Non è la prima volta che il
grande marginale James Toback (altro che “indipendenti” fasulli alla
Redford) incontra Tyson. Fra le altre cose, lo ha fatto recitare anche in
Black and white del 2000. Qui si cimenta non
tanto in un documentario quanto in un vero e proprio match col controverso
campione. Perché in Mike Tyson anche solo la maniera di parlare è cinema.
Anzi, i suoi saliscendi tonali, il mangiarsi le parole, le costruzioni
frastiche all’insegna dell’elasticità, sono più cinema di qualunque
“ritratto di celebrità”. C’è già azione allo stato puro lì dentro.
Per questo, Toback imbastisce con la pellicola un match “contro” Tyson che
il suo fisico unticcio e mauriziocostanzesco non potrebbe mai fargli
sostenere sul ring. Lotta per conquistare una forma cinematografica a
qualcosa che una forma cinematografica ce l’ha già di per sé. E allora, vai
di split screen molteplici che frantumano il primo piano, vai con montaggi
spericolati di frasi diverse e avulse l’una dall’altra mixate insieme sul
totale di lui pensoso in riva al mare. Via libera agli indugi sui momenti di
commozione imprevista, sui fieri lampi di autocontraddizione (specialmente
quando Mike parla di donne), sugli instanti in cui Tyson pare incepparsi e
rivelare una poco visibile fragilità. Che Toback è molto bravo a scovare e
valorizzare affettuosamente.
E soprattutto,massima disinvoltura riguardo alla sistemazione dei
contenuti. Ci si dilunga sul primo coach, quello che ha di fatto salvato
Tyson dalla strada e che lui ha sempre adorato (ma che è morto quando Tyson
non era ancora nato puglisticamente, ovvero prima del primo titolo), e si
considera Don King come poco più di una pulce, una veloce battuta a
liquidarlo e via. Orecchie morsicate e pretestuose accuse di stupro sono
solo inevitabili incidenti di percorso di una personalità enorme ma informe,
che si è fatta strada dal nulla nel mondo con smisurata insicurezza (spesso
mascherata da sbruffoneria) e generosità. Ma, di nuovo, nonostante queste
sparute forme di empatia, questo documentario è una lotta tutta
cinematografica. Il migliore regalo che Toback poteva fare all’amico era
rispettarlo. E la migliore maniera di rispettarlo, come sempre, è non
rispiarmargli niente.
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Tra le sorprese di questo ottimo concorso cannense va annoverato senza
dubbio anche questo film. Oddio, proprio sorpresa non lo era, dato chi ha le
antenne più sensibili verso il cinema dell’estremo oriente conosceva Eric
Khoo anche prima che nel 2006 venisse invitato alla "Quinzaine des
Realisateurs".
Questo My magic racconta di un padre singaporese di origine indiana,
umile e umiliato dalla vita, che per far studiare il promettente figlioletto
(la madre non c’è più) si prodiga in numeri di magia in localini poco
affidabili. Naturalmente i soldi non bastano mai, ed egli per guadagnarne un
po’ si spingerà fino a farsi massacrare a morte da tipi loschi e abbienti
che frequentano il locale notturno.
Khoo riesce a trasmettere l’inusitata bruttezza, violenza ed ingiustizia
del mondo con un film ai limiti estremi della dolcezza. Utilizza un
linguaggio sapientemente parsimonioso, un’economia espressiva che quasi fa a
meno dei dialoghi e concentra tutto in una manciata di dettagli rivelatori e
azioni prosciugate alla loro più scarna essenzialità. Il racconto fila via
liscio liscio, una quasi-muta concatenazione di microeventi impeccabile, ai
limiti estremi del minimalismo. Ma non è un giochino facile facile e
leggero: dopo la lunga carrellata di giochi di prestigio, e cioè proprio
quando il protagonista comincia finalmente a starci simpatico, Khoo non si
tira indietro e va fino in fondo a mostrare senza nessun filtro le terribili
violenze fisiche subite dallo sfortunato padre-mago.
E subito dopo un’altra doccia fredda: padre e figlio divisi per
praticamente tutto il film vanno insieme in una casa abbandonata (che fece
sbocciare molti anni prima l’amore tra i genitori), e l’atmosfera
ulteriormente rarefatta che vi si respira, l’intensa astrazione di quel
luogo diroccato, separa i due dal mondo esterno infondendo alla situazione
un’insostenibile dolcezza (che il meraviglioso, “magico” finale porterà
oltre le soglie del fantastico e della commozione).
Magico esso stesso (Edgar Morin ne sarebbe entusiasta), il film è una
carrellata di scintille semplicissime e toccanti che galleggiano sul nulla,
un po’ come la parata di attrazioni sfoderata dal mago nel corso del suo
lungo numero di magia, scrupolosamente documentato da Khoo. Il mondo,
cattivo ma soprattutto vuoto, coagula qua e là la propria vacuità fino a
concretizzarsi in una cosa fragile e miracolosa come un gioco di prestigio:
un segno.
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