Tre uomini in tre epoche diverse della storia ungheresa. Bellica,
postbellica, postmoderna. Uno (in un'epoca ancora nazionalista, "classista"
e tardoaustroungarica) è un ufficiale, l'altro (nell'Ungheria comunista),
obeso, fa gare agonistiche internazionali a chi riesce a mangiare di più,
l'altro un tassidermista magrissimo, esile esile come la scialba vita
quotidiana e postumana di oggi impietosamente ritratta tra impiego, palestra
e supermercato.
Fino a che arriva il terzo episodio (il migliore), il film è una specie di
"favoloso mondo di Amelie" dove la macchina da presa incalza il grottesco
che viene messo in scena (di per sè piuttosto ributtante, tra eiaculazioni
allo zolfo, budella di porco usate per masturbarsi, vomito e sudore a go go)
con fraseggi pirotecnici e artificiosi fino al fastidio. Poi, man mano che
l'allegoria storico-politica si fa chiara e lo stile si raggela, tutta
questa untuosa (prima ancora che presuntuosa) bulimia stilistica viene
sagacemente ridiscussa. Il tassidermista che muore nel tentativo di
imbalsamare se stesso, è una metafora dello sguardo nell'era del postmoderno
di sorprendente freschezza: quello stesso sguardo fino a quel momento
compiaciutissimo di "ingozzarsi" di beate mangiate, di ingordigia dei sensi
(in un'epoca totalitaria ma spensierata perché galleggiava nell'ottusa
sicurezza di non lasciare alternative disponibili al proprio sguardo)
percependo l'inanità del proprio voyeurismo si scopre meccanico, vuoto,
freddissimo fino a spegnersi, ad autoannullarsi. Non gli rimane che
rivoltarsi su se stesso: è quell'autoreferenzialità che è da tradizione la
parola chiave del postmoderno. Il trionfante occhio beato tra la carne e le
gozzoviglie scopre che il piacere che ne ricavava veniva unicamente dalla
distanza voyeuristica rispetto alla carne viva, e ne muore.
è il postmoderno, e la sua
autodissoluzione nel momento stesso della sua emersione.
è un figlio magrissimo che si
vergogna di un padre ottuso e obeso, lo uccide, lo imbalsama per esorcizzare
la sua golosa vitalità, ma percepisce anche che in questo modo non c'è più
nessuna vita possibile, neanche per lui perché si vede costretto a punire
anche la fame insaziabile del proprio stesso occhio imbalsamatore. Fine
della storia, ma non della Storia, perché il film è incorniciato da un
prologo e un epilogo ambientato nel futuro, che riconosce non solo il
passato ma anche il nostro presente di vuoti (postmoderni) imbalsamatori
della Storia nei detriti in rovina di quest'ultima. Che non si ferma, anche
se non ce ne rendiamo conto, senza bisogno di imbalsamare la Storia o
deriderla/celebrarla con una macchina da presa scatenata.
Voto: 26/30
20:05:2005 |