THREE MONKEYS

di Nuri Bilge CEYLAN

in concorso

 

 

30/30

 

Un notturno incidente in auto, mortale, commesso da un politicante assonnato. Fa andare dentro il suo autista in cambio di soldi (ci sono le elezioni, come si fa?), e va pure con sua moglie, che perde la testa inspiegabilmente dietro questo uomo calvo, goffo quasi ma potentissimo. Il figlio adolescente vede tutto e trama confusamente nell’ombra.
A dispetto degli omicidi, dei quasi suicidi, dei personaggi dostoevskiani e delle azioni nobili ma catastrofiche, in THREE monkeys la tragedia è sempre dietro l’angolo, ma una volta svoltato l’angolo la tragedia non c’è più: al suo posto, la solita magnifica atmosfera sospesa di Ceylan, i suoi cieli lividi e la sua immensa bravura figurativa. Senza esagerare con la tavolozza e i cromatismi, Ceylan affina ulteriormente la sua sublime maniera, si affida a silenzi, paesaggi, dilatazioni, primi piani che arrivano all’improvviso, un montaggio che sfrutta rapacemente ogni minima increspatura della tensione. Ricuce i devastati rapporti tra i personaggi riducendo al minimo la psicologia ma sfruttando al massimo la carica patetica dell’organizzazione spaziale dell’inquadratura, che da sola (complice però il curatissimo e quasi lynchiano sound design) incorpora le emozioni trattenute, le distanze apparentemente invalicabili, i traumi rimossi.
Per quanto contemplativo e pacato sia l’andamento del film (la cui azione è ridotta al minimo), c’è una tessitura ritmica molto forte, che centellina e gradualizza sapientemente le apparizioni, gli spunti lirici, le accensioni. è in questa partitura emozionale che si spegne dolcemente qualunque velleità di tragedia – la famiglia di cui assistiamo al disfacimento, in cui tutti soccombono al senso di colpa e alle buone intenzioni con pessimi effetti, non viene schiacciata dal dramma, ma trova la forza per guardarsi in faccia in una sommessa epoché. La catarsi viene congelata in contemplazione, il melodramma è rispedito al mittente e ridotto alle parole incongrue, tutta cuori in catene e pene d’amore, di una canzoncina strappalacrime usata (dalla moglie) come suoneria di un cellulare.

 

CLOUD 9

di Andreas DRESEN

Un Certain Regard

 

 

26/30

 

Ma questo tocco delicato non è, ahimé, da tutti: Andreas Dresen per esempio toppa miseramente con il suo cloud 9, ovvero il classico triangolo lui-lei-l’altro, non fosse che tutti qui sono ultrasessantenni. Va riconosciuta a Dresen una mano non poi del tutto infelice, nell’accostarsi con delicatezza alla goffaggine del sesso nella terza età, alla sedimentazione decennale delle abitudini coniugali di una coppia di lungo corso, a un’espressività attoriale notevole, a primi (e primissimi) piani intensi girati letteralmente addosso ai personaggi, a distanza ravvicinatissima, nello spazietto gomito-a-gomito dell’intimità matrimoniale fotografato con una valanga di luce. È quasi affascinante come il desiderio non sia solo l’elemento che fa deflagrare il dramma ma si presenti in qualche modo accompagnato dalla propria negazione, tanto è “faticoso” il suo realizzarsi, anche solo in sguardi e abbracci. Questa paradossalità, in qualche modo Dresen ha il tocco abbastanza leggero ed attento per farla venir fuori. Peccato che alla fine il melodramma bussa alla porta, reclama i suoi diritti, sfonda la porta e fa morire il marito “becco” con una mossa piuttosto inutile, che rovina l’interessante aria di indeterminazione che si era andata a creare fino a quel momento, buttandola sul pathos di grana grossa (e su un moralismo mal riposto).

