|
|||
|
|||
![]() |
|||
Ventura, lungo tutto il film, pensa a una lettera alla moglie, che non scriverà mai, e continuamente la ripete, la modifica lievemente. Juventude em marcha è questo, è una lettera d'amore al mondo, un'attestato di dedizione estrema e disperata verso quel mondo che guarda senza illudersi di poter toccare. D'altra parte, Ventura non si illude certo di poter riavere la moglie. Il che significa insistere in una cura dei materiali filmici spaventosa, anacronistica; viene in mente John Ford per l'attenzione estrema alle ombre, alla luce (che comunque viene dopo le ombre), alle angolazioni, ai punti di fuga, alle proporzioni grafiche, ai movimenti dei personaggi (rari ma, in virtù del gioco vettoriale, di profondissima incidenza sui valori del quadro). Il tutto senza la minima impressione di artificio decorativo o velleità artistica. Perché il mondo non è la materia prima da sfruttare per produrre l'immagine, ma il mondo è già di per sé immagine, ovvero la forma nascosta nell'illusione dell'informe. Le rovine putrescenti di Fontainhas non sono informi, ma hanno già in sé una forma che il cinema (o perlomeno i grandissimi cineasti come Pedro Costa) deve saper leggere senza metterci il becco con le proprie smanie artistoidi. Costa lo sa fare, e da maestro, così come dà un nome, un volto, un corpo e una luce a persone cui tutto questo è stato rubato. Ed è la durata che fa di questo amalgama di tecnica sopraffina, al servizio del mondo “in quanto” immagine, un'alchimia potentissima e umanissima: perché ci immerge e ci fa respirare insieme alle storie che sentiamo raccontare.
28:05:2005 |