TYSON

di James Toback

Un certain regard

 

 

27/30

 

Non è la prima volta che il grande marginale James Toback (altro che “indipendenti” fasulli alla Redford) incontra Tyson. Fra le altre cose, lo ha fatto recitare anche in Black and white del 2000. Qui si cimenta non tanto in un documentario quanto in un vero e proprio match col controverso campione. Perché in Mike Tyson anche solo la maniera di parlare è cinema. Anzi, i suoi saliscendi tonali, il mangiarsi le parole, le costruzioni frastiche all’insegna dell’elasticità, sono più cinema di qualunque “ritratto di celebrità”. C’è già azione allo stato puro lì dentro.
Per questo, Toback imbastisce con la pellicola un match “contro” Tyson che il suo fisico unticcio e mauriziocostanzesco non potrebbe mai fargli sostenere sul ring. Lotta per conquistare una forma cinematografica a qualcosa che una forma cinematografica ce l’ha già di per sé. E allora, vai di split screen molteplici che frantumano il primo piano, vai con montaggi spericolati di frasi diverse e avulse l’una dall’altra mixate insieme sul totale di lui pensoso in riva al mare. Via libera agli indugi sui momenti di commozione imprevista, sui fieri lampi di autocontraddizione (specialmente quando Mike parla di donne), sugli instanti in cui Tyson pare incepparsi e rivelare una poco visibile fragilità. Che Toback è molto bravo a scovare e valorizzare affettuosamente.
E soprattutto,massima disinvoltura riguardo alla sistemazione dei contenuti. Ci si dilunga sul primo coach, quello che ha di fatto salvato Tyson dalla strada e che lui ha sempre adorato (ma che è morto quando Tyson non era ancora nato puglisticamente, ovvero prima del primo titolo), e si considera Don King come poco più di una pulce, una veloce battuta a liquidarlo e via. Orecchie morsicate e pretestuose accuse di stupro sono solo inevitabili incidenti di percorso di una personalità enorme ma informe, che si è fatta strada dal nulla nel mondo con smisurata insicurezza (spesso mascherata da sbruffoneria) e generosità. Ma, di nuovo, nonostante queste sparute forme di empatia, questo documentario è una lotta tutta cinematografica. Il migliore regalo che Toback poteva fare all’amico era rispettarlo. E la migliore maniera di rispettarlo, come sempre, è non rispiarmargli niente.

 

MY MAGIC

di Eric Khoo

in concorso

 

 

28/30

 

Tra le sorprese di questo ottimo concorso cannense va annoverato senza dubbio anche questo film. Oddio, proprio sorpresa non lo era, dato chi ha le antenne più sensibili verso il cinema dell’estremo oriente conosceva Eric Khoo anche prima che nel 2006 venisse invitato alla "Quinzaine des Realisateurs".
Questo My magic racconta di un padre singaporese di origine indiana, umile e umiliato dalla vita, che per far studiare il promettente figlioletto (la madre non c’è più) si prodiga in numeri di magia in localini poco affidabili. Naturalmente i soldi non bastano mai, ed egli per guadagnarne un po’ si spingerà fino a farsi massacrare a morte da tipi loschi e abbienti che frequentano il locale notturno.
Khoo riesce a trasmettere l’inusitata bruttezza, violenza ed ingiustizia del mondo con un film ai limiti estremi della dolcezza. Utilizza un linguaggio sapientemente parsimonioso, un’economia espressiva che quasi fa a meno dei dialoghi e concentra tutto in una manciata di dettagli rivelatori e azioni prosciugate alla loro più scarna essenzialità. Il racconto fila via liscio liscio, una quasi-muta concatenazione di microeventi impeccabile, ai limiti estremi del minimalismo. Ma non è un giochino facile facile e leggero: dopo la lunga carrellata di giochi di prestigio, e cioè proprio quando il protagonista comincia finalmente a starci simpatico, Khoo non si tira indietro e va fino in fondo a mostrare senza nessun filtro le terribili violenze fisiche subite dallo sfortunato padre-mago.
E subito dopo un’altra doccia fredda: padre e figlio divisi per praticamente tutto il film vanno insieme in una casa abbandonata (che fece sbocciare molti anni prima l’amore tra i genitori), e l’atmosfera ulteriormente rarefatta che vi si respira, l’intensa astrazione di quel luogo diroccato, separa i due dal mondo esterno infondendo alla situazione un’insostenibile dolcezza (che il meraviglioso, “magico” finale porterà oltre le soglie del fantastico e della commozione).
Magico esso stesso (Edgar Morin ne sarebbe entusiasta), il film è una carrellata di scintille semplicissime e toccanti che galleggiano sul nulla, un po’ come la parata di attrazioni sfoderata dal mago nel corso del suo lungo numero di magia, scrupolosamente documentato da Khoo. Il mondo, cattivo ma soprattutto vuoto, coagula qua e là la propria vacuità fino a concretizzarsi in una cosa fragile e miracolosa come un gioco di prestigio: un segno.

di Marco GROSOLI