Sono alte, le pagelle di Kinematrix. Sin troppo per un festival che la
stampa francese ha ribattezzato, impietosamente, "Calmes". Sono alte per un
Concorso che ha offerto poche sorprese e ancor meno buoni film, che ha
deluso molto e lasciato quell'amaro in bocca che un grande festival non
dovrebbe conoscere.
I voti che abbiamo assegnato a 15 film scelti tra i presenti, dando la
precedenza ad autori a nostro giudizio interessanti o dotati di una visione
cinematografica peculiare, assomigliano un po' a quelle medie che salgono
per autorizzare stiracchiate sufficienze scolastiche.
Sappiamo bene che i fischi che hanno accolto
Haneke corrispondono ad uno
stato di fatto, che Samira Makhmalbaf ha davvero pochi motivi per sentirsi
orgogliosa e che Liberation, uno dei più impietosi quotidiani francesi, è
arrivato a chiedere scusa al pubblico internazionale per il brutto
Swimming Pool di François
Ozon.
Dovremmo fare lo stesso anche noi, per aver spinto ad una competizione tanto
importante un lavoro francamente imbarazzante come quello di Avati, evitando
magari quel campanilismo bigotto che ci apparenta all'ottusità critica
dell'americano Variety, incapace di superare il complesso della lesa maestà
del j'accuse Von Trieriano.
Che dire allora di Denis Arcand, che con
L'invasion barbare ha
impietosamente elencato i mali della società statunitense, quella dei luoghi
comuni che riempiono, involontariamente, la quotidianità barbara di
Elephant di Gus Van Sant?
In un'edizione del festival segnata dall'embargo al contrario del cinema
made in USA, gli Stati Uniti sono stati protagonisti in assenza, raccontati
nei vuoti invece che nei pieni, per quello che manca, per quello che non
(ci) piace.
L'America ipocrita ed autoreferenziale che si attraversa, si adora e non
riesce a staccare gli occhi da se stessa, come il Bud di Vincent Gallo in
The Brown Bunny, o quella
meticolosa, rigorosamente logica di
MysticRiver di Clint Eastwood. L'America degli anni '90 che ha smesso
di colonizzarci l'inconscio, che non è più l'Impero ma un elemento di
disturbo, nonostante le apparenze, dentro un film unico come l'afghano
Osama.
L'Europa, quella dell'euro forte e della paura del futuro, si fa veggente,
come nel Tiresia di Bonello,
rituffandosi in una cinefilie che si fa strumento di conoscenza, tentando di
trovare delle strade nuove da percorrere, dentro e fuori il linguaggio- la
pittura di Sokurov, l'orgoglio della solitudine di Monteiro, il desiderio di
appartenenza della Turchia di Uzak.
I film migliori, o quelli che ci sono e sono piaciuti di più, hanno riempito
le altre sezioni. Sono in molti a pensare che l'opera più originale sia lo
splendido Reconstruction di
Christoffer Boe presente alla Semaine, che hanno apprezzato il Bressane di
Filme de Amor,
Las Horas del Dia di Rosales,
o il delicato Salmen fra Kjøkken
di Hamer.
Abbiamo voluto evitare dei giudizi generici per concentrarci su alcuni
aspetti predominanti, l'interpretazione piuttosto che l'immagine, la tecnica
- piuttosto che il linguaggio.
Separando i valori, cercando (quanto più onestamente possibile) di capire:
perché il cinema, anche quello più insulso e sterile, va rispettato. |