Nel cortile di una casa africana si tiene un bizzarro processo in cui
l'Africa tutta accusa nientemeno che la Banca mondiale. Intanto, il mondo
“reale” che gravita intorno continua le sue faccende domestiche. Ma la
tragedia è dietro l'angolo.
Ottimo esempio di cinema politico, che non si illude di poter “dire”
qualcosa su un certo tema, a dunque tesse un accorto contrappunto tra il
processo e le sue arringhe e la realtà circostante, che nella sua
impenetrabilità simultaneamente zittisce e dà ragione a quello che si dice
“in aula”. Il cinema “al gerundio” di Sissako, un cinema che dà tempo al
tempo e lascia compiere le azioni rappresentate nella loro estensione
temporale senza forzarle in una verticalità particolare, nega la possibilità
di un discorso che chiuda la questione “africa” e rivendica la necessità
ineliminabile che venga lasciata aperta una finestra sul concreto. Senza, va
ribadito, che questo concreto possa poi definitivamente essere detto da un
qualche discorso: lo sbilanciamento, questa spaccatura tra dire e fare, è
ineliminabile e costitutivo dello sforzo politico.
Un esempio: il fotografo all'inizio del film dice di non voler immortalare
il processo perché l'unica cosa che si può fotografare sono i morti, ma la
morte stessa non può essere “definitivamente” immortalata. Nel film ci sono
infatti due modi di riprendere la morte: uno è quello del segmento
western posto a metà film, ed è il modo “sbagliato” perché il “voler dire”
dello spettacolo violenta la concretezza della morte, l'altro è quello
finale della telecamerina digitale che riprende il ragazzo ucciso, ed è il
modo “giusto” perché arriva “in ritardo” rispetto all'atto stesso. Il
concreto (e la morte è la concretezza per eccellenza) non può essere detto,
e questo fossato tra le due cose va tenuto sempre aperto. Il film lo sa, e
lo fa.
Voto: 28/30
28:05:2005 |