In realtà Garin Nugroho non è l'unico regista di questo documentario. I
registi sono quattro, ma Nugroho viene portato avanti a mo' di bandiera, per
dare una risonanza maggiore al progetto, perché in patria è un intellettuale
non solo impegnato politicamente ma anche enormemente ascoltato, riverito e
considerato.
Serambi segue la
difficilissima vita post-Tsunami di alcuni bambini, di un giovane studente
universitario e di un padre di famiglia. Tutti hanno in qualche modo perso
qualcuno di importante nell'immane disastro. Sono loro stessi a parlare
della propria vita e a metterla in scena. Seguendo un principio teorico che
ha già diversi esempi di applicazione (il cambogiano Ritty Panh, per dirne
uno), questo tentativo di "recitazione della propria vita" incarna già di
per se una reazione al nulla. Un nulla che trova la sua rappresentazione
agghiacciante e tragicamente immediata nella semplice, inerte presenza di
rovine sparse ovunque nei luoghi in cui si ambienta la situazione.
Il documentario, insomma, è visto come un semplice strumento di aderenza
alla terribilità del Nulla, e da qui diventa uno sfondo per la reazione
vitale che ne consegue. Reazione che non solo ha le fattezze della
"fiction", come nel segmento del padre di famiglia. è infatti presente un
energico controcanto, sostenuto dal giovane studente che veste solo con
magliette del Che, consistente nella necessità della rivendicazione
politica, nella fattispecie nella rivendicazione del popolo degli Aceh
variamente osteggiato dal governo ufficiale. L'accostamento
dell'imperversare (anche visivo) della morte a questo inno di battaglia,
l'identificazione tra distruttività della natura e necessità metafisica
dello scontro come ragione stessa dell'esistere (poco dopo lo Tsunami il
giovane manda un sms con scritto "la rivoluzione è vicina") pare, senza la
minima programmaticità ma con una forza autonoma trascinante, schierarsi
risolutamente contro qualsiasi tendenza a ridurre la tragedia a scontata
compassione, a banalizzare l'evento in una piagnucolosa litania che nasconda
e oscuri i conflitti ancora bruciantemente in corso. Fare sì, insomma, che
lo Tsunami non venga recepito come occasione per uno stucchevole
ottundimento delle coscienze in nome del male comune "morte" che assicuri il
"mezzo gaudio" della depoliticizzazione. Che non siano insomma i morti a
comandare e a occultare i conflitti di cui la vita consiste, come ammonisce
anche Il regista di matrimoni
di Bellocchio anch'esso presente a questo Festival.
Voto: 27/30
21:05:2005 |