Si sa, Garrel fa sempre lo
stesso film. Risolutamente autobiografico, il suo cinema è un continuo
cozzare con il nucleo duro che la vita gli ha messo davanti. Una donna amata
che si autodistrugge (spesso Nico, in questo caso Jean Seberg), una donna
meno amata che gli assicura la dolce tragedia dell’imborghesimento e la
scoperta sconvolgente della paternità; sullo sfondo, tutt’altro che
innocentemente, di volta in volta il cinema e/o il ’68.
Mai come in questo film Garrel è stato così lucidamente riassuntivo. In
questo film, Garrel prende la sua vita e ne traccia una chiarissima parabola
spaccata a metà. Un fotografo si innamora della famosa attrice Carole, che
beve, finisce in manicomio e muore, in parte perché l’amore del protagonista
è troppo malfermo e troppo fermo alle apparenze (quelle peraltro magnifiche
di Laura Smet). Nella seconda metà, conosce una donna che non sta benissimo
neppure lei, ma comunque grazie al di lei padre paiono andare a vivere
insieme e fare un bambino. Se non fosse che Carole torna a presentarsi come
fantasma, prima nei sogni e poi sullo specchio della casa del protagonista,
convincendolo a seguirla nell’aldilà, come puntualmente succederà con il
suicidio finale.
Garrel insomma ripete tutti i suoi film, con la fondamentale differenza che
queste malinconiche forche caudine dell’eterno ritorno (del resto
strutturanti il film stesso, la cui seconda parte ritrova e ripete
simmetricamente la prima) sono attraversate dal figlio. Che negli altri film
era (cristologicamente) la salvezza, la speranza nell’inferno del ritorno
continuo delle stesse cose, la possibile via d’uscita per l’amore che vie
d’uscita sembra non averne. E invece, qui il figlio (Louis Garrel, figlio di
Philippe) attraversa esattamente lo stesso inferno del padre.
Morale: ciòche pare sfuggire al sistema coincide con il sistema stesso (vedi
Psycho di Hitchcock, il più
paradigmatico dei film spezzati in due). E allora? La strada si biforca:
rimanere con la mogliettina piccolo borghese sapendo che si verrà tormentati
dalle apparizioni di Carole sullo specchio, oppure dare ragione a questa e
buttarsi dalla finestra? Autodistruzione per autodistruzione, meglio la
seconda. Seguire ottusamente la via dell’eccezione. Garrel fa esattamente
questo: firma un film sincero fino ad essere impresentabile, imbarazzante.
Le apparizioni di Carole sullo specchio, che tanto hanno fatto sghignazzare
i finto-cinici giornalisti in sala, sono la testimonianza dolorosa che
“l’inconscio è là fuori” e dunque l’artista, che pretende visibilmente di
esprimere un percorso che vada dal dentro al fuori, può solamente accettare
scientemente di mettersi in ridicolo. Può solo essere quello che è già in
partenza. Perché l’inconscio è la fuori. L’inconscio non è affare di triti
psicologismi, ma di pulsazioni fotografiche e micromovimenti attoriali
inconsapevoli che Garrel è da decenni capace come nessun altro di captare
sulla pelle del reale. è la pelle del reale che ci dice che l’inconscio è la
fuori. L’artista ha la sacra funzione di mettersi in ridicolo, perché il suo
scacco è la più preziosa delle testimonianze che l’inconscio è là fuori.
Garrel si autodistrugge come il suo protagonista, perché non può che
mettersi al servizio di quello che non gli appartiene: la realtà, con la sua
magnifica ma impenetrabile apparenza. Il cinema è come Carole l’altro lato
dello specchio, una flebile apparenza che catturando la superficie del
visibile fugge e muore appena si crede di averla carpita. E allora bisogna
cedere, abbandonarsi a lei, essere fedele ad oltranza al fascino fuggevole e
rivelatore della pelle del reale. Senza paura del ridicolo, né
dell’ottusità, che non a caso fa rima con santità.
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