IL GINOCCHIO DI ARTEMIDE

di Jean-Marie Straub

Quinzaine des realisateurs

 

 

30 e lode

 

Ancora i “Dialoghi di Leucò” di Pavese. Il ginocchio di Artemide è il primo dialogo che Straub gira senza la compagna, scomparsa nel 2006 ma presente in più di un senso nello straordinario testo recitato in questo cortometraggio. Un’ode alla donna amata che lungo l’affabulazione pavesiana “ri-affabulata” dall’eccezionale musicalità della “partitura vocale” (di questo si tratta, più che di recitazione) si intreccia inestricabilmente a un’ode alla natura (e molto altro), accomunate dal darsi solo attraverso il proprio sottrarsi (l’aletheia…), dall’essere una presenza tanto forte da non potersi che tramutare nell’impalpabilità del sogno. Un sorriso che pur incancellabile e quindi sempre presente non può ritornare davvero che in sogno… La finale ingiunzione del Dio all’innamorato a non svegliarsi è il sigillo definitivo di un cinema che si immerge anima e corpo nella concretezza (visiva e sonora) della materia fino a scoprire che la sua dimensione più autentica è proprio quella fantasmatica. Solo dopo questa ingiunzione infatti i due interlocutori lasceranno il posto a una serie di straordinarie panoramiche sulla solita radura di Buti (la monument valley straubiana): l’incontro scontro con la realtà nella sua forma più immediatamente sensibile (grazie al solito prodigioso lavoro sulla luce naturale e sul suono in presa diretta) è così radicale che incontra la destabilizzante coesistenza con l’onirico. Immagini dal sapore tanto reale che non possono non sembrare sognate. Se c’è una cosa che ha la durezza inscalfibile della realtà, è precisamente questa lacerazione iperbolica che anima i nostri sensi. E precisamente in questa lacerazione sta il linguaggio, esibito da Straub come sempre nel suo monumentale, inumano e troppo umano spessore fisico, di vocalità trasformata in musica senza essere cantata.

 

ITINERAIRE DE JEAN BRICARD

di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet

Quinzaine des realisateurs

 

 

30 e lode

 

Mentre una voce over spiega fatti e memorie dell’infanzia di Bricard (fine della seconda guerra mondiale), la macchina da presa ne inquadra in bianco e nero i relativi luoghi (in un isolotto francese), con l’usuale, maniacale perfezione straubiana per l’oggettività dell’immagine. Operazione già attuata da Straub-Huillet (Lothringen!, Troppo presto troppo tardi”): la memoria si stratifica in maniera fisica, non solo mentale. Il cortocircuito voce/visione è un cortocircuito propriamente fisico, effettivo, concreto. L’assenza testimoniata dalle parole e la presenza del “qui e ora” dei luoghi sono tutt’uno; la resistenza (quella contro il nazismo, per esempio, raccontata dalla voce di Bricard e ambientata nei luoghi che la mdp mostra) è questione di persistenza oltre agli angusti confini del visibile. Parola/visione, campo/fuoricampo, visibile/invisibile: l’immagine non sta dall’una né dall’altra parte, ma è la frattura stessa che lacera queste dicotomie.
Ancora più miracolosa di queste apparizioni/sconfessione del reale nella sua impalpabile concretezza, è la lunghissima panoramica iniziale, un lunghissimo “camera-boat” (si dirà così?) che circumnaviga l’isolotto in questione da media distanza, inquadrando sia l’isolotto che rimane sia l’acqua che scorre. Realtà in movimento, immortalata in tutta la sua monumentalità non perché eternata da qualche forma artistica, ma perché gloriosamente restituita alla propria transitorietà: il continuo movimento che fa scomparire alberi, terre e case dall’inquadratura pochissimo dopo la loro comparsa. L’insostituibile splendore del vero è tale solo se dà conto anche di questa costitutiva “negatività” che trancia qualsiasi pretesa piattamente realistica.

di Marco GROSOLI