di Manuela NASTRI

Moolaade' del regista senegalese Ousmane Sembene, al suo ottavo lungometraggio, tratta dell'infibulazione, che in alcune tribù africane si è soliti fare ancora oggi e che spesso provoca delle vittime tra le giovanissime. A mio avviso, però, la forza di questo film girato da un regista che ha più di settant’anni, sta nella resa visiva piuttosto che nel tema drammatico che affronta. Sta dunque nella fotografia, che riesce a far trasparire le mille luci, i bagliori e gli infiniti colori del continente africano. Ma sta anche nell’utilizzo dei suoni: i lamenti dei bambini, i versi degli uccelli, i tamburi lontani...  ta tam, ta tam ta tam...  

Moolaade' è un film costruito con campi molto ampi, le azioni principali si svolgono con molto piacere in secondo piano, sullo sfondo, mentre in primo piano sono mostrati oggetti, panni stesi al sole, sagome in controluce... Questa scelta di regia fa di questo film una pellicola che lascia ampio spazio alla visione, che ci permette di attraversare con lo sguardo quelle piazze, quel mercato, che ci lascia riposare all’ombra di quel grande albero sullo schermo. è una senzazione che mi riporta alla mente, la libertà di visione dei campi lunghissimi di Ford, anche se nel caso del cineasta irlandese si trattava di un altro tipo di paesaggio. Moolaade' si oppone alla semplicità dei documentari National Geographic, per mostrarci il cuore dell’Africa, le azioni quotidiane, i rituali, l’attrazione ripulsione per il mondo occidentale. Esemplare è la scena del ritorno dalla Francia del promesso sposo. Lui è vestito all’occidentale, in giacca e cravatta beige, scarpe eleganti, e ventiquattrore, mentre in contrapposizione gli abitanti della tribù sono vestiti con colori caldi e nessuno calza scarpe... ma tutti lo accolgono come si farebbe ad un re.

 

Voto: 30/30 a Moolaade'

 

Cannes: ieri è stato il turno di Shrek 2. Inizialmente ero perplessa, sono una di quelle poche persone rimaste a cui il primo film non era piaciuto, non mi aveva divertito, un’americanata come si suol dire costata tanti soldi. Poi, però, durante la proiezione mi sono ricreduta, anzi ho trovato questo film di Andrew Adamson decisamente migliore del precedente a cui fa da sequel. Sarà forse per il personaggio del gatto con gli stivali a cui dà la voce uno straordinario Banderas con il suo sensuale accento spagnolo, saranno le infinite citazioni di famosi film, molto spesso riuscite benissimo; una per tutte quella di Mission Impossible: vi ricordate Tom Criuse quando si cala dal soffitto e gli cade quella famosa goccia di sudore? Ecco, immaginate Pinocchio nelle vesti dell’attore americano... o ancora, un enorme biscotto dal nome Kong che fa il verso al gorilla più noto di tutti i tempi. Insomma, mi sono proprio divertita!

Ad essere stato meno divertente è stato il documentario di Xan Cassavetes Z Channel: a magnificent obsession: troppo tradizionale, con le solite clip tratte da film montate a pezzetti di intervista. Ho trovato più interessante éprouves d’artistes di Gilles Jacob, documentario sul festival di Cannes, che mostra un interessante uso del montaggio con splendide sovrapposizioni e accostamenti insoliti tra spezzoni di film e voci di personaggi illustri estrapolate dalle conferenze stampa. L’effetto è molto piacevole. In realtà quest’opera si pone a metà tra un documentario in senso proprio e un backstage del meglio del peggio degli ultimi Cannes, con zuffe tra giornalisti e registi, attrici che si sistemano gli abiti dietro le quinte delle cerimonie ufficiali, e tanti tanti volti che qui sono passati per premiare o per essere premiati.

 

Voto: 23/30 a Shrek2

Voto: 10/30 a Zchannel

Voto: 28/30 a Eprouves d'artistes

 

Cannes: si parla tanto delle influenze che agiscono sul cinema di Tarantino, i B-movie, gli spaghetti western, i telefilm degli anni settanta, le spy story, i film delle arti maziali.... cioè quell’insieme di immagini che hanno formato da ragazzino il giovane Quentin e che sono rimaste fortemente impresse nella sua mente quasi a formare il suo background culturale, molto più dei libri di Proust o Freud che per altri suoi colleghi fungono da modello.
Qualche sera fa sulla spiaggia di Cannes hanno proiettato Deadlier than the Male, film degli anni sessanta di Ralph Thomas, ed è stato proprio Tarantino, nelle vesti di presidente della giuria a presentare al pubblico questo film, e lo ha fatto dicendo che questa pellicola è tra quelle di cui lui ha “maggior ricordo”.
Il film incomincia, e man mano che va avanti, attraversano nella mia mente sequenza tratte da Pulp Fiction o di Kill Bill e capisco. Capisco che Tarantino non copia, non imita i modelli, non fa remake o cover di cose già viste. Lui acquisisce le immagini, le elabora e le reinterpreta. Ecco che alla fine ritornano anche Proust e Freud... E guardando Deadlier than the Male intuisco perchè Tarantino scelga di riprendere quella scena proprio da quell’angolino in basso a sinistra, piuttosto che frontalmente... intuisco perchè schiaccia in quell’altra inquadratura i bordi superiori ed inferiori dell’immagine rispetto alle proporzioni standard. Ma la capacità di questo regista, non sta solo in quest’elaborazione di modelli, ma nel riattualizzarli in un contesto moderno, anziché post-moderno senza mai sfiorate il kitch o magari sfruttando proprio gli elementi kitch del suo cinema per farne qualcosa di assolutamente mai visto. Ogni suo film, infatti si propone allo spettatore come qualcosa di assolutamente nuovo, un film completamente differente da tutti quelli che si è soliti vedere. Si prenda ad esempio Kill Bill vol.2, fuori concorso a Cannes. La particolarità di questo film, che attenzione non è un sequel del precedente episodio, ma ne è la naturale continuazione, (ha lo stesso rapporto di reciprocità che il terzo Matrix ha con il secondo della serie) è che pur conservando il medesimo stile di Kill Bill vol.1 Tarantino riesce a invertire il punto di vista. Un esempio può essere quello delle scene del matrimonio alla Chiesa dei Due Pini: mentre nel vol.1 c’era uno sguardo che partiva dall’esterno per andare verso l’interno, nel vol.2 abbiamo una prospettiva più emotiva che parte dall’interno per andare verso l’esterno della Chiesa.
Tarantino - qui a Cannes è amatissimo dalla folla a cui si concede per autografi e domande - non è impossibile incontrarlo fuori da qualche sala pronto per assistere a qualche proiezione!

