EL CANT DELS OCELS

di Albert Serra

Quinzaine des realisateurs

 

 

29/30

 

I magi che vanno a trovare Gesù. Punto e basta. Solo che i magi in questione sono un ciccione e due vecchi che bofonchiano cose senza senso, si aggirano impacciati nel deserto, tornano indietro, si battibeccano. E la mangiatoia è naturalmente quanto di più impoetico si possa immaginare, roba che il vangelo pasoliniano al confronto era Peter Greenaway. Tutt’intorno, paesaggi desertici e radi, di abbagliante splendore figurativo (in bianco e nero).
Insomma: la realtà, per quanto degradata sia o appaia, è una specie di intoccabile acquario dorato, un paradiso vicinissimo che i Magi non possono toccare, e proprio per questo vanno a cercarsi la più intrinsecamente transitoria delle rivelazioni: la natività. L’eternità che miracolosamente si manifesta, solo che si manifesta come mortalità. Qualcosa che appare innanzitutto come una sparizione - apparizione di una “non-apparenza”.
Serra l’ha capito benissimo, e lavora di apparizioni visuali tanto indimenticabili quanto impalpabili, un’aria di paradiso che spira intorno a personaggi e situazioni irrimediabilmente umanissimi, terreni, teneramente limitati e impacciati. Serra lavora a un continuo preziosismo figurativo “dipinto” addosso a scenari naturali, ma soprattutto sa passare di quadro in quadro, di folgorazione in folgorazione, portandosi dietro un senso di fragilità, di “debolezza nobile” e di arresto incantato del tempo, che non è accessorio ma è la chiave stessa di questo film così toccante. L’abbagliante bellezza pittorica di questo film funziona proprio perché è un misto a un tempo santo e perverso di solennità e fragilità. Ad eternarsi artisticamente è la fragilità stessa di quanto è umano e terreno.

 

il divo

di Paolo Sorrentino

in concorso

 

 

30/30

 

Non si può dire che i cinefili abbiano torto a disprezzare Sorrentino: effettivamente si tratta del regista più caparbiamente anti-rosselliniano degli ultimi decenni, e solo per questo ci riesce difficile biasimare chi lo condanna. Non esiste film più diverso dal genialmente scabro didatticismo rosselliniano, innamorato dei fatti duri e puri, di questo pompatissimo videoclip-installazione innamorato della mistificazione-in-quanto-tale, che cavalca gioiosamente le mille aberrazioni di uno dei personaggi-chiave del dopoguerra italiano. Nessun film più diverso dal grandissimo Anno uno rosselliniano su De Gasperi di questo biopic su un Andreotti che appena gli si nomina De Gasperi sbotta infuriato in un “lascia stare De Gasperi”.
Perché questo Andreotti ha due giganteschi scheletri dell’armadio, infinitamente più grandi di quelli che la cronaca snocciola in questo film alla velocità della luce: sono l’Etica e l’Estetica. Aldo Moro (il politico di levatura che Andreotti teme di non essere mai stato) e la pittrice interpretata da Fanny Ardant, della quale lo inquieta la totale indisponibilità ad incuriosirsi di lui, caso molto più unico che raro. “Mi pagano per interessarmi solo di me stessa”: lui invece il lusso dell’autoreferenzialità non se lo può permettere, perché il suo lavoro è rendersi invisibile e impersonale dietro la gang dei vari Sbardella-Ciarrapico-Pomicino (eccetera eccetera), impegnata ad apparire, a gaudere e a fare il lavoro sporco.
Etica e estetica sono i due fantasmi più grandi di Andreotti perché la sua onnipotente maschera pubblica li fonde insieme disintegrandoli l’uno contro l’altro. La valanga di malefatte (“Siamo tutti dei medi peccatori”, dice al suo confessore) si nasconde dietro alla deformità (la gobba) e all’ironia (le continue battute), ovvero le due direttrici principali dell’arte contemporanea, che giunta alla fine del suo percorso (ovvero perdendo con la società di massa la peculiarità di “oggetto separato” che la distingueva dall’etica) si vede costretta a estremizzare il nichilismo duchampiano nutrendosi di oggetti strutturalmente inadeguati alla propria cornice che li nobilita esteticamente (il famoso orinatoio di Duchamp, per esempio).
Che fa allora Sorrentino? Essendo l’ironia l’arma definitiva di Andreotti, si guarda bene dal dargli addosso. Non ingannino le risaputissime “denunce” (tipo i mille delitti a lui attribuiti e di cui tutti erano da sempre a conoscenza) che abbondano nel film: Il Divo è un film apertamente in simbiosi con Andreotti, perché totalmente costruito, appunto, sulla deformità e l’ironia. Muove la macchina con nessuna sensibilità cinematografica (ancora: anti-rossellinianamente), allo scopo di isolare frontalmente un oggetto immancabilmente kitsch (i telegatti sul camino…). Tutto contribuisce a questo: angolazione, composizione del quadro, linee e colori spietatamente nitidi… Lo stile di Sorrentino è una sfilata di chincaglierie kitsch, una parata di oggetti che esibiscono “urlandola” la propria inadeguatezza – in altre parole, la forma visiva dell’autoironia… lo stile di Sorrentino insomma è una sequenza additiva (1+1+1+1+1…) di pillole di autoironia, così come il personaggio-Andreotti si trincera dietro una sequenza di battute e calembour durata praticamente sessant’anni.
Perciò, è un bene che la cronaca con la sua valanga di dati scorra via velocissima: non è tanto importante sapere quello che Andreotti ha fatto, ma è importante, mettendo in primo piano la forma a discapito del contenuto, ridare il cortocircuito di etica ed estetica che di fatto è l’intera vita pubblica italiana degli ultimi decenni, in primo luogo perché l’informazione coincide definitivamente con lo spettacolo. In quest’ottica, Sorrentino arriva agli estremi dell’accoppiamento incestuoso informazione-spettacolo: la spettacolarizzazione forsennata di stragi di mafia e omicidi tipo Pecorelli è funzionale, come tutto il film, a evidenziare che il mostro che pare avere una testa sola (quella sotto la gobba) ne ha in realtà due, etica ed estetica, Aldo Moro e Fanny Ardant. Non nasconde più, come fa l’informazione-spettacolo (e Andreotti) la propria duplicità, ma ce la squaderna davanti. È la stessa duplicità che informa la tensione tra il gioco gaudente sulla contraffazione estetica kitsch e, al contrario, il gioco pedissequo sulle somiglianze (il sosia di Riina, il sosia di Ciarrapico, il sosia di Caselli…). E soprattutto, informa la tensione tra la maschera andreottiana e l’attore che gli sta sotto, un immenso Toni Servillo che ruba ad Andreotti quello che Andreotti ha più a cuore: l’impersonalità, demistificata e rivelata come esercizio di supremo virtuosismo.

di Marco GROSOLI