La storia più vecchia del mondo: un uomo e una donna, lungo differenti
stagioni e località, si separano, si illudono di ritrovarsi, si
riallontanano, probabilmente per sempre. Una manna per uno come Ceylan, il
cui precedente Uzak (il film
della sua maturità dopo un paio di tentativi discutibili) usava un
canovaccio esile esile per un imponente lavoro pittorico sull'immagine.
L'approccio in questo IklimlER
(letteralmente "climi") è analogo. Un arpeggio emozionale che se ne frega
delle psicologie (ridotte all'ovvio) ma si sente libero, raccontando, non di
prendere pause descrittive per raccontare con immagini ricercate o fastose,
ma letteralmente di sprofondare la narrazione dentro le immagini. Un cinema
in cui le storie che vengono raccontate abitano e respirano lo spazio che si
trovano ad occupare, trovandosi in preda degli stimoli visivi e sensoriali
circostanti, che rallentano in una contemplatività malinconica lo svolgersi
degli eventi.
Rispetto a Uzak, Ceylan gioca
in modo più articolato con le distanze, che ancora una volta sono il cuore
del film. Non solo, come già nella pellicola precedente, lo splendore delle
immagini è il dolente controcanto della mancanza sofferta dai personaggi, ma
la vicinanza è lì dove loro non se la aspettano. Il protagonista (Ceylan
stesso) fa le prove tra se e se sulla spiaggia su cosa dire alla compagna
che è andata a nuotare e che vuole abbandonare, poi si sposta e scopre lei
stessa che stava lì dietro e l'ha sentito. Poco prima del loro ri-incontro,
il riflesso su un vetro unisce nella lontananza lei al di qua e lui al di là
della finestra che nemmeno si guardano, se non per un attimo. Ma questo si
vede soprattutto nella straordinaria scena di sesso con l'amante di lui, che
stravolge (in piano sequenza) l'intimità assoluta in legnosa goffaggine e
meccanicità, quasi alle soglie di Kafka. Come pure nella toccante nottata
trascorsa dai due protagonisti appena prima dell'addio definitivo, lei che
dorme e lui insonne, in un seguito di inquadrature in cui la tattilità
estrema delle immagini, dovuta a un sapiente gioco di elementi in primissimo
piano e quasi attaccati all'obiettivo della telecamera, si ribalta in una
variazione ripetuta e tagliente di punti di vista e angolazioni di ripresa.
Difficile evitare di cadere nell'estetismo, con un simile approccio. Ma
Ceylan ci riesce, grazie a un miracoloso equilibrio tra la tendenza a tenere
inquadrature lunghe e statiche e l'andatura a stacchi di montaggio che
cambiano le coordinate visive con una certa nettezza.
Eppoi, un esteta sterile della macchina da presa si sarebbe compiaciuto
della successione di estate, autunno, inverno e primavera a punteggiare gli
episodi della narrazione. In
Iklimler c'è estate, autunno, inverno. Niente primavera, niente
illusioni di rinascita, perché il circolo vizioso di vicinanza e lontananza
sta sempre dietro l'angolo, nelle pieghe dello spazio, nella tessitura densa
e grumosa delle inquadrature.
Voto: 28/30
21:05:2005 |