Voto: 30/30 a Deadlier than the Male
Voto: 30/30 a Kill Bill Vol.2
 

Nôtre musique: in assoluto è il film migliore tra tutti quelli visti a Cannes nel corso di questo festival. Godard riesce a stupirci ancora. All’inizio la pellicola si apre come un film di montaggio, come uno di quelli che il regista francese ci ha abituati a vedere da qualche anno a questa parte. È un film sul senso della guerra, che inizialmente ricorda i lavori di Godfrey Reggio, mentre un pianoforte e la voce off trasformano queste immagini di distruzione e morte in una poesia della guerra.

Fine prima parte.
La seconda parte del film è completamente differente. Adesso il film si trasforma in qualcosa di narrativo, cinematografico verrebbe da dire, e al documentario di montaggio si sostituisce un documentaire fictivisante, in cui personaggi celebri (intellettuali, scrittori, cineasti) interagiscono nella vita di una donna, elemento di maggiore finzione del film.
Ad un primo impatto questo film ricorda Passion, per le luci fredde della fotografia, per la dominante cromatica rossa che spezza l’asprezza della luminosità, per le similitudini dei personaggi femminili di questi due film. In Passion, c’era una donna, interpretata dalla Huppert, che era alla ricerca di un perchè su Danzica e sul finale del film Godard ci mostrava la partenza verso questa meta. In Nôtre musique la donna è alla ricerca di una verità sulla questione Israele – Palestina e anche lei parte alla ricerca di questo "perchè", ma questa volta Godard ci mostra le conseguenze di questo viaggio. Altra differenza riscontrabile con Passion, sta nel fatto che mentre allora Godard riproduceva dei tableaux vivents di celebri opere, qui egli preferisce citarli esplicitamente inserendo illustrazioni dei quadri di cui parla…

Fine della seconda parte.
Terza parte: il Paradiso. La fotografia si riscalda improvvisamente, privilegiando totalità meno fredde. Il Paradiso è un luogo asettico, dove la protagonista vaga nel silenzio, dove gli unici suoni sono prodotti dalla natura, non dagli umani. Lei cammina, qualcuno le indica la strada, le mostra dove andare, dove camminare, fino a quando troverà un nuovo Adamo che le porgerà una mela da mordere. La Genesi: fine del film.

Voto: 30/30 a Nôtre Musique

 


Quando si assiste ad un film di Michael Moore si resta inizialmente perplessi e ci si pone d’obbligo una domanda: “Come può un’autore sparare contro il Sistema, contro i rappresentanti del Potere, fare nomi, cognomi, mostrare volti… senza non solo rischiare querele, ma anzi riuscendo a proiettare il proprio film addirittura al Festival di Cannes?” - mentre in Italia, per molto meno, alcuni programmi televisivi hanno chiuso i battenti!

Per prima cosa è bene precisare, che Fahrenheit 9/11, l’ultimo film di Michael Moore appunto, quasi sicuramente non uscirà negli States: perchè in questo documentario chi viene preso di mira è il presidente George W Bush Jr. in persona! Lo dileggia con sarcasmo, certo, con quel tipico humour nero che in parte ci diverte e in parte ci fa riflettere. Moore non dice nulla che non fosse già noto: che Bush avesse avuto rapporti d’affari con la famiglia Bin Laden lo si sapeva già; che Bush stesse leggendo favole ai bambini in una scuola elementare mentre due aerei facevano crollare le torri, era noto a tutti; che né l’Iraq, né l’Afghanistan avessero armi nucleari, non è una novità. Ma allora cosa dice di nuovo Fahrenheit 9/11?

Fahrenheit 9/11 ci mostra le immagini che non abbiamo mai visto, così come ci fa rivedere immagini che probabilmente abbiamo dimenticato e ci ricorda la storia di questo Presidente: il suo background, la campagna elettorale, le elezioni presidenziali in Florida, le torri, la guerra… le vittime della guerra. Ma Michael Moore ci mostra anche qualcosa che non immaginavamo, ad esempio due ufficiali che fanno il giro dei centri commerciali, cercando di persuadere i giovani ad arruolarsi. Oppure il make up di certi politici prima delle riprese televisive.

A mio avviso, però, la scena più forte si rivela quella in cui lo stesso Moore intervista i senatori americani chiedendo loro se sacrificherebbero mai la vita di un loro figlio per il bene della Nazione.
 

Voto: 30/30 a Fahrenheit 9/11