Una delle migliori selezioni degli ultimi
anni, con il verdetto più coraggioso degli ultimi anni. Non tanto per il
rumeno Palma d'Oro, ottimo film ma pur sempre diligentemente accademico.
Piuttosto, non si cessa di rimanere increduli per il Gran Premio alla Kawase,
sacrosanto ma su cui nessuno avrebbe scommesso due lire, come l'altrettanto
meritata Palma d'Oro all'attrice di Secret Sunshine di Lee Chang-Dong.
Filmacci pseudoautoriali e pseudomidcult come quelli di Schnabel e Akin,
fatti cinicamente a misura di Festival, si sapeva da subito che sarebbero
stati premiati in qualche modo. Discorso simile anche per Reygadas, con
l'aggravante, rispetto agli altri due, che premiare un film come il suo è
davvero un equivoco imbarazzante.
Un grosso passo avanti per la direzione (finora zoppicante) di Thierry
Fremeaux, che dà un'indicazione molto precisa sul futuro del cinema (almeno
quello d'autore), ribadita dal vincitore Cristian Mungiu durante la
premiazione: Il futuro, da qui in poi, sarà dei film a basso costo. E
sarebbe ora che anche in Italia si cominciasse a capirlo.
vincitore della palma d'oro
4
months, 3 weeks and 2 days
4 luni,
3 saptamini si 2 zile
di Cristian Mungiu
Romania 2007, 113'

Altro film in concorso è 4 mesi, 3
settimane e 2 giorni del giovane rumeno Cristian Mungiu,
agghiacciante odissea di due ragazze alle prese con un difficile ma
necessario aborto clandestino nella plumbea Romania pre-Ceausescu del 1987,
con tutti gli immani rischi che la cosa comporta. Come molte opere della
“New Wave” (o quasi) rumena degli ultimi anni (basti pensare a The
Death of Mr. Lazarescu di Cristi Puiu), ci si mantiene in
pericolosissimo equilibrio tra la mirabile trasparenza della messa in scena
e una scaltrezza drammaturgica e produttiva sconcertante. Non si sa
veramente da che parte pendere. è
vero, c’è molta macchina a mano a seguire i personaggi, pochi stacchi, molti
pianisequenza, molte inquadrature fisse e lunghe “neutrali”, grande
attenzione al tempo “effettivo” di svolgimento della vicenda, ma il motore
primo della rigorosa oggettività di questa narrazione è una gestione
rigidissima, quasi marziale, delle curve e dei picchi drammatici, che si
altalenano in modo quantomeno teatrale, nonostante l’antiteatralità assoluta
della regia. Mungiu, insomma, sa terribilmente bene quello che fa, e sa
costruire con niente una tensione che prende veramente allo stomaco. Basta
uno stacco, un indugio, una focalizzazione “innocente” e automatica su un
personaggio – e si arriva per davvero a tremare insieme alle sfortunate
protagoniste. Tanto che (e questo è un bene) non risulta chiaro fino a che
punto questo sia cinica spregiudicatezza narrativa (non certo avara di colpi
bassi, come quando non si tira indietro dall’inquadrare un feto sanguinante)
e fino a che punto il meccanismo sia invece scoperto, evidente, manifesto,
esplicito: non per niente il film termina con la protagonista che di punto
in bianco guarda verso la macchina da presa, verso di noi. Altro che cinema
povero: il nome che viene da fare davanti a un cinema del genere, in modo
meno paradossale di quel che sembra, è William Wyler. 28/30
Cannes 60. i Premi
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