 

Cztery noce z Anna

di Jerzy Skolimowski

Quinzaine des Realisateurs

 

 

28/30

 

Su un altro pianeta (davvero), Jerzy Skolimowski. Dopo 17 anni, l’inafferrabile veterano polacco torna con quattro notti di Anna, un film che poteva stare solo nella "Quinzaine des Realisateurs" di Cannes, da 40 anni (compiuti proprio in questi giorni) benemerito coacervo delle ipotesi più vitali e inesplorate del cinema mondiale. Un’ora e mezza di continui movimenti di macchina a imprigionare Okrasa, quarantenne mai cresciuto di un villaggio polacco che ama spiare la bella infermiera bionda che ama e a cui non si dichiarerà mai: si limiterà a darle del sonnifero regolarmente e di nascosto per poter entrare di notte, stare con lei, guardarla, regalarle un anello. Finirà anche in carcere, accusato ingiustamente (di stupro, tra le altre cose), ma non ha importanza perché il tempo per Skolimowski e per Okrasa non esiste, frantumato in una struttura incoerente che sparpaglia flashback e flashforward con sfacciata noncuranza. Skolimowski non si preoccupa di trovare la giusta distanza rispetto a Okrasa, né troppo vicino né troppo lontano, nessun partito preso formale ma come Okrasa svagatamente assorbito in una vuota ossessività, paga di sé e sorda a tutto il resto. Oscilla dunque, come sempre, Skolimowski, dal suo eroe all’ambiente alla ragazza senza curarsi della coerenza, mimando come nessuno la forza d’inerzia, come appunto solo l’ossessione sa fare. Imprigiona Okrasa col suo garbuglio sublime e gratuito di movimenti di macchina, un garbuglio che è formidabile e palpabile fenomenologia dell’atto mancato, e lo impiglia e si impiglia e ci impiglia nell’inconsistenza a un tempo trasparente e durissima del fantasma amoroso. Di quello che è lì, proprio lì, e non si può avere, fino a far apparire la stessa semplicissima coesistenza nello spazio come un miraggio che scompare appena ci si avvicina; appena si muove la macchina da presa si viene travolti dalla gratuità intrinseca del movimento in quanto tale. Impassibile e stralunato, leggiadro e spietato, quattro notti con Anna è la cronaca minuziosa di un impossibile “amor cortese” dei nostri giorni, fatto di nulla e che percorre il nulla cibandosi di nulla.

 

tokio!

di M. GONDRY, L. CARAX, Ho BONG

Un Certain Regard

 

 

24/30

 

Anche il grande (e giovane) Bong Joon Ho (The Host) ha a che fare con l’ossessione; il suo episodio dal trittico Tokyo! dà voce a un Hikikomori, termine che designa chi (e in Giappone ce ne sono molti) decide di autorecludersi isolandosi complentamente dal resto del mondo, anche per molti anni. Il suo Hikikomori dopo undici anni uscirà si casa e si innamorerà, “salvando” dalla solitudine un’altra come lui, in una città completamente vuota in cui tutti, col tempo, hanno deciso di seguire la sua strada. Bong orchestra una polifonia visiva perfettamente funzionale alla descrizione del suo oggetto, puntigliosa e solida, usando egregiamente anche la voce over del personaggio. L’assunto è interessante (la solitudine non è solo una piaga ma anche la soluzione stessa per poterne uscire davvero), Bong è bravissimo ma lo sapevamo già; si ferma, per così dire, all’esposizione puntigliosa di quello che ha da dire. Ma almeno qualcosa da dire ce l’ha: le solite provocazioni all’acqua di rose di Leo Carax, invece, sembrano non volere dire niente e fermarsi a un urlo di disperata trasgressione, e invece dicono troppo. Si inventa un personaggio (“Merde”) che esce dalle fogne e mette a ferro e fuoco Tokyo con furore nichilista; Merde non sa parlare ma si esprime a grugniti, lo capisce solo un bizzarro avvocato francese che comunque non riuscirà a risparmiargli la forca. Dispiace, ma l’afasia è un lusso e Carax non arriva a permetterselo: tutto è risaputo, il suo sberleffo non fa né caldo né freddo e ha bisogno di troppe stampelle concettuale per estrinsecarsi. Peccato, perché Carax è molto più di quel Céline della mutua che finge di essere. L’altro episodio, quello di Gondry, potrebbe ugualmente (come tutti i suoi film) essere liquidato in una battuta o essere oggetto di una tesi di centinaia di pagine. Però questo suo ritratto di una gioventù sperduta con appendici non richieste sul jolly concettuale della Mutazione (inevitabile quando si parla di Giappone) fa tanto Zygmunt Bauman ma poco cinema. E non basta, per essere cinema, seguire “in diretta” una ragazza che istante dopo istante diventa una sedia di legno.

di Marco GROSOLI