Quando l’assenza è una categoria dell’essere (cinema):
Laitakaupungin valot di Aki
Kaurismäki
Kaurismäki a Cannes è un po’ come il peperoncino sulle penne all’arrabbiata,
un autore amato, riconosciuto, legato alla kermesse francese che l’ha
premiato e portato agli onori del pubblico più vasto di tutto il mondo.
Sin dalle origini, il regista finlandese ha scelto una sua via, una
riconoscibilità dell’oggetto cinema più nella sua concettualità che nella
sua superficie - si riconosce un Kaurismäki dallo humour, dall’apparente
non-sense nordico, disperato e nonostante tutto mai sconfitto, più che dalla
composizione delle immagini; dal suo citazionismo esasperato più che dal
taglio delle inquadrature; dall’amara constatazione di sconfitte
esistenziali che sfumano nelle brume notturne più che dai colori della
fotografia.
E le brume che contrastano le (poche) luci dell’ultimo capitolo della
trilogia ‘Finlandia’, a suo dire omaggio e testamento un vivere quotidiano
dedicato alle vecchie e nuove generazioni, contengono, come un guscio
elevato a sistema, tutto il cinema di Kaurismäki.
Il problema - a ben guardare - è proprio questo: l’essere un guscio in cui
gli stilemi diventano tutto, e la polpa, schiacciata da tanta autorialità,
nulla.
La vicenda, questa volta, ruota intorno al ‘vinto’ Koistinen, guardia
giurata che spera, senza ribellione e senza reale impegno, in una vita
migliore. La sua vita ai margini incrocia un giorno quella di una donna
bionda, che lo porterà al carcere e alla rovina.
Non c’è colpa e non c’è redenzione questa volta in Kaurismäki, perché, di
fatto, non c’è storia.
Non c’è possibilità di coinvolgimento da parte dello spettatore, che si
trova estraneo alla scena, a sorridere di qualche battuta (laconicissima)
più o meno riuscita, davanti a personaggi schiacciati su un ‘dover essere’
che presuppone da chi parte di chi guarda uno sforzo immaginativo
esasperato.
Per poter apprezzare Lights in the
dusk bisogna fare in modo di credere all’irreale messa in
scena di una Helsinki popolata da auto ormai rottamate e da fascinazioni
noir epidermiche, a personaggi monodimensionali che si muovono lungo
direttive e pulsioni emotive monodirezionali.
Tutto accade perché un deus ex-machina lo ha deciso, perché la sorte
punisce Koistinen, che, senza ribellarsi, continua a credere nella riscossa,
fino ad timidissimo finale aperto su un altrettanto impossibile futuro.
La solitudine, intesa come assenza, diventa una categoria dell’essere
cinema. Che si allarga tanto da inglobare, come un blob mostruoso, tutto il
film, a partire dallo script.
Un elogio del vuoto che restituisce un vuoto di idee, ed una brutta prova
che chiude una trilogia dalle intenzioni sin troppo importanti.
Voto: 18/30
21:05:2005 |