticità, la vita dalla morte, come un uccellino nella gabbia: anche questo è sognato da Isaac - ma è un sogno ben reale, perché c’è un uccellino in gabbia nella stanza a fianco. Come è un sogno ben reale Angelica, che appare dietro alle spalle di Isaac quando guarda la sua foto, e scompare quando lui si volta.

No, Angelica non è un film di de Oliveira come gli altri: forse in nessun film come in questo de Oliveira è riuscito a focalizzarsi sull’unica cosa che gli interessa (il nodo stasi-movimento) liberandosi completamente dell’intreccio, liquidato nella resurrezione iniziale dopo dieci minuti, dopo i quali praticamente non succede nulla. Nulla che non sia la vana rincorsa di Isaac ad Angelica. O quella della materia verso lo spirito. Eppure, proprio questa rincorsa impossibile è l’unica risposta che possiamo dare all’attuale crisi economica (!), come dice il lungo dialogo centrale proprio a questo proposito: dobbiamo prepararci allo scontro tra la materia e l’antimateria – uno scontro di cui non solo non possiamo prevedere gli esiti, ma che non ha mai cessato di avvenire, e per questo non genererà affatto una catastrofe tonitruante. L’Apocalisse non ci si presenterà coi quattro biblici cavalieri, ci si dice nel film con enigmatica saggezza, ma con quattro zanzare.

I WISH I KNEW

di Jia Zhang-Ke

 Cina/Olanda 2010, 138'

 

Un Certain Regard

26/30

Forse il vero capolavoro di Jia Zhang-Ke nel documentario lo vedremo solo tra una decina d’anni. Questo suo nuovo film, insieme al precedente 24 City, assomigliano più a degli schizzi, a dei tentativi. Belli, riusciti, ma da cui si ha l’impressione che in realtà manchi qualcosa rispetto alle intenzioni. Qualcosa che magari arriverà col tempo, chissà.

Shanghai. Una metropoli tanto estesa che si protende nello spazio e nel tempo ben oltre i suoi confini. Jia intervista diciotto persone che, ognuna a proprio modo, hanno vissuto più o meno personalmente uno dei molti periodi incandescenti della Storia della città (la rivoluzione, la guerra civile coi nazionalisti e quant’altro). La loro ottica è dunque il più delle volte privata, individuale. In mezzo a queste interviste, lunghi indugi sulla superficie visibile della città, morbide carrellate sui suoi luoghi caratteristici e non. Una megalopoli definitiva, perché raccoglie indistintamente le singolarità umane e geografiche più disparate: questo sembra mostrarci il ritratto che Jia fa di Shanghai. Per questo, Shanghai non finisce a Shanghai, ma si protende a Taiwan, a Hong Kong, ovunque. È un luogo mentale, tanto più mentale quanto colto nella sua più immediata fisicità. Tanto mentale che finisce per protendersi anche nel cinema: probabilmente, la cosa più interessante di questo documentario è che viene intramezzato da spezzoni di film in cui, a vario titolo, entra Shanghai (c’è anche il Chung Kuo di Antonioni). Shanghai non è Shanghai: è una nervatura infinita di tempi e di spazi diversi, di persone e di eventi, di luoghi e di storie, di realtà e di finzione. In questo senso, il lavoro di Jia è, nonostante l’impressione incancellabile di incompiutezza che si prova guardandolo, un ottimo esempio di decostruzione di un luogo, il quale viene di fatto trasformato in stratificazione infinita. Un’eterogeneità sfrenata dei materiali impiegati, che è letteralmente utopia: non più un luogo, ma un’ipotesi spaziale di “democrazia assoluta”, illimitata.

Outrage

di Takeshi Kitano

Giappone 2010, 109'

 

In Concorso

26/30

Quale oltraggio resta a Takeshi Kitano? Probabilmente uno solo: l’anonimato. Obiettivo non facile, dato che (almeno) i suoi primi film hanno tutti dimostrarsi come il fatto di cancellarsi (quando non addirittura autodistruggersi) produce in realtà una messa in evidenza prorompente. Per non parlare di “suicidi d’autore” come Takeshis’ (2005) che alla prova dei fatti non possono non essere sempre più sfolgoranti e andare inesorabilmente a tutto favore del “suicida”. Restava dunque una sola frontiera: fare un film anonimo. Un film come tutti gli altri. Un film di yakuza “puro”, abbastanza conforme al genere, senza grosse invenzioni. In questo senso, Outrage è il Bad Lieutenant (herzoghiano) di Kitano.

Il film comincia con una lunga carrellata laterale che mostra coloro che saranno i personaggi di un ordinarissimo scontro tra clan malavitosi manipolati dal grande capo (la cui testa cadrà ovviamente a propria volta). Tra questi personaggi, Kitano. Ma, appunto, una carrellata del genere ha il proposito lampante di uniformare inesorabilmente tutti coloro che vi prendono parte: ecco che Beat Takeshi si trova di colpo sullo stesso piano di chiunque altro.

