LAITAKAUPANGIN VALOT

di Aki Kaurismaki
Finlandia, Germania, Francia,2006,78'

IN CONCORSO

di Valentina DI MICHELE

 

Quando l’assenza è una categoria dell’essere (cinema): Laitakaupungin valot di Aki Kaurismäki

Kaurismäki a Cannes è un po’ come il peperoncino sulle penne all’arrabbiata, un autore amato, riconosciuto, legato alla kermesse francese che l’ha premiato e portato agli onori del pubblico più vasto di tutto il mondo.
Sin dalle origini, il regista finlandese ha scelto una sua via, una riconoscibilità dell’oggetto cinema più nella sua concettualità che nella sua superficie - si riconosce un Kaurismäki dallo humour, dall’apparente non-sense nordico, disperato e nonostante tutto mai sconfitto, più che dalla composizione delle immagini; dal suo citazionismo esasperato più che dal taglio delle inquadrature; dall’amara constatazione di sconfitte esistenziali che sfumano nelle brume notturne più che dai colori della fotografia.
E le brume che contrastano le (poche) luci dell’ultimo capitolo della trilogia ‘Finlandia’, a suo dire omaggio e testamento un vivere quotidiano dedicato alle vecchie e nuove generazioni, contengono, come un guscio elevato a sistema, tutto il cinema di Kaurismäki.
Il problema - a ben guardare - è proprio questo: l’essere un guscio in cui gli stilemi diventano tutto, e la polpa, schiacciata da tanta autorialità, nulla.

La vicenda, questa volta, ruota intorno al ‘vinto’ Koistinen, guardia giurata che spera, senza ribellione e senza reale impegno, in una vita migliore. La sua vita ai margini incrocia un giorno quella di una donna bionda, che lo porterà al carcere e alla rovina.
Non c’è colpa e non c’è redenzione questa volta in Kaurismäki, perché, di fatto, non c’è storia.

Non c’è possibilità di coinvolgimento da parte dello spettatore, che si trova estraneo alla scena, a sorridere di qualche battuta (laconicissima) più o meno riuscita, davanti a personaggi schiacciati su un ‘dover essere’ che presuppone da chi parte di chi guarda uno sforzo immaginativo esasperato.
Per poter apprezzare Lights in the dusk bisogna fare in modo di credere all’irreale messa in scena di una Helsinki popolata da auto ormai rottamate e da fascinazioni noir epidermiche, a personaggi monodimensionali che si muovono lungo direttive e pulsioni emotive monodirezionali.
Tutto accade perché un deus ex-machina lo ha deciso, perché la sorte punisce Koistinen, che, senza ribellarsi, continua a credere nella riscossa, fino ad timidissimo finale aperto su un altrettanto impossibile futuro.
La solitudine, intesa come assenza, diventa una categoria dell’essere cinema. Che si allarga tanto da inglobare, come un blob mostruoso, tutto il film, a partire dallo script.
Un elogio del vuoto che restituisce un vuoto di idee, ed una brutta prova che chiude una trilogia dalle intenzioni sin troppo importanti.

Voto: 18/30

21:05:2005