ER SHI SI CHENG JI

di JIA Zhangke

in concorso

 

 

27/30

 

Dopo la vittoria a Venezia, il concorso a Cannes. Jia ZhangKe, anche se pochi lo ricordano, c’era già arrivato, nel 2002, con l’ottimo Ren xiao yao. Stavolta, un documentario: la dismissione della Fabbrica 420, un gigantesco complesso industriale che per la città che l’ospitava, Chengdu, era praticamente tutto. Il fulcro stesso di qualunque piega della vita sociale cittadina. E ora, viene poco a poco distrutto e sostituito da un complesso residenziale di lusso. Seguendo una schema fisso di presentazione-intervista-congedo Jia passa in rassegna svariate testimonianze degli ex abitanti-lavoratori, seguendo via via la distruzione della fabbrica.
Troppo acuto per credere nella documentarietà del documentario, Jia (come già nel precedente Useless) infiltra qua e là la finzione nella sua materia. Mette un’attrice vera, Joan Chen, a interpretare un’ex operaia di nome Gu che assomigliando a Joan Chen (attrice di successo già nel 1978) veniva soprannominata Joan Chen. Conclude il suo reportage con un personaggio inventato, una giovane commerciante che spera di poter riacquistare per i genitori, ex operai della Fabbrica 420, un appartamento dentro il nuovo complesso residenziale dove prima stava la fabbrica. Tentativo lodevole, quello di Jia, di demolire la pretesa di verità che è del documentario, come già in Useless - ma probabilmente Jia quanto a questo è ancora in una fase di transizione. Se nella fiction con Still life Jia ha trovato una misura straordinaria di indagine poetica su un presente inafferrabile, nel documentario ci deve ancora arrivare. Fa ottimi tentativi, ma sempre tentativi. Ammirevole la costruzione, il sistema di rime che si dispiega nel tempo, che per fortuna conta meno della disgregazione che come al solito Jia riesce a cogliere e restituire coi movimenti lenti della sua cinepresa. Non la documentazione di una realtà concreta, ma il resoconto di un movimento di disgregazione (sociale innanzitutto, da cui la voluta dispersività delle interviste) colto in tutta la sua spettrale astrattezza, mano a mano che la fabbrica si trasforma in maceria.

 

Dernier maquis

di Rabah AMEUR-ZAÏMECHE

Quinzaine des Realisateurs

 

 

29/30

 

Più efficace ancora in questo stesso proposito è Rabah Ameur-Zaimeche, autore dello struggente Bled number one due anni fa sugli algerini che dalla Francia ritornano in patria, e ora con Dernier maquis. Una fabbrica francese di pallet (rossi) e i suoi operai, quasi tutti extracomunitari. Il capo (Mao) costruisce una moschea per sedare eventuali intemperanze dal basso che, puntualmente, arrivano lo stesso, spronate dai pochi soldi, dai licenziamenti, dall’eterodossia religiosa e quant’altro. Detta così, sembra cinema civile della più risaputa delle specie. E invece, Dernier maquis smonta e spoglia la fabbrica di tutto, la descrive con un pugno di vignette lente e avulse le une dalle altre, indugia in digressioni tangenziali (una lontra irrompe in officina e blocca tutto), affastella momenti vuoti, singoli anelli della catena produttiva senza mai la catena intera, sigarette coi colleghi. Il suo sguardo “paradocumentario” non va da nessuna parte e fa bene, perché così facendo dissolve alla base la pretesa che la struttura (cioè il lavoro e la produzione) possano davvero essere compresi da una sovrastruttura: che è poi esattamente quanto prova a fare Mao (guardacaso interpretato dal regista stesso) con la sua moschea “oppio dei popoli”. Se il film non è didascalico nonostante premesse del genere è proprio per la vena rarefatta, muta e sorda si direbbe, con cui Ameur-Zaimeche registra attonito un nodo impossibile da sciogliere, cioè irrimediabilmente quello dell’economia. Il suo sguardo insomma sembra ad ogni momento “trasudare” i suoi limiti, il che è tra le cose migliori che potesse fare questo strano oggetto filmico.

 

boogie

di Radu MUNTEAN

Quinzaine des Realisateurs

 

 

27/30

 

Più tradizionalmente “realista” è Boogie di Radu Muntean, cronaca minuziosa di una villeggiatura in una costa rumena, di una giovane coppia con bambino e di due amici di lui (uno emigrato in Svezia) ancora piuttosto immaturi o,più propriamente, sfigati. Grande spirito di osservazione, grandissimo senso della verosimiglianza (per quel poco che conta) e della notazione psicologica, grande abilità nell’usare la macchina da presa. Inquadrature spesso lunghissime, dialogo che si dipana con naturalezza, macchina quasi sempre fissa e concentrata pervicacemente sul suo microcosmo di riferimento. Anche se, a ben guardare, la composizione dell’inquadratura e i pochi movimenti di macchina (spesso mezze panoramiche) denotano una marca ben specifica che si fa strada in tutta questa apparente oggettività, e questo punto di vista è quello del giovane marito. Che è protagonista indiscusso di questa ordinaria ma fresca parabola di nostalgia per la giovinezza declinante e ritorno giudizioso al focolare, con cui il cinema rumeno, avvezzo a confrontarsi col recente passato, prova a fare il punto su un presente in cui (almeno per chi può) pare profilarsi la possibilità di imborghesirsi. Senza smarcarsi troppo da un sospetto di prevedibilità, ma con una capacità invidiabile di indovinare situazioni tipiche e lasciarle parlare dandole loro tutto il tempo e le sfumature di cui hanno bisogno.

 

serbis

di Brillante MENDOZA

in concorso

 

 

28/30

 

Più propriamente “post-balzachiano” è Serbis di Brillante Mendoza, molto più capace di fare interagire i corpi e gli spazi laddove il rumeno rischia di apparire atrofizzato sui primi. Prolificissimo e a costo ridotto, Mendoza firma una caotica tranche de vie in un cinema porno filippino, con le varie vicende di quotidiana melodrammaticità della famiglia di gestori. Un racconto corale? “Corale” sì, dato che spuntano sempre personaggi da ogni dove, racconto forse meno, dato che le vicende sono triturate e risputate da una messa in scena che, macchina in spalla, si va a prendere le cose là dove accadono, segue personaggi che scorazzano e che compiono ora gesti di tutti i giorni ora eventi straordinari (tipo furti), frullati insieme in uno stesso maelstrom che non sta mai fermo e perennemente immerso nell’assordante rumore che proviene dalla strada. Un magma talmente incontrollabile che la pellicola prima dei titoli di coda prende letteralmente fuoco, con un buco rossastro che dal centro si estende a tutto il quadro, spesso già “bollente” di suo quanto a scene di sesso. L’incredibile energia narrativa di Mendoza sta nella varietà della sua materia, nella sua capacità di disarticolare e frullare insieme gli eventi più importanti (un processo che divide i famigliari) e le minuzie quotidiane (i pasti, il taglio delle unghie). Un vortice imprevedibile dove da un momento all’altro può fermarsi tutto per l’irruzione in sala di una capra (!), dove il vero protagonista, più ancora di qualunque elemento narrativo, è il luogo, lo spazietto dove tutto il film è chiuso, il generico compatto brulicare di una materia in piena metastasi, ovviamente sottolineata e esasperata dalla vividezza del porno che viene proiettato in quella sala. È quello, più ancora di qualunque personaggio, il punto di vista incarnato dalla fremente e mobilissima macchina a mano.

di Marco GROSOLI