E il resto del film lo confermerà: Kitano gioca a fare il regista come gli altri. La violenza è come al solito abbondantemente presente, ma non è più una frattura che risucchia tutto il resto in un buco nero senza fondo: è niente più di un ingrediente. Il sangue smette di scorrere esattamente quando ne è stato versato a sufficienza per oliare i meccanismi del genere e il resoconto puntiglioso delle dinamiche che si producono tra i clan. L’uso “alleggerente” dell’umorismo ha esattamente la stessa funzione.

A due terzi (come si conviene) Otomo, il personaggio interpretato da Kitano, è spacciato. Mentre il resto della sua gang viene sterminato, viene da pensare che se la caverà in qualche modo, oppure che subirà una distruzione tragica e fragorosa. E invece, non accade né l’una né l’altra cosa. Otomo è esattamente come tutti gli altri, un insetto schiacciato da un meccanismo inevitabilmente più grande e potente. Si costituisce, si consegna alla legge in una scena che senza possibilità di errore rappresenta anche la “resa” di Kitano all’anonimato, alla “norma” cinematografica. E infatti a questo stesso gesto viene negata qualunque grandezza: Otomo muore furtivamente di lì a poco, accoltellato in galera, durante una brevissima scena di raccordo che appena si nota, appena prima della fine del film, che consiste in nulla più che la conferma che il gioco al massacro di tutti contro tutti si trascina stancamente come al solito.

Insomma: Outrage è un curioso esercizio di medietà, compiuto beffardamente da una delle “maschere” meno medie del mondo. Basta questo a renderlo un grande film? Probabilmente no. Ma chi grida al passo falso (all’”oltraggio” verso le aspettative critiche) cade in pieno nella trappola di quest’operazione kitaniana. Che bisogna accogliere per quello che è, guardando il film per quello che è. Un film medio, che non chiede che un giudizio medio.

HAHAHA

di Hong Sang-Soo

Corea del Sud 2010, 116'

 

Un Certain Regard

30/30

Due amici si trovano a bere insieme, e parlano del loro soggiorno su un’isola coreana. Non li vediamo mai parlare, ne sentiamo solamente le voci, accompagnate da alcune fotografie in bianco e nero in fotogramma fisso di quel loro incontro. Naturalmente, ciò che vediamo sullo schermo a parte queste fotografie è la visualizzazione dei loro racconti. E la cosa interessante è che, anche se non se ne rendono conto, stanno parlando delle stesse cose: gli stessi luoghi (il ristorante della madre di uno dei due), le stesse persone (un poeta sfigato amico di uno dei due, e a cui l’altro soffierà la ragazza), eccetera.
Non è un caso, insomma, se nei dialoghi ricorrono assai frequentemente riferimenti al fatto che vedere qualcosa senza conoscerla è diverso da vederla sapendo che cos’è. In un certo senso, tutto, ma davvero tutto, sta in questa differenza. Lo spettatore vede e sa ciò che il personaggio racconta e che ha visto senza sapere (che gli stessi luoghi e personaggi sono quelli raccontati dall’altro). È in questo sottile crinale che si muove la pulitissima regia di Hong, i suoi zoom e i suoi movimenti di macchina, tesi tutti a una ricostruzione delle linee dello spazio così nitida che sembra di stare su un biliardo, e a una trasparenza così cristallina che si spacca in due, franta indecidibilmente tra ciò che indica (“ecco, voi state vedendo questo”) e ciò che mostra nella sua verginità di cosa “muta” senza ulteriori indicazioni.
Perché in quella piccola e decisiva crepa tra ciò che si vede e ciò che si sa, c’è una cosa molto importante: la potenzialità di una situazione. Il modo in cui una situazione può essere reinventata. Interrogando un eroico ammiraglio del passato apparsogli in sogno, uno dei personaggi gli chiede come deve comportarsi rispetto al dilemma tra vedere sapendo e vedere senza sapere. E lui gli dice: quando guardi una cosa, soffermati su ciò che è bello.
Questo è quello che fanno i personaggi: nei loro racconti, scelgono di concentrarsi sulle cose belle. E le loro storie, per una volta (nella filmografia di Hong, ampiamente attraversata dalle più disparate variazioni sul tema dell’invalicabilità della differenza sessuale) finiscono bene: i personaggi prendono coraggio, superano le loro debolezze e risollevano le sorti di una storia d’amore che pareva doversi volgere al peggio. I toni si rasserenano e si addolciscono in commedia.
Insomma: questo film, come il precedente (Like You Knew It All) sembra segnare una nuova fase nella (splendida) carriera di Hong: i suoi film sembrano farsi più solari, divertenti, pur complicando sempre più sfrenatamente il meticoloso sistema di rime e simmetrie strutturali che innervano il film. Chiusa la sua fase più vicina ai rohmeriani Racconti morali, Hong sembra ormai volerci dare i suoi Racconti delle quattro stagioni.

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63.mo festival di cannes
Cannes, 12 / 23 maggio 2010