festival DI CANNES

 

16/27:05:2007

CANNES

 

IL COMMENTO ALLA 60.ma edizione

di Marco GROSOLI

 

Una delle migliori selezioni degli ultimi anni, con il verdetto più coraggioso degli ultimi anni. Non tanto per il rumeno Palma d'Oro, ottimo film ma pur sempre diligentemente accademico. Piuttosto, non si cessa di rimanere increduli per il Gran Premio alla Kawase, sacrosanto ma su cui nessuno avrebbe scommesso due lire, come l'altrettanto meritata Palma d'Oro all'attrice di Secret Sunshine di Lee Chang-Dong. Filmacci pseudoautoriali e pseudomidcult come quelli di Schnabel e Akin, fatti cinicamente a misura di Festival, si sapeva da subito che sarebbero stati premiati in qualche modo. Discorso simile anche per Reygadas, con l'aggravante, rispetto agli altri due, che premiare un film come il suo è davvero un equivoco imbarazzante.
Un grosso passo avanti per la direzione (finora zoppicante) di Thierry Fremeaux, che dà un'indicazione molto precisa sul futuro del cinema (almeno quello d'autore), ribadita dal vincitore Cristian Mungiu durante la premiazione: Il futuro, da qui in poi, sarà dei film a basso costo. E sarebbe ora che anche in Italia si cominciasse a capirlo.

 

 

vincitore della palma d'oro

4 months, 3 weeks and 2 days

4 luni, 3 saptamini si 2 zile

di Cristian Mungiu

Romania 2007, 113'

 


Altro film in concorso è 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni del giovane rumeno Cristian Mungiu, agghiacciante odissea di due ragazze alle prese con un difficile ma necessario aborto clandestino nella plumbea Romania pre-Ceausescu del 1987, con tutti gli immani rischi che la cosa comporta. Come molte opere della “New Wave” (o quasi) rumena degli ultimi anni (basti pensare a The Death of Mr. Lazarescu di Cristi Puiu), ci si mantiene in pericolosissimo equilibrio tra la mirabile trasparenza della messa in scena e una scaltrezza drammaturgica e produttiva sconcertante. Non si sa veramente da che parte pendere. è vero, c’è molta macchina a mano a seguire i personaggi, pochi stacchi, molti pianisequenza, molte inquadrature fisse e lunghe “neutrali”, grande attenzione al tempo “effettivo” di svolgimento della vicenda, ma il motore primo della rigorosa oggettività di questa narrazione è una gestione rigidissima, quasi marziale, delle curve e dei picchi drammatici, che si altalenano in modo quantomeno teatrale, nonostante l’antiteatralità assoluta della regia. Mungiu, insomma, sa terribilmente bene quello che fa, e sa costruire con niente una tensione che prende veramente allo stomaco. Basta uno stacco, un indugio, una focalizzazione “innocente” e automatica su un personaggio – e si arriva per davvero a tremare insieme alle sfortunate protagoniste. Tanto che (e questo è un bene) non risulta chiaro fino a che punto questo sia cinica spregiudicatezza narrativa (non certo avara di colpi bassi, come quando non si tira indietro dall’inquadrare un feto sanguinante) e fino a che punto il meccanismo sia invece scoperto, evidente, manifesto, esplicito: non per niente il film termina con la protagonista che di punto in bianco guarda verso la macchina da presa, verso di noi. Altro che cinema povero: il nome che viene da fare davanti a un cinema del genere, in modo meno paradossale di quel che sembra, è William Wyler. 28/30

